Testo integrale con note e bibliografia
1. La somministrazione nel diritto europeo
Dopo il 1989, anno della approvazione della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori , il diritto al lavoro, il diritto di associazione e di negoziazione collettiva e il diritto alla sicurezza sociale e all’assistenza sanitaria, trovano concretezza con l’approvazione delle Direttive sul lavoro, in primis quella 91/383/CEE del 25 giugno 1991 che reca, tra l’altro, anche disposizioni applicabili ai lavoratori tramite agenzia interinale in materia di sicurezza e salute sul lavoro.
Per quanto attiene l’avviamento al lavoro, nell’ambito europeo viene inizialmente mantenuto un regime tendenzialmente pubblico del collocamento sino alla sentenza della Corte di giustizia Hoefner dell’aprile 1991, che dichiara incompatibile con gli artt. 59 e 90 del Trattato CEE il diritto esclusivo del collocamento al lavoro.
Sin dall’inizio, il settore della somministrazione è sempre stato uno dei più contrastati in ragione della complessità del settore.
La particolarità di tale tipologia di lavoro è rinvenibile nel concorrere di più rapporti all’interno di quello trilaterale costituito dalla somministrazione e, precisamente, quello del lavoratore con l’agenzia somministratrice e quello con il datore utilizzatore, che si accompagnano al corrispondente contratto tra i due soggetti datoriali .
L’accordo quadro, poi inserito nella Direttiva n. 70 del 1999, fu concepito inizialmente per regolare anche il fenomeno somministrazione . Successivamente si decise di abbandonare tale impostazione, rinviando la regolamentazione ad una successiva intesa.
Intesa che non fu poi possibile raggiungere , sicché la materia venne regolata, solo nove anni dopo con la Direttiva 2008/104 nella quale, richiamate tutte le precedenti direttive approvate e, in particolare, anche quella sul lavoro a tempo determinato, si disciplina la fattispecie, cercando di coniugare i due aspetti del fenomeno somministrazione.
Da un lato, infatti, si ribadisce che lo scopo della Direttiva è quella di garantire le condizioni di vita dei lavoratori tramite agenzia interinale che nell’unione «sono caratterizzati da una grande diversità» (considerando n. 10).
Dall’altro (v. il considerando n. 11) si pone l’accento sulle finalità sociali della somministrazione, considerato uno strumento, che «contribuisce (…) alla creazione di posti di lavoro e alla partecipazione al mercato del lavoro e all'inserimento in tale mercato». La Direttiva, infatti (considerando n. 15) chiarisce che la forma comune dei rapporti lavorativi è il contratto a tempo indeterminato.
Su questa “doppia anima” della Direttiva si innestano le differenze con il lavoro a tempo determinato sulle quali, come vedremo, si sono sviluppate le pronunce che hanno seguito l’approvazione della disciplina europea.
2. Le pronunce della Corte di giustizia.
La vicenda esaminata dalla Corte di giustizia nella causa in commento costituisce il quinto intervento della giurisprudenza europea in tema di lavoro somministrato, sicché occorre ripercorrere brevemente il contenuto delle precedenti pronunce.
La prima pronuncia della Corte di giustizia sulla somministrazione è resa nella causa Della Rocca , su sollecitazione del Tribunale di Napoli che aveva posto la questione della applicabilità al lavoro tramite agenzia delle disposizioni in tema di lavoro a termine contenute nella direttiva 1999/70 e, in particolare, della sua clausola 5, par. 1.
Tale applicabilità, come si è visto in realtà esclusa dalla legislazione europea, veniva recuperata dal giudice remittente sulla base di un accenno fatto nel § 36 dell’ordinanza del 15 settembre 2010, Briot (C 386/09, EU:C:2010:526) dal quale emergerebbe che il rapporto di lavoro tra l’agenzia di lavoro interinale e il lavoratore interinale era soggetto all’accordo quadro, poiché la direttiva 2008/104 (all’epoca in attesa di recepimento in Italia), riguarda soltanto il rapporto di lavoro tra quest’ultimo e l’impresa utilizzatrice ».
La Corte conferma invece la non applicabilità della Direttiva 1999/70, precisando (§ 43) che nella sentenza Briot la questione riguardava l’esercizio di diritti conseguenti ad un trasferimento di azienda che fossero sorti in capo al lavoratore, il cui contratto di somministrazione era cessato prima del trasferimento, nell’ipotesi in cui fosse intercorso altra tipologia di contratto, ad esempio di contratto a tempo determinato.
La sentenza costituisce così una prima conferma della tendenza a valutare con maggiore interesse l’esigenza di flessibilità e elasticità dell’economia, nell’ottica di aumentare il volume globale dell’occupazione. Tanto si persegue anche con la fornitura di lavoro temporaneo che consente di cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione e, nello stesso tempo, favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro .
Insomma, come correttamente affermato , mente la Direttiva 1999/70 sul lavoro a termine avrebbe una funzione «antagonista» della legge rispetto al mercato, tendendo a «imporre autoritativamente il beneficio della stabilità del posto di lavoro» (clausola 5, punto 2, lett. B, direttiva citata ), quella sulla somministrazione sarebbe diretta «soltanto a predisporre le condizioni affinché questo beneficio possa essere un possibile effetto virtuoso dei meccanismi spontanei che si intendono favorire».
In realtà, come vedremo, questa tendenza, verrà poi temperata nelle successive sentenze.
Nella successiva sentenza AKT , si tratta invece di un quesito proposto dal tribunale del lavoro finlandese in merito alla portata dell’art. 4.1 della Direttiva, secondo il quale i «divieti o le restrizioni imposti quanto al ricorso al lavoro tramite agenzie di lavoro interinale sono giustificati soltanto da ragioni d'interesse generale che investono in particolare la tutela dei lavoratori (…), le prescrizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro o la necessità di garantire il buon funzionamento del mercato del lavoro e la prevenzione di abusi».
Nella fattispecie, una società aveva utilizzato lavoratori somministrati nella sua attività di assistenza agli aerei negli aeroporti finlandesi. Il sindacato ricorrente aveva chiesto la condanna della società ad una sanzione prevista dal contratto collettivo applicabile perché la stessa utilizzava in via continuativa personale somministrato in sostituzione di personale mancante. La società sosteneva invece la legittimità delle sostituzioni, finalizzate a coprire i vuoti imputabili a ferie e malattia del personale ordinario.
Il tribunale finlandese chiede alla Corte se la limitazione nell’utilizzo di personale somministrato prevista dal contratto collettivo osti all’art. 4.1 della Direttiva.
La Corte esclude che l’art. 4.1 vieti restrizioni nell’utilizzo del lavoro interinale da parte dei contratti collettivi: «esso si rivolge unicamente alle autorità competenti degli Stati membri, imponendo loro un obbligo di riesame al fine di garantire che eventuali divieti o restrizioni imposti quanto al ricorso al lavoro tramite agenzie di lavoro interinale siano giustificati e, dunque, (…) lo stesso non impone alle autorità giudiziarie nazionali l'obbligo di disapplicare qualsiasi disposizione di diritto nazionale che preveda divieti o restrizioni imposti quanto al ricorso al lavoro tramite agenzie di lavoro interinale che non siano giustificati da ragioni di interesse generale ai sensi del suddetto articolo 4, paragrafo 1».
Come si vede, quindi la Corte comincia a fissare dei limiti a tutela dei lavoratori.
La sentenza Betriebsrat non aggiunge molto al concetto di somministrazione. La vicenda riguardava infatti il caso di un’associazione (formalmente) costituita senza scopi di lucro, che forniva personale aderente all’associazione stessa ad una clinica infermieristica per lo svolgimento delle medesime mansioni (e godendo di un trattamento simile a quello degli altri lavoratori assunti). Si trattava, all’evidenza, di una somministrazione di lavoro che ha trovato l’opposizione del Consiglio di azienda.
Il giudice del lavoro tedesco (Bundesarbeitsgericht), chiedeva alla Corte se fosse giustificato il rifiuto dei rappresentanti dei lavoratori, non essendo il personale inquadrabile come lavoratore subordinato in qualità di aderente all’associazione.
L’esito della causa era scontato tenuto conto dell’ormai granitica giurisprudenza della Corte in tema di lavoro subordinato, secondo la quale «la caratteristica essenziale di un rapporto di lavoro è data dalla circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un'altra e sotto la direzione di quest'ultima, prestazioni in cambio delle quali percepisca una retribuzione ».
Ne consegue che, secondo la Corte, la messa a disposizione di un soggetto, anche da parte di un’associazione senza fini di lucro, di uno dei suoi membri a favore di un'impresa utilizzatrice per erogarvi, a titolo principale e sotto la direzione di quest'ultima, una prestazione lavorativa retribuita, rientra nel campo di applicazione della Direttiva.
Di diverso spessore è invece la sentenza JH . Qui il giudice rimettente, il Tribunale di Brescia, investito del ricorso di un lavoratore somministrato utilizzato ininterrottamente, tramite agenzia interinale, dal 3 marzo 2014 al 30 settembre 2016 in mansioni operaie di addetto al tornio presso l’azienda KG.
Cessato il rapporto, il lavoratore si è rivolto al Tribunale del lavoro di Brescia chiedendo fossero dichiarati illegittimi i contratti di somministrazione e che venisse accertata l’esistenza di un rapporto di lavoro direttamente con l’azienda somministrata e che questa fosse condanna a riassumerlo. Ha anche formulato una questione di pregiudizialità per ritenuto contrasto della normativa nazionale con la Direttiva 2008/104, segnatamente con l’art. 5, paragrafo 5 (che all’epoca, prima dell’approvazione delle misure di cui al decreto dignità, lasciava senza limiti temporali la somministrazione.
Il Tribunale di Brescia, con ordinanza 16 ottobre 2018, condividendo le osservazioni della parte ricorrente, sollevava la richiesta questione pregiudiziale nei seguenti termini: «Se l’articolo 5, paragrafo 5, [della direttiva 2008/104] debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione del decreto legislativo n. 276/2003, come modificato dal decreto-legge n. 34/2014, che: a) non prevede limiti alle missioni successive del medesimo lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice; b) non subordina la legittimità del ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato all’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo del ricorso alla somministrazione stessa; c) non prevede il requisito della temporaneità dell’esigenza produttiva propria dell’impresa utilizzatrice quale condizione di legittimità del ricorso a tale forma di contratto di lavoro».
Istruito il procedimento, l’Avvocato generale Eleanor Sharpston ha reso le sue conclusioni in data 24 aprile 2020 , conclusioni che sono in gran parte state accolte dalla Corte.
La quale richiama tutte le considerazioni che si sono sinora illustrate, ribadendo la duplice funzione della Direttiva, ovvero la possibilità di creare nuovi posti di lavoro favorendo la flessibilità che consente lo strumento della somministrazione e, comunque, anche la tutela delle condizioni del lavoratore, sia in termini di parità di trattamento che la possibilità di accedere a dei posti di lavoro disponibili (articolo 2).
La Direttiva si propone pertanto anche di consentire ai lavoratori somministrati nell’impresa l’accesso ad un impiego stabile: ed infatti l’art. 6, andando al concreto, prevede espressamente l’obbligo di informazione ai lavoratori impiegati come somministrati delle posizioni lavorative che si rendono disponibili in azienda.
Come abbiamo visto, nella vicenda Della Rocca, il giudice remittente, nell’individuare una possibile tutela del lavoratore abusato dalla somministrazione era partito da un inciso rinvenuto nella sentenza Briot, che la Corte ha ritenuto non appropriato.
Nella vicenda JH, invece, il Tribunale di Brescia chiede chiarimenti all’esito della sentenza Sciotto , sulla base del principio, più volte applicato dalla Corte, che il giudice nazionale «nell’ipotesi in cui una direttiva non possa produrre effetti diretti nel giudizio principale, deve fare tutto ciò che rientra nella sua competenza, prendendo in considerazione tutte le norme del diritto nazionale mediante tutti i metodi di interpretazione ad esso riconosciuti, per conseguire il risultato perseguito dalla direttiva» .
E la sentenza Sciotto era intervenuta disponendo che, in caso di abuso nell’utilizzo dei contratti a termine, la “clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale le norme di diritto comune disciplinanti i rapporti di lavoro, e intese a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato tramite la conversione automatica del contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato se il rapporto di lavoro perdura oltre una data precisa, non sono applicabili al settore di attività delle fondazioni lirico-sinfoniche, qualora non esista nessun’altra misura effettiva nell’ordinamento giuridico interno che sanzioni gli abusi constatati in tale settore».
La pronuncia sembrava contraddire la giurisprudenza precedente della Corte che aveva costantemente affermato che la clausola 5.2 della Direttiva non era di applicazione diretta (e infatti il dictum della Sciotto è poi stato chiarito, sul punto, nella recente sentenza sugli insegnanti di religione del 13 gennaio 2022 ).
Sulla scorta dell’apparente apertura circa la diretta applicabilità della clausola 5 affermata nella sentenza Sciotto (in realtà fondata sulla ritenuta discriminazione con situazioni analoghe: §71 sentenza) quindi, poiché i rapporti di JH si erano svolti quando non vi era alcuna misura contenitiva nell’utilizzo dei contratti di somministrazione, il Tribunale di Brescia chiede alla Corte se, ove sussista l’abuso, sia consentita o meno la costituzione diretta del rapporto con l’utilizzatore.
La risposta della Corte, sotto questo profilo, è duplice. Nella sentenza viene infatti ribadita la doppia finalità della Direttiva che, ai sensi dell’art. 2, è finalizzata a stabilire un quadro normativo non discriminatorio, trasparente e proporzionato a tutela dei lavoratori utilizzati tramite l’agenzia interinale e, nello stesso tempo, tiene conto della diversità dei mercati del lavoro, con particolare attenzione alla necessità di tutelare lo sviluppo di lavori flessibili, con la finalità di agevolare le opportunità di occupazioni stabili (§ 40 sentenza).
Questo duplice obiettivo, apparentemente contraddittorio, trova una sua sintesi in una normativa finalizzata alla flessibilità, individuando comunque un filo conduttore, costituito dal preservare il concetto di temporaneità, come suggerito dall’Avvocato generale Sharpston nelle sue conclusioni, facendo leva sull’obbligo di leale cooperazione derivante dall’art. 4 del TUE e sul principio di interpretazione conforme al diritto dell’Unione.
Gli Stati membri, quindi, si devono attivare al fine di evitare il ricorso abusivo al lavoro a mezzo di agenzie interinali (art. 5.5) e, in particolare, evitare il ricorso a personale somministrato per sopperire ad esigenze di personale permanenti da parte dell’utilizzatore, di fatto elusivi dello scopo della direttiva.
Tanto, in ogni caso, non giustifica il ricorso a specifici strumenti antielusivi, come la limitazione del numero di missioni o un obbligo di indicazione delle ragioni oggettive che giustifichino il ricorso a personale somministrato (§ 42).
Ciò non di meno, il compito degli organi degli Stati membri, giudici compresi, sono tenuti a cooperare per il raggiungimento di tale obiettivo. In particolare, il giudice nazionale, ove investito dell’esame del caso, dovrà tenere conto che il considerando 11 della Direttiva è finalizzato a conciliare l’obiettivo di flessibilità nell’utilizzo di personale da parte delle imprese, conciliandolo con il considerando 15 dove si precisa che la forma comune dei rapporti di lavoro e il contratto a tempo indeterminato. La linea guida nell’esame della fattispecie resta l’art. 5.5 che stabilisce la temporaneità dell’utilizzo dei lavoratori somministrati.
Ciò chiarito, la valutazione del giudice dovrà tenere conto di tre fattori (§ da 69 a 71).
Il primo sarà quello di valutare se le missioni successive del medesimo lavoratore presso la stessa impresa sono tali da far ritenere irragionevole qualificarle come «temporanee», il che potrebbe denotare un ricorso abusivo a missioni successive.
Il secondo, che «missioni successive assegnate allo stesso lavoratore tramite agenzia interinale presso la medesima impresa» rischiano di eludere «l’essenza stessa» delle finalità della Direttiva e costituiscono «un abuso di tale forma di rapporto di lavoro», compromettendo «il voluto equilibrio realizzato dalla Direttiva tra la flessibilità per i datori di lavoro e la sicurezza dei lavoratori a discapito di quest’ultima».
Infine, terzo elemento, il giudice dovrà tenere conto che la mancanza di una ragione oggettiva che giustifichi l’impiego continuo di personale inviato dall’impresa interinale da parte di un’azienda, soprattutto ove ciò avvenga con l’utilizzo del medesimo lavoratore e tenuto conto delle particolari fattispecie esaminate, può far ritenere che una o più disposizione della Direttiva siano state violate.
Pertanto, conclude la Corte, non osta alla Direttiva e, in particolare, all’art. 5.5, una normativa nazionale che non limita il numero di mansioni successive presso lo stesso datore di lavoro da parte di un’agenzia di lavoro interinale e che non impone l’indicazione di ragioni oggettive (di natura tecnica, produttiva, organizzativa o sostitutiva) per il ricorso al lavoro somministrato. È invece contrario alla Direttiva che uno Stato membro non adotti misura alcuna allo scopo di preservare la natura temporanea del lavoro tramite agenzia interinale e che non preveda alcuna misura finalizzata ad evitare l’assegnazione del medesimo lavoratore con missioni successive tramite agenzia interinale al fine di eludere gli scopi della Direttiva.
La Corte demanda quindi al giudice investito della controversia, il compito di valutare le contrapposte esigenze tra le due parti in causa, tenendo peraltro conto di una serie di fattori contingenti legati allo specifico mercato del lavoro.
Nel caso dell’Italia, l’intervento correttivo effettuato con il decreto dignità del 2018 ha restituito alcune certezze, rendendo più agevole il compito del giudice italiano .
3. La sentenza in commento
L’articolo 1 del Gesetz zur Regelung der Arbeitnehmerüberlassung (legge relativa alla messa a disposizione di manodopera, AÜG), del 3 febbraio 1995 disponeva che le agenzie interinali dovessero disporre, per l’esercizio delle loro attività di una specifica autorizzazione delle autorità tedesche, che la messa a disposizione dell’impresa utilizzatrice dovesse avere carattere temporaneo e che la stessa fosse in regola con le disposizioni in materia di previdenza sociale ed alle altre norme disciplinanti i rapporti i lavoro, pena la revoca dell’autorizzazione.
In mancanza di autorizzazione, il contratto di lavoro si intendeva concluso tra il lavoratore somministrato e l’azienda utilizzatrice.
Nel febbraio 2017, l’ AÜG viene riformato, prevedendo una durata massima della somministrazione che, superato il 36° mese si intende trasformato in contratto a tempo indeterminato con l’ente utilizzatore, salvo il consenso del lavoratore alla prosecuzione e un maggiore periodo stabilito dai contratti collettivi.
L’art. 19, § 2, dell’ AÜG prevedeva però che «I periodi di missione anteriori al 1° aprile 2017 non sono presi in considerazione nel calcolo della durata massima della missione», come più sopra stabiliti.
Il primo quesito posto alla Corte, apparentemente formale, è in realtà di non poca importanza. Il giudice tedesco chiede se l’espressione «temporaneamente» utilizzato dall’art. 1 della Direttiva debba riferirsi anche all’ipotesi nella quale il lavoratore sia impiegato su un posto di lavoro permanente e non occupato per sostituzione.
La Corte risponde chiarendo che il termine «non ha lo scopo di limitare l’applicazione del lavoro interinale a posti non previsti come permanenti o che dovrebbero esser occupati per sostituzione». Il termine, dunque, si riferisce alle modalità della messa a disposizione del lavoratore presso l’impresa e non il posto di lavoro da occuparsi presso quest’ultima.
La Direttiva, infatti (§ 33, sentenza), lascia liberi gli Stati membri di regolare o meno i casi idonei a giustificare l’utilizzo dei lavoratori tramite agenzia interinale, limitandosi a prevedere l’introduzione di limiti minimi di garanzia (art. 9,.2 della Direttiva, che prevede il mantenimento di requisiti minimi per il mantenimento delle tutele stabilite dalla Direttiva).
Inoltre (§ 34), il termine «temporaneamente» è utilizzato dall’art. 3 della Direttiva con riferimento all’Agenzia interinale, al lavoratore inviato da questa, all’impresa utilizzatrice e alla missione stessa: pare evidente che è il rapporto con l’agenzia utilizzatrice, sicché è il rapporto con quest’ultima che deve rivestire carattere «temporaneo».
Ancora, (§ 35), il legislatore europeo ha previsto che vengano adottate misure necessarie per evitare il ricorso al lavoro abusivo in violazione dell’art. 5.5. Ne consegue che non è imposto «di subordinare il ricorso al lavoro interinale all’indicazione di ragioni» oggettive per l’uso legittimo di tale tipologia di contratto, né (§ 36) che il lavoratore debba occupare solamente un posto, preso l’azienda utilizzatrice, che presenti carattere di temporaneità.
Infine (§ 37), tali considerazioni non sono in contraddizione con gli obiettivi perseguiti dalla Direttiva, posto che «mirano a stabilire un quadro normativo che tuteli i lavoratori tramite agenzia interinale che sia non discriminatorio, trasparente e proporzionato nel rispetto della diversità dei mercati del lavoro e delle relazioni industriali e a favorire lo sviluppo di forme di lavoro flessibili, la creazione di posti di lavoro e la tutela dei lavoratori tramite agenzia interinale» e, il perseguimento di tali obiettivi, «non esige che i lavoratori tramite agenzia interinale non possano essere assunti per coprire posti di carattere permanente e non occupati per sostituzione», poiché l’occupazione di una posizione lavorativa permanente da parte di un lavoratore inviato da un’agenzia interinale, «può favorire la copertura definitiva di quel posto proprio dal lavoratore interessato».
Con la seconda questione, il giudice tedesco chiede se il diritto dell’Unione imponga che, qualora si ritenga che la messa a disposizione di un lavoratore avviato dall’Agenzia interinale debba necessariamente essere di natura temporanea e se, la violazione di tale condizione, imponga l’accoglimento della domanda di costituzione di un rapporto di lavoro con l’impresa utilizzatrice.
Qui la Corte, conformemente alla sua giurisprudenza, riformula il quesito del giudice (§ 52), nel senso che si chiede «in sostanza, se l’articolo 1, § 1, e l’articolo 5, § 5, della direttiva 2008/104 debbano essere interpretati nel senso che costituisce un ricorso abusivo all’assegnazione di missioni successive a un lavoratore tramite agenzia interinale il rinnovo di siffatte missioni sullo stesso posto presso un’impresa utilizzatrice per una durata di 55 mesi».
Viene allora precisato, alla luce di quanto già stabilito nelle precedenti sentenze che si sono esaminate, che la Direttiva non impone in alcun modo la fissazione di un limite massimo della durata delle missioni né del numero delle stesse (§ 56). Vero è, comunque, che gli Stati membri sono liberi di indicare la misura massima delle missioni e il limite della loro durata al fine di stabilire quando si verifica un abuso, con l’avvertenza che tali indicazioni debbono «necessariamente avere natura temporanea, vale a dire, secondo il significato di tale termine nel linguaggio corrente, essere limitata nel tempo».
Nell’ipotesi in cui lo Stato non si avvalga di tale facoltà, è compito dei giudici nazionali stabilirla caso per caso « alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore (v., in tal senso, sentenza del 18 dicembre 2008, Andersen, C 306/07, EU:C:2008:743, § 52) e garantire, come ha rilevato l’avvocato generale, (…), al paragrafo 46 delle sue conclusioni, che l’assegnazione di missioni successive a un lavoratore temporaneo non sia volta a eludere gli obiettivi della direttiva 2008/104, in particolare la temporaneità del lavoro tramite agenzia interinale».
E qui la Corte ricorda le condizioni individuate nei § da 69 a 71 della sentenza JH e che si sono sopra ricordati, ovvero (1) la durata della missione, valutata a seconda delle circostanze del mercato, (2) l’effettiva compromissione dell’equilibrio tra l’esigenza della flessibilità delle aziende utilizzatrici con la tutela del lavoratore e (3) l’utilizzo del medesimo lavoratore nel corso di missioni successive.
Ne consegue che l’utilizzo del lavoratore per 55 mesi potrà essere valutata, in concreto, come ricorso abusivo alla somministrazione a seconda delle valutazioni del giudice sulla base dei criteri sopra indicati.
La Corte ritiene poi di affrontare preliminarmente la quarta questione che viene interpretata nel senso che il giudice remittente chiede se la Direttiva osti a che la durata della somministrazione possa essere presa in considerazione solo a partire da una certa data ai fini della valutazione sulla effettiva temporaneità e, nel caso, se il giudice possa disapplicare la relativa norma.
In primo luogo, si ribadisce come la Direttiva non imponga agli Stati membri «di prevedere una durata oltre la quale la missione non può essere considerata avvenuta temporaneamente» (§ 68). Si rileva poi che dall’esame degli scopi della direttiva, è inibito che si possa privare «di effetto utile la tutela offerta dalla direttiva 2008/104 ad un lavoratore tramite agenzia interinale che, a causa della durata della sua missione presso un’impresa utilizzatrice, considerata nel suo complesso, sia stato oggetto di una messa a disposizione che non può più essere considerata avvenuta «temporaneamente», ai sensi di tale direttiva» (§ 74). Ovviamente, come di rito, spetterà al giudice nazionale stabilire se tale ipotesi effettivamente ricorra.
Quanto invece alla possibilità di disapplicare una normativa di tal tipo e, segnatamente, quella di cui è causa, secondo la quale il termine massimo esclude la computabilità dei periodi anteriori ad una certa data (che peraltro, nella specie, risultano essere stati svolti senza soluzione di continuità con i successivi), la Corte dapprima precisa (§ 79) che, ove il giudice non intraveda la possibilità di interpretare in modo conforme a quello eurounitario il diritto nazionale, non potrà che disapplicare «all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (sentenza del 18 gennaio 2022, Thelen Technopark Berlin, C 261/20, EU:C:2022:33, punto 30, e giurisprudenza citata)».
Aggiunge però subito dopo (§ 81), che tale principio deve tenere conto che una direttiva, ai sensi dell’art. 288, terzo comma, TFUE , ha carattere vincolante solo nei confronti dello Stato membro cui è rivolta e quindi, anche «se chiara, precisa e incondizionata, una disposizione di una direttiva non consente al giudice nazionale di disapplicare una disposizione del suo diritto interno ad essa contraria se, in tal modo, venisse imposto un obbligo aggiuntivo a un soggetto di diritto privato (sentenza del 18 gennaio 2022, Thelen Technopark Berlin, C 261/20, EU:C:2022:33, § 32 e giurisprudenza ivi citata)», mentre l’Unione può sancire «in modo generale e astratto, con effetto immediato, obblighi a carico dei cittadini solo ove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti».
Pertanto, conclude la Corte, il giudice nazionale non può disapplicare la norma nazionale in una controversia come quella in discussione.
Con la terza questione, poi, «il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 10, paragrafo 1, della direttiva 2008/104 debba essere interpretato nel senso che, in assenza di disposizioni di diritto nazionale dirette a sanzionare l’inosservanza di tale direttiva da parte delle agenzie di lavoro interinale o delle imprese utilizzatrici, il lavoratore tramite agenzia interinale può trarre dal diritto dell’Unione un diritto soggettivo alla costituzione di un rapporto di lavoro con l’impresa utilizzatrice».
Il giudice tedesco osserva infatti che la legge nazionale ha previsto la possibilità di costituzione di un rapporto di lavoro con l’impresa utilizzatrice solo al superamento del 36° mese di impiego come somministrato, ma solo a partire dal 1° aprile 2017, data di modifica della legge nazionale sul lavoro somministrato.
Sulla scorta della soluzione data ai quesiti precedenti è agevole individuare la risposta anche al terzo. Ribaditi gli obblighi degli Stati membri di adeguarsi a quanto disposto dalle Direttive, resta che, se anche un lavoratore di un’agenzia interinale possa far valere la natura abusiva del suo utilizzo presso l’azienda utilizzatrice «non può, alla luce della giurisprudenza richiamata al § 79 della presente sentenza, trarre dal diritto dell’Unione un diritto soggettivo alla costituzione di un rapporto di lavoro con tale impresa».
La soluzione, come già ritenuto più volte dalla Corte. Resta dunque quella dell’azione sulla base della nota sentenza Francovich (§99) che riconosce il diritto al risarcimento del danno .
Quanto al quinto quesito, che concerne la compatibilità della norma nazionale che consente alla contrattazione collettiva di fissare periodi più lunghi per la stipulazione di contratti interinali senza che si applichi il principio del riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato con l’utilizzatore, anche qui, il responso della Corte è scontato.
Il diritto europeo tiene in massima considerazione il ruolo della contrattazione collettiva, consentendo alla stessa, quale istituzione più vicina alle realtà territoriali e ai settori lavorativi di competenza, di intervenire, salvo che non vi sia una violazione di disposizioni vincolanti delle direttive e non venga vanificato lo scopo della normativa europea.
Molte delle stesse direttive, del resto, consistono nel recepimento di accordi raggiunti tra le associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro.
4. Conclusioni
Come si vede, la somministrazione di lavoro si configura come una delle fattispecie contrattuali tra le più contrastate nel mondo del lavoro.
La relativa disciplina deve necessariamente tenere conto, come specificato nella Direttiva 2008/104 e nelle sentenze che si sono esaminate, della duplice necessità da un lato, di garantire la flessibilità alle aziende, spesso spaventate, soprattutto in un periodo storico caratterizzato da ricorrenti crisi che si riflettono sui mercati e che si susseguono incessantemente, dal trovarsi ingessate dalle eccedenze di personale. Senza contare che la flessibilità, comunque, garantisce in genere, comunque, una migliore gestione del personale, in assenza di stabilità del posto di lavoro.
Inoltre, le agenzie di somministrazione consentono la gestione dei lavoratori sul mercato che meglio si adattano alla diversità dei settori e dei mercati che caratterizzano l’attuale Unione europea.
D’altro canto, la situazione di minore sicurezza che contraddistingue i lavoratori somministrati (soprattutto a termine, per quelli a tempo indeterminato il discorso è diverso) è fonte di disagio.
È altrettanto vero però che, in effetti, spesso il lavoro somministrato offre occasioni di lavoro, soprattutto però in settori dove è rinvenibile una certa professionalità e, comunque, chi ha necessità di assumere lo farebbe comunque, somministrazione di lavoro meno, che spesso è un modo improprio di esperire un periodo di prova del lavoratore.
Insomma, come si vede, una situazione complessa e contradditoria che, non a caso, ha richiesto un parto sofferto per una legislazione europea che nella specie, si caratterizza per una normazione difficile e di non agevole comprensione.
Il lavoro della Corte di giustizia, in questi anni, è comunque stato di buon livello.
Pur nell’ottica liberista che contraddistingue la Direttiva 2008/104, la Corte non ha mai perso di vista, nei limiti del concesso, la tutela dei principi fondamentali dei lavoratori.
Certo, la materia scivolosa della Direttiva ha imposto, come si è visto, di caricare i giudici nazionali di compiti gravosi tanto che è stato giustamente scritto che «[s]petta, infatti, al Giudice investito della controversia comporre il delicato equilibrio delle contrapposte esigenze coinvolte. Si tratta di un ulteriore, concreto impulso alla formazione di quella specifica professionalità, ormai richiesta all’operatore del diritto, che non può prescindere dalla specifica conoscenza della legislazione e della giurisprudenza euro – unitaria, e dalla conseguente assunzione di responsabilità nel renderla efficace e vincolante anche all’interno degli ordinamenti nazionali ».
C’è solo da augurarsi che il colloquio con la Corte di giustizia consenta di raggiungere certezze che garantiscano effettivamente, accanto alle esigenze aziendali, anche i diritti dei lavoratori.