testo integrale con note e bibliografia

1. E’ già accaduto - ed è in certa misura fisiologico - di assistere a conflitti interpretativi, anche acuti, diffusi e prolungati, tra la Corte costituzionale e il legislatore: ma il conflitto (in senso a-tecnico) che si sta registrando fin dall’entrata in vigore del “Jobs Act dei licenziamenti” (d. lgs. n. 23/2015) assume connotati inusuali e straordinari, sotto almeno tre profili.
In primo luogo, colpiscono l’estensione, la selettività tematica, la concentrazione e la sequenzialità quasi ritmica dell’opera demolitrice della Corte costituzionale, che ha colpito plurimi e collegati aspetti del combinato disposto del Jobs Act e dell’art. 18 della legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012 (“Legge Fornero”): per la precisione, una decina tra sentenze di incostituzionalità e di rigetto (alcune interpretative: adeguatrici o manipolatrici) che hanno colpito nell’arco di sei anni, rispettivamente, il comma 8° del novellato art. 18 relativo al licenziamento per giustficato motivo oggettivo, e una manciata di disposizioni del Jobs Act dedicate, nell’ordine, alla tecnica sanzionatoria delle “tutele crescenti”, al licenziamento nullo, al licenziamento disciplinare, al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In secondo luogo, poiché a scendere in campo in maniera così impegnativa nei confronti di prodotti normativi che veicolavano la politica del lavoro del Governo è l’organo che sottopone il diritto al vaglio dei valori, si configura oggettivamente un giudizio di disvalore sull’intera filosofia ispiratrice del Jobs Act: si ha, cioè, l’impressione che lo scontro si stia consumando sul piano della politica del diritto, e che, ad essere sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, non sia il mero “diritto” positivo, ma la stessa politica del diritto alla base del Jobs Act..
Infine, la dialettica istituzionale sopra evocata si svolge, in parte, perfino sul piano dogmatico, registrandosi anche sotto questo profilo, non di rado, valutazioni contrapposte tra il Legislatore e la Consulta: con quest’ultima che non sempre esibisce soluzioni convincenti.
Prima di misurare le suesposte affermazioni con gli snodi argomentativi della giurisprudenza costituzionale, e considerato che la vicenda in parola si configura in termini oggettivamente oppositivi nei confronti di una riforma legislativa, è utile osservare che, diversamente da quanto propalato da una diffusa opinione, legge Fornero e Jobs Act sono due tappe di uno stesso processo riformatore, affatto fondato sull’idea di abbandonare la tutela reale in favore di quella indennitaria, bensì teso a differenziare il regime sanzionatorio, basato da quasi mezzo secolo sulla tutela reale, articolandolo in guise diverse e graduate in funzione di plurimi fattori di differenziazione.
Certo, in tal guisa il Legislatore conseguiva il risultato di avvicinare la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi in Italia a quella della grande maggioranza degli altri Paesi europei, in cui la tutela reintegratoria è - da sempre - l’eccezione e non la regola; ma si esponeva alle insidie del giudizio costituzionale di uguaglianza e ragionevolezza, ossia quelli a più elevato tasso di discrezionalità, tale da renderlo difficilmente distinguibile dall’esercizio della funzione legislativa e dall’espressione dell’indirizzo politico.
E infatti è accaduto che la Corte costituzionale, se da un lato ha legittimato l’opzione di ridimensionare la tutela reintegratoria, non esistendo un vincolo costituzionale diretto, ad essa ostativo; dall’altro ha utilizzato con ampiezza i vincoli indiretti costituiti dal principio di uguaglianza e ragionevolezza, pervenendo di fatto a ridimensionare sia i casi di ricorso all’indennizzo, sia le differenze - quella vere - tra la norma statutaria riformata nel 2012, e il Jobs Act del 2015.
La riforma (Legge Fornero e Jobs Act) si era preoccupata anche di differenziare ulteriormente al loro interno - nonché tra Jobs Act e legge Fornero - sia la sanzione reale che quella indennitaria, distinguendo una tutela reale “piena” pei casi di nullità, da una “attenuata” pei casi di ingiustificatezza qualificata, e, analogamente, diverse tutele indennitarie per i casi di licenziamento irregolare, o affetto da ingiustificatezza “non qualificata”.
Si trattava in sostanza di sostituire l’imperialismo della tutela reale con un duumvirato di tutela indennitaria e reintegratoria, somministrata con gradualità e regolata da un criterio di proporzionalità tra il regime sanzionatorio e il disvalore sociale dell’illegittimo recesso.
Perché, dunque, il "contratto a tutele crescenti”, dopo la "riforma Fornero” dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori?
La ragione, a nostro avviso, sta nella natura del rapporto che si è venuto instaurando, fin almeno dalla “riforma Biagi”, tra il legislatore e il variegato ceto dei suoi interpreti.
In effetti, alle potenzialità che il riformato art. 18 poteva esplicare in direzione del ridimensionamento graduale della “tutela reale” del posto di lavoro, buona parte della dottrina e della giurisprudenza hanno posto tali e tanti limiti, di ordine prevalentemente sistematico, da indurre il legislatore ad una reazione forte, protesa a spostare l’equilibrio della novellata norma statutaria in direzione di un ulteriore ridimensionamento, per i neoassunti, della tutela reale, sia nei licenziamenti economici, sia in quelli disciplinari.
Soluzioni diverse sarebbero state possibili se, per esempio, si fosse riconosciuto che, già nel riformato art. 18, legge n. 300/1970, “fatto insussistente” sul piano disciplinare significa semplicemente fatto che non costituisce (non sussiste come) infrazione disciplinare: si sarebbe potuto, per esempio, prevedere che, ai fini della disapplicazione della tutela reale, sia necessario che il fatto, oltre a sussistere come illecito disciplinare, rivesta almeno una «non scarsa importanza» ai sensi dell’art. 1455 c.c., tale da impedire in radice il prospettarsi di paradossi come il licenziamento - illegittimo ma efficace - per l’appropriazione indebita di una risma di carta.
In tal modo, da un lato, si sarebbe conservata una maggiore equità nel ridisegno del regime sanzionatone dei licenziamenti illegittimi; dall'altro, non si sarebbe caduti nell’annichilimento della riforma, cui conduce la tesi, sostenuta in giurisprudenza, secondo cui per “fatto insussistente” dovrebbe intendersi tout court la carenza di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento. Spostandosi sul piano del licenziamento per motivi economici”, si sarebbe potuto legislativamente chiarire ciò che è, a nostro avviso, già era chiaro nel testo legislativo, e cioè che, quando l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della legge n. 300/1970, commina la sanzione reintegratoria nel caso in cui il fatto posto a base del licenziamento sia “manifestamente infondato”, si riferisce all’insussistenza del fatto economico-organizzativo posto alla base del licenziamento, anche se non sia stata provata l’impossibilità di collocare altrove il dipendente all’interno dell’azienda (c.d. “onere di repechage”): soluzione cui poi è tardivamente pervenuta la Corte costituzionale (n. 128/2024), sia pure nel contesto di una decisione centrata sull’incostituzionalità dell'art. 3, comma 2, del Jobs Act nella parte in cui non prevede la tutela reintegratoria in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro.
Senonché, il cronico disallineamento tra il legislatore e i suoi interpreti, ha indotto il legislatore a radicalizzarsi, allontanandosi dalla logica gradualistica della c.d. “Riforma Fornero”, e sancendo l’applicabilità della tutela reale solo laddove il lavoratore licenziato per motivo disciplinare dimostri in giudizio l’insussistenza del “fatto materiale” contestatogli; ed escludendo sempre detta tutela in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Tuttavia, la controversa esperienza applicativa delle due ultime Riforme “Biagi” e “Fornero”, non giustificava illazioni acriticamente ottimistiche; il rischio di un nuovo e ancora più grave corto-circuito tra il legislatore e i suoi interpreti non era stato stroncato dal decisionismo del c.d. Jobs Act.
Ad attendere al varco entrambe (ma soprattutto quest’ultimo) c’era questa volta la Corte costituzionale, di cui prenderemo brevemente in esame le pronuncie più significative in tema di tutele crescenti, licenziamento disciplinare e per giustificato motivo oggettivo, licenziamento nullo.
La differenza tra il novellato assetto statutario e quello del Jobs Act insisteva, da un lato, nella diversa declinazione quantitativa e qualitativa dei casi di illegittimità meritevoli della sanzione reintegratoria, e dall’altro, nella tecnica di quantificazione dell’indennizzo. Essendo ques’ultimo il primo punto d’innesco della diatriba tra Legislatore e Corte Costituzionale, nonché quello che ha avuto maggiore eco mediatica a cagione, forse, del suo avere a oggetto l’istituto simbolo della riforma del 2015 - ossia le “tutele crescenti”, possiamo iniziare la nostra rassegna critica della giurisprudenza costituzionale dalla sentenza n. 194/2018.

2. Secondo la Corte costituzionale, la disciplina sanzionatoria del licenziamento individuale ingiustificato, introdotta dal Jobs Act in luogo della tutela reintegratoria, è incostituzionale “nella parte in cui determina l’indennità in un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione ... per ogni anno di servizio”. Il vulnus costituzionale starebbe nell’essere l’indennità basata sull’“unico criterio dell’anzianità di servizio”, anziché aperto ad una “pluralità di fattori”; e nel suo essere “automatica” – ossia, calcolabile aritmeticamente – , invece che aperto alla “discrezionalità valutativa del giudice”.
Colpisce, intanto, come ciò sia l’esatto contrario di quanto affermato dal Conseil costitutionnel con la sentenza 5 agosto 2015, n. 715.
Chiamata a scrutinare la validité (inter alia) della norma francese gemella di quella italiana scrutinata dalla Consulta, i Sages hanno giudicato “legittima la norma che correla l’indennizzo all’anzianità del lavoratore licenziato”: una norma, cioè, in cui l’anzianità di servizio viene a costituire l’unico criterio al quale è correlata l’indennità di licenziamento, risultandone così legittimato oltralpe un assetto legislativo giudicato incostituzionale in Italia. Due anni dopo il Conseil Constitutionnel ha avuto modo di affermare che il legislatore francese, “rafforzando la prevedibilità delle conseguenze della rupture du contrat de travail”, ha legittimamente perseguito “un objectif d’intérêt général”.
Una così drastica differenza di vedute dei giudici costituzionali di due Paesi con una comune storia giuridica, entrambi membri dell’Unione Eu ropea, e con analogo tasso di garantismo, è segno di divaricazioni culturali nella lettura di norme e principi pressoché identici.
In questa sede, il punto di maggiore interesse riguarda il diverso approccio con cui la Consulta ha affrontato la questione della “prevedibilità” dei costi del licenziamento: insistendo molto sulla “discrezionalità” che dovrebbe necessariamente connotare la funzione giusdicente, quasi che la “dissuasività” (per il datore di lavoro) della sanzione indennitaria riposi (non tanto sull’ammontare, quanto) sull’imprevedibilità e non misurabilità ex ante degli effetti (anche economici) della norma.
Il Governo francese, nella memoria depositata nell’ambito del procedimento intentato con reclamo collettivo dalla CGIL contro l’Italia davanti al Comitato europeo dei diritti sociali, in relazione alla presunta violazione da parte dell’Italia dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, ha osservato che la “sanzione per il datore di lavoro non consiste nell’incertezza intorno alla misura dell’indennità da corrispondere, ma nel dovere di corrisponderla”.
Eppure la stessa Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 63/1966 non si è mostrata certo insensibile al tema dell’incertezza del diritto in una occasione limitrofa e collegata a quella della sanzione del licenziamento illegittimo, quale quella della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto di lavoro non assistito da tutela reale.
Ebbene, secondo la giurisprudenza ad oggi prevalente, “le modifiche apportate dalla L. 92/2012 e dal D.Lgs. 23/2015 hanno fatto venir meno” la “stabilità del rapporto di lavoro, avendo determinato il passaggio da un'automatica applicazione ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile con certezza ad un'applicazione selettiva delle tutele”. Sicché la sopravvenutà “instabilità” dei rapporti di lavoro impedirebbe il decorso della prescrizione in corso di rapporto, potendo tale decorso verificarsi solo nei casi in cui la reintegrazione sia prevista quale unica sanzione contro ogni illegittima risoluzione del rapporto, come accade per i lavoratori pubblici e come accadeva anche per quelli privati nel vigore del testo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, anteriore alla Riforma Fornero, per quei dipendenti cui la norma si applicava. Pertanto, può dirsi con la Corte di Cassazione che dopo la riforma “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato ... , mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
Insomma, dall’incontro tra la disciplina vivente della prescrizione dei crediti retributivi, e la disciplina dei licenziamenti sopravvissuta alla legge Fornero e al Jobs Act, emerge un paradosso o quanto meno una incoerenza: quello per cui l’incertezza della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti sarebbe un disvalore idoneo a impedire la prescrizione dei crediti retributivi, ma, all’opposto, incarnerebbe un valore positivo in quanto rafforzativo dell’efficacia punitiva della sanzione.
Anche sotto questo profilo, dunque, la sentenza della Consulta italiana esibisce un’eccedenza del discorso politico (o se si vuole, dell’attitudine giusdicente) sull’interpretazione costituzionale: ciò si riflette in un regime sanzionatorio dei licenziamenti ingiustificati, irrazionale e instabile - stocastico s’è detto - , per i suoi ingovernati riflessi sulla complessiva disciplina, quali la sconsiderata latitudine (tra sei e trentasei mensilità) del perimetro della affermata “discrezionalità del giudice”, e l’abnorme differenza tra la forchetta del Jobs Act e quella statutaria (tra dodici e ventiquattro mesi), tale da avallare la errata tesi di una netta frattura originaria tra le due riforme del 2015-2018.

3. In realtà, era stata la legge Fornero a immettere nel corpo dello statuto dei lavoratori il principio – rivoluzionario per l’ordinamento italiano – per cui la sanzione reintegratoria, lungi dall’essere il rimedio universale e tipico per i licenziamenti illegittimi nelle imprese non piccole, dovesse essere confinata a casi di illegittimità qualificata.
Uno dei casi in cui si registrava una reale diversità di approccio tra la norma statutaria novellata e il Jobs Act, era quello del licenziamento ingiustificato intimato per motivo oggettivo. Mentre il regime delle “tutele crescenti” generalizza il rimedio indennitario in tutti i casi di ingiustificatezza oggettiva, quello statutario novellato prevedeva che la sanzione reintegratoria sopravvivesse nel caso in cui il “fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” fosse “manifestamente insussistente”.
Ma ancora una volta la Consulta esibisce, con la sentenza n. 125/2022, una sorta di fin de non recevoir operante già sul piano logico-semantico, negandosi la stessa astratta possibilità di concepire una insussistenza “manifesta”.
Ancora una volta si registra la forzata reductio ad absurdum di una previsione normativa finalizzata invece ad ammorbidire la regola della sanzione indennitaria (e non reintegratoria) per il licenziamento per ingiustificato motivo oggettivo.
La norma legale viene, così, linguisticamente delegittimata ricorrendo al paralogismo per cui “la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”.
A questo argomento si è condivisibilmente ribattuto (De Marinis) che l’alternativa secca basata sul binomio sussiste/non sussiste, cui la Corte costituzionale semplicisticamente riconduce il proprio ragionamento, se può valere relativamente alla legittimità del licenziamento - il quale o è legittimo o non lo è - , non è riferibile al fatto posto a base del licenziamento. E infatti, sol che si fosse messa da parte l’attitudine iconoclasta nei confronti (questa volta) del riformato art. 18, si sarebbero potute rintracciare, anche in questo caso, soluzioni meno irrispettose della voluntas legis, ma di taglio comunque garantista: per es., si sarebbe potuto considerare il mancato assolvimento dell’onere di ripescaggio come ipotesi di insussistenza “non manifesta” del fatto; soluzione che avrebbe offerto una interpretatio utilis, e non abrogans, del sintagma dell’“insussistenza manifesta”.
La sentenza del giudice delle leggi, invece, interviene micro-chirurgicamente sulla norma, modificandola nella parte in cui ricollegava la sanzione reintegratoria alla “insussistenza manifesta del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
L’obiettivo era quello di eliminare una differenza irragionevole interna alla norma statutaria, e non quello di censurare le differenze tra il regime “Fornero” e il regime delle “tutele crescenti”.
Fatto sta che all’esito del giudizio si è prodotto un incremento non solo del tasso di protezione del lavoratore, ma anche e soprattutto del differenziale garantistico dei due regimi, in contrapposizione frontale con la politica legislativa del riformatore; un incremento che, al momento, sembra restare al riparo ulteriori censure di costituzionalità, avendo la Consulta, con la sentenza 194/2015, affermato che non si da questione di incostituzionalità quando le differenze di trattamento determinate dalla diversa data di assunzione sono ragionevoli rispetto allo scopo perseguito dal legislatore, che nel caso delle ultime riforme del regime sanzionatorio dei licenziamenti è quello di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di nuova occupazione» (art. 1, comma 7, legge delega n. 183/2014).
Anche in questo caso l’effetto ordinamentale prodotto è quello di una profonda alterazione del rapporto tra legge Fornero e Jobs Act: mentre il legislatore perseguiva il legittimo obiettivo dell’introduzione graduaata di dosi di flessibilità nella disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, la Corte costituzionale ha di fatto imposto una diversa politica legislativa, inducendo un avanzamento garantistico in direzione pan-reintegratoria dell’art. 18, reiterando il messaggio critico nei confronti delle riforme del 2012-2015, e producendo un progressivo ravvicinamento alla disciplina anteriore che si voleva cambiare.

4. L’ennesima censura di costituzionalità della riforma dei licenziamenti realizzata nel triennio 2012-2015 punta ancora l’attenzione sul comma 7 dell’art. 18, nella parte in cui, alla lettera, attribuiva al giudice il “potere” e non il “dovere” di applicare la sanzione reintegratoria al licenziamento per giustificato motivo oggettivo affetto da insussistenza (allora) manifesta del fatto posto a suo fondamento.
La Corte costituzionale fulmina la previsione legislativa, sulla base della constatazione (troppo) ovvia, per cui al giudice non è dato il potere di applicare a suo piacimento la tutela indennitaria ovvero quella reintegratoria (Corte cost. n. 59/2021).
La questione era stata sollevata dallo stesso giudice di merito, e nell’ambito della medesima controversia, da cui era partita la censura di costituzionalità rivolta alla insussistenza “manifesta” del fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo di licenziamento: accogliendo la censura, la Corte costituzionale ha affermato, in sostanza, che non è una buona discrezionalità quella mediante la quale è riconosciuto al giudice il potere di applicare a suo piacimernto la tutela indennitaria ovvero quella reintegratoria (Corte cost. n. 59/2021), e che pertanto detta discrezionalità andava eliminata.
A ben vedere, però, ciò di cui realmente si disquisiva non era la (buona o cattiva) “discrezionalità”, ma il puro e semplice arbitrio che la norma censurata avrebbe conferito al giudice, ove la voce verbale “può” fosse stata da intendersi nel senso di una mera possibilità decisionale affidata al giudice e contrapposta al dovere della funzione giurisdizionale.
A ben vedere, la questione non avrebbe dovuto nemmeno esser posta, perchè, salvo invocare prospettive estreme di neo-costituzionalismo o di neo-pandettismo sconfinante nel realismo giuridico; salvo, cioè, indulgere nell’affermazione - cognitivamente e forse ermeneuticamente oggi scontata, ma ingovernabile negli esiti di diritto positivo - che il potere del giudice sarebbe sempre discrezionale e la giurisdizione sempre “creativa”, va tenuto fermo che (anche) il potere del giudice va riferito a una funzione, la quale è sempre un diritto-dovere, anche laddove ricorrano elementi di “discrezionalità”. Pertanto, quando si dice che il giudice “può” fare qualcosa, si dice sempre che il giudice ha il potere, ma anche il dovere di farlo: che si tratti di applicare regole piuttosto che principi, o norme a precetto analitico piuttosto che norme generali o principi generali.
Il solo codice civile fornisce svariate decine di esempi in cui la norma afferma che il giudice “può disporre” un provvedimento, “ordinare” una condotta, “attribuire” un diritto, “applicare” una disciplina: un esempio, peraltro in qualche modo attinente alla materia in esame, è quello fornito dall’art. 2058 c.c., per cui “il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”.
Orbene, se perfino nell’ipotesi in cui la valutazione del giudice sia “discrezionale” il “può” deve leggersi come un “deve” condizionato al verificarsi del presupposto di legge, a fortiori deve così ritenersi (cioè, che il “può” deve leggersi come un “deve”) quando, come nel caso in esame, la norma sanzionatoria da applicare non abbia elementi di discrezionalità, attenendo la discrezionalità, semmai, alla fattispecie sanzionata (licenziamento carente di fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo), ma non a quella sanzionatoria (reintegrazione cd. “attenuata”).
La Corte avrebbe potuto spazzare via, con una sentenza interpretativa di rigetto o meglio con una ordinanza di manifesta infondatezza, la questione della (malintesa) discrezionalità del giudice nel valutare la “manifesta insussistenza” del fatto, osservando che il giudice gode di “libertà” (ex art. 116 c.p.c.) nel valutare le prove del carattere “manifesto” dell’insussistenza, ma non di discrezionalità nel somministrare la sanzione.
Avendo preso sul serio la inconsistente questione, la Corte costituzionale ha avuto poi gioco facile nel colpire il “falso bersaglio” dell’irragionevole attribuzione al giudice di un potere privo di perimetrazione oggettiva e dunque (non discrezionale, bensì) arbitrario; mentre avrebbe “potuto” (rectius “dovuto”) semplicemente spazzare via (con una ordinanza di manifesta infondatezza), la mal posta questione.

5. Se la sentenza n. 125/2022 censura la norma statutaria novellata per aver condizionato la somministrazione della tutela reale al carattere “manifesto” dell’insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo di licenziamento,. la più recente sentenza n. 128/2024 mette sotto i riflettori la corrispondente disposizione del Jobs Act ('art. 3, comma 2), nella parte in cui questo, (“reagendo” all’attacco giurisprudenziale tendente a sanzionare con la reintegrazione il mancato assolvimento dell’onere di repechage), esclude in assoluto la tutela reale in caso di carenza del giustificato motivo oggettivo.
In questa occasione, tuttavia, si registra una nuova attitudine della Consulta - a composizione peraltro mutata specie nella parte lavoristica - : nel colpire, come ci si attendeva, il bersaglio della mancata previsione della reintegrazione per insussistenza del fatto, la Corte costituzionale decide a sorpresa di focalizzare un nuovo bersaglio, costituito dalla equiparazione della mancata prova dell’impossibilità del repechage alla insussisenza del fatto; sicché, nelle ipotesi di violazione dell’obbligo di repêchage, si applica adesso la tutela solo indennitaria.
Cade così un totem giurisprudenziale che si credeva consolidato: e paradossalmente, cade per effetto di una giurisprudenza costituzionale estemporanea, anziché per effetto di una intentio legis che trapelava chiaramente dalle riforme del 2012-2015.
Peraltro, non è questo l’unico segnale di riapertura esegetica della Consulta , ché analoga attitudine viene esibita nella parte in cui la Corte costituzionale, emulando la virata legislativa effettuata dal Jobs Act con riferimento al licenziamento disciplinare, pone a carico del lavoratore la prova in giudizio della sussistenza del presupposto della reintegrazione nel posto di lavoro (“ ... nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro”).
Intanto, sia chiaro che anche in questo caso, come già nel caso del licenziamento disciplinare, la legge non rovescia affatto la regola dell’onere della prova a carico del datore di lavoro, ma semplicemente addossa al lavoratore la prova (diretta) dell’insussistenza del fatto, onde potersi applicare il più favorevole regime reintegratorio; operando negli altri casi il regime indennitario.
Senonché l’operazione, apprezzabile nella sostanza, appare affrettata sotto il profilo tecnico, per almeno due ragioni.
La prima ragione è che non esiste alcuna analogia né logica né giuridica tra licenziamento per colpa e licenziamento economico, tra fatto “materiale” nell’una e nell’altra fattispecie, tra “fatto contestato” come illecito, e “fatto allegato” come costitutivo di un motivo economico; e dunque non è sulla asserita ingiustificata disparità di trattamento delle due situazioni che può basarsi l’incostituzionalità della norma del Jobs Act.
La seconda ragione sta in ciò, che non sussiste alcuna assimilabilità nemmeno tra la giustificatezza (giusta causa e giustificato motivo) del licenziamento, e la sua causa civilistica: mentre la sentenza in esame opera questo accostamento quando confonde la giustificazione del licenziamento con “la necessaria causalità del recesso”.
Per concludere sul punto, può dirsi che, se la complessiva giurisprudenza costituzionale sul regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi mostra un eccesso di attitudine giusdicente, la sentenza in parola esibisce tratti di eccedenza del pensiero sistematico. Ciò costituisce la spia di un certo disorientamento dell’organo di giustizia costituzionale nella materia politicamente sensibile delle riforme dei licenziamenti dello scorso decennio; organo, per un verso stretto, stretto tra la forte spinta garantista delle prime sentenze, e una iniziale controspinta timidamente in corso; e per altro verso, impegnato a garantire un minimo di coerenza del sistema.

6. Sul versante del licnziamento disciplinare, la sentenza n. 129/2024 ha affrontato la controversa questione della sanzione applicabile al licenziamento intimato a fronte di un illecito che il contratto collettivo o il codice disciplinare contemplino, anche con norma elastica e non espressa, riconducendo ad essa una sanzione conservativa: in sostanza, formulando una norma adeguatrice dell’art. 3 comma 2 del d.lgs. 23/2015, la Consulta riconosce la tutela reintegratoria attenuata qualora il fatto contestato sia in radice inidoneo, per espressa previsione del contratto collettivo, a giustificare il licenziamento, le quali vanno invece equiparate a quelle dell'«insussistenza del fatto materiale».
L’antefatto è noto: anche in virtù del rinvio operato dall’art. 7 St. Lav., alle previsioni degli «accordi e contratti di lavoro», è ingiustificato pure il licenziamento intimato a fronte di una violazione contrattuale per la quale il contratto collettivo applicabile preveda una sanzione conservativa e non risolutiva.
Laddove, poi, il c.d. “codice disciplinare” adotti, come frequentissimamente e forse inevitabilmente avviene, non già la tecnica penalistica della fattispecie tassativa, ma quella della graduazione della sanzione in funzione della gravità dell’infrazione, pur quando questa rientri in un medesimo, amplissimo modello tipologico (ad esempio “negligenza”, “inosservanza degli obblighi di diligenza”, ecc.), deve ritenersi “sproporzionato”, e quindi “ingiustificato”, il licenziamento irrogato a fronte di una infrazione non grave, ma lieve o lievissima (con giudizio che non può non essere demandato, in ultima istanza, al giudice).
Tanto si precisa, non per rammentare, a noi stessi, assunti che erano sostanzialmente pacifici anche prima del c.d. “Jobs Act” e della c.d. “Riforma Fornero”, ma per evidenziare che il problema posto dalla previsione del riformato art. 18, comma 4, St. Lav. - che ascrive alla tutela reale anche le ipotesi in cui «il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» — sta in ciò: che, una volta spezzato il nesso tra ingiustificatezza del licenziamento e diritto alla reintegrazione, quel medesimo nesso riaffiora di fatto laddove si includa tra le ipotesi di reintegrazione anche la violazione delle previsioni contrattuali collettive in tema di sanzioni conservative.
Infatti, tale ipotesi rischia, nell’effettività della regolazione collettiva della materia disciplinare, di verificarsi con elevatissima frequenza, sì da ridurre drasticamente la proclamata marginalizzazione della tutela reale.
Ecco dunque profilarsi la vera novità del Jobs Act in materia di licenziamento disciplinare, consistente nell’eliminazione secca della problematica fattispecie sopra ricordata: sicché, il lavoratore assunto a tutele crescenti che sia stato licenziato per una violazione contrattuale che il contratto collettivo punisce con una sanzione conservativa, diversamente da quello beneficiario dell’art. 18 St. Lav., non potrà aspirare alla tutela reintegratoria, ma solo a quella indennitaria.
Ciò, beninteso, non significa affatto disapplicare il principio di proporzionalità sancito dall’art. 2106 c.c. in termini di «applicazione di sanzioni disciplinari secondo la gravità dell’infrazione», poiché tale principio di “proporzionalità" riguarda il nesso tra “infrazione” e “sanzione disciplinare”; mentre sia l’attuale art. 18 St. Lav., che l’art. 2 del Jobs Act riguardano il nesso tra illegittimità del licenziamento e sanzione applicabile a fronte di tale illegittimità.
E allora, parafrasando la Consulta, la disposizione censurata del Jobs Act implica, da un lato, che il riferimento alla proporzionalità del licenziamento, il cui difetto è attratto all’ambito della tutela solo indennitaria ricomprende anche le ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento con clausola generale ed elastica; e dall’altro, che detta attrazione non valga per le particolari ipotesi di regolamentazione pattizia alla stregua delle quali specifiche e nominate inadempienze del lavoratore sono passibili solo di sanzioni conservative. “In tali ipotesi, il fatto contestato è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento”.
Anche in questo caso la Corte costituzionale esibisce una sorta di timida retromarcia, accompagnando le sentenze più recenti, che hanno reintrodotto la tutela reale in casi in cui il Jobs Act l’aveva esclusa, con contromisure idonee ad attenuarne e perimetrarne gli effetti.
E anche in questo caso, paradossalmente, il tentativo di moderazione dell’indirizzo giurisprudenziale pregresso e in corso produce effetti a-sistematici. Così accade quando la Corte afferma che in caso di previsione espressa di sanzione conservativa non sussiste alcun ‟fatto materiale” che possa essere posto a fondamento del licenziamento, il quale, se intimato, risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva, sì che la fattispecie va equiparata a quella dell’«insussistenza del fatto materiale», con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata. Non si comprende infatti come possa considerarsi insussistente l’illecito posto a base del licenziamento, solo perché il contratto collettivo o kl codice disciplinare prevedano una sanzione conservativa: ciò che attesta il perdurare dell’equivoco tra la proporzionalità come requisito di legittimità, e l’insussistenza del fatto contestato come presupposto di applicazione delle tutela reale.
Ma la sentenza in parola è degna di nota anche per un’altra ragione, più direttamente legata alla logica di questo scritto.
Si legge infatti nella parte finale della sentenza, che “la predeterminazione della sanzione conservativa” per il tramite dell’autonomia negoziale delle parti “consente al datore di lavoro di conoscere in anticipo la gravità di specifiche inadempienze del lavoratore e quindi di adeguare ex ante il provvedimento disciplinare senza correre il rischio di dover subire l’alea di un successivo giudizio di proporzionalità”.
Emerge in questo passaggio - ci pare - un ulteriore disallineamento con la precedente giurisprudenza costituzionale in materia di tutele crescenti (194/2018), giustificato motivo oggettivo (59/2021, 125/2022, 128/2024), nullità (22/2024), vizi formali e procedurali (150/2020) nei licenziamenti.
Non senza difficoltà, invero, si riesce a ricondurre questa invocazione della certezza della norma nell’interesse della parte datoriale - con la connessa stigmatizzazione dell’alea di un successivo giudizio, alla netta svalutazione di questi stessi valori contenuta nella sentenza n. 194/2018 - , che anzi fa della incerta conoscibilità ex ante della sanzione il fondamento della sua dissuasività, e quindi un componente della stessa nozione di sanzione.

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