Testo integrale con note e bibliografia
1) Premessa
Con due articolate ordinanze la sesta sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la valutazione della conformità al diritto dell’Unione europea della disciplina italiana concernente lo status dei ricercatori universitari a tempo determinato .
Le ordinanze si soffermano su diversi istituti della legislazione italiana, che devono essere sinteticamente ricordati: i ricercatori universitari a tempo determinato, il reclutamento dei professori universitari, l’abuso dei contratti a termine nel pubblico impiego contrattualizzato, la stabilizzazione del personale precario nella riforma Madia.
2) I ricercatori universitari a tempo determinato
La l. 30 dicembre 2010, n. 240 (cd. “riforma Gelmini”) di riforma del sistema universitario prevede due uniche posizioni accademiche di ruolo, quelle di professore di prima e di seconda fascia. La figura del ricercatore a tempo indeterminato, introdotta dall’art.7 della l. 21 febbraio 1980, n. 28 e disciplinata dal collegato D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, non è contemplata ed è destinata all’esaurimento .
La l. n. 240/10 introduce, altresì, la figura del ricercatore a tempo determinato , in relazione alla quale l’art.24, co. 1 prevede che, al fine di svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, le università possono stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato.
Il successivo co. 3 consente alle università di assumere ricercatori a tempo determinato, ricorrendo a due tipologie contrattuali:
1) la prima, quella della lett. a (cd. “ricercatori junior”), prevede un contratto di durata triennale, prorogabile per solo due anni a seguito di positiva valutazione delle attività svolte, che può essere stipulato con candidati in possesso di dottorato di ricerca o titolo equivalente, ovvero, per i settori interessati, del diploma di specializzazione medica ;
2) la seconda, quella della lett. b (cd. “ricercatori senior”), è un contratto di durata triennale riservato ai candidati in precedenza titolari di alcuni rapporti (contratti di ricercatore junior, assegni di ricerca o borse di studio o post dottorato per almeno tre anni) o in possesso di alcuni titoli (abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore di prima o di seconda fascia).
Limitatamente ai ricercatori senior, il co. 5 dell’art.24 delinea una procedura valutativa, funzionale all’inquadramento nel ruolo dei professori associati, da avviare durante il terzo anno di contratto, nell’ambito delle risorse disponibili e sul presupposto del possesso in capo al ricercatore dell’abilitazione scientifica nazionale riferita al settore concorsuale oggetto del contratto di cui è titolare . Come è stato osservato, la norma impone agli atenei di valutare il ricercatore al terzo anno del rapporto contrattuale, senza alcuna discrezionalità in ordine all’an di avvio della relativa procedura valutativa, e di inquadrarlo nel ruolo dei professori associati ove tale procedura si concluda positivamente .
L’art.24 della l. n. 240/10 disciplina l’accesso al ruolo di ricercatore a tempo determinato e il passaggio al ruolo dei professori associati per i ricercatori senior, ma nulla dice sulla disciplina del rapporto di lavoro, che è così demandata ai regolamenti dei singoli atenei .
Successivamente all’emanazione della legge Gelmini due interventi normativi hanno riguardato i ricercatori universitari a tempo determinato: 1) l’art.29, co. 2, lett. d) del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (contenente la disciplina organica dei rapporti di lavoro) esclude esplicitamente dal campo di applicazione del capo II (che regola il lavoro a tempo determinato) i contratti a tempo determinato stipulati ai sensi della l. n. 240/10; 2) l’art.22, co. 16 del d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 apporta un’integrazione all’art.3, co. 2 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, riconducendo espressamente i ricercatori universitari a tempo determinato nell’ambito del personale pubblico sottratto alla contrattualizzazione.
2) Il reclutamento dei professori universitari
Il reclutamento del personale docente costituisce una delle pagine storicamente più tormentate del settore universitario . Anche sull’onda di frequenti polemiche a livello mediatico sul nepotismo accademico e sulla scarsa trasparenza delle procedure di accesso alla docenza universitaria la l. n. 240/10 è intervenuta sulla materia, innovando profondamente la disciplina del reclutamento .
Scopo della riforma del 2010 è quello di porre rimedio alle patologie della precedente disciplina, di cui alla l. 3 luglio 1998, n. 210, basata sul sistema delle procedure gestite dai singoli atenei e accusata di eccesso di “localismo”, che si concretizzava nell’assicurare una posizione privilegiata ai candidati interni indipendentemente dai loro effettivi meriti .
Il sistema di reclutamento dei docenti universitari della l. n. 240/10 (simile nell’impostazione a quello già previsto, ma mai entrato in vigore, dalla l. 4 novembre 2005, n. 230) è fondato su un procedimento suddiviso in due fasi: la prima di conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale, la seconda di selezioni tra gli abilitati indette dai singoli atenei.
L’abilitazione scientifica nazionale è una procedura dettata dall’art.16 della l. n. 240/10 e dai regolamenti attuativi, avente il fine di attestare la qualificazione scientifica necessaria per svolgere le funzioni di professore di prima e di seconda fascia . La verifica di tale qualificazione è effettuata, per ciascun settore concorsuale, da un'unica commissione nazionale, i cui membri sono individuati mediante sorteggio nell’ambito di apposite liste.
Come ha evidenziato la giurisprudenza amministrativa, il sistema dell’abilitazione scientifica nazionale non costituisce una procedura concorsuale di tipo comparativo tra i singoli partecipanti, in quanto la commissione è chiamata a valutare il curriculum di studi e professionale dei diversi candidati al fine di verificare il possesso dei requisiti di “maturità scientifica” necessari per poter accedere alle successive procedure per la nomina a professore di prima e di seconda fascia . Non a caso l’art.16, co. 4 della l. n. 240/10 dispone che il conseguimento dell'abilitazione scientifica non costituisce titolo di idoneità, né dà alcun diritto relativamente al reclutamento in ruolo o alla promozione presso le università al di fuori delle procedure previste dagli articoli 18 e 24 della medesima l. n. 240/10.
La seconda fase è finalizzata alla copertura dei posti da professore ordinario e associato, che, in base alla l. 240/10, può avvenire mediante tre diverse modalità:
1) la chiamata all'esito di procedura selettiva aperta a tutti i soggetti in possesso dell'abilitazione scientifica nazionale e ai professori già in servizio (art.18);
2) la chiamata all'esito di procedura chiusa riservata ai ricercatori a tempo determinato senior al terzo anno di contratto in possesso di abilitazione scientifica nazionale, di cui si è fatto cenno nel precedente paragrafo (art.24, co. 5);
3) la chiamata all'esito di procedura chiusa riservata ai ricercatori a tempo indeterminato e ai professori associati in servizio nello stesso ateneo e in possesso di abilitazione scientifica nazionale (art.24, co. 6).
La procedura ex art.18 è aperta alla partecipazione degli studiosi in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale, anche se in servizio presso un ateneo diverso da quello che la attiva, o anche se non prestino affatto servizio in ambito universitario, mentre quelle disciplinate dall’art.24, co. 5 e 6 sono riservate a personale già in servizio presso l’ateneo che procede alla chiamata .
Nelle due procedure riservate la deroga al principio di accesso all’impiego pubblico mediante concorso, sancito dall’art.97 Cost. e ripetutamente ricordato dalla Corte Costituzionale , trova giustificazione: con riferimento al co. 5, l’assunzione in ruolo è disposta in favore di un soggetto che ha già superato una precedente procedura concorsuale, indetta per la stipulazione del contratto di ricercatore senior, venendo ab origine selezionato non soltanto per lo svolgimento delle attività di ricercatore, ma anche in vista di un suo eventuale inquadramento nel ruolo dei professori associati ; per quanto concerne il co. 6, trattasi di meccanismo utilizzabile solo fino al termine dell’anno 2021 e riservato a una categoria ad esaurimento, come i ricercatori a tempo indeterminato .
Occorre ricordare che nell’aggiornamento 2017 al Piano nazionale anticorruzione 2016 l’Autorità nazionale anticorruzione ha raccomandato il ricorso in via eccezionale, o comunque limitata, alle procedure espletate ai sensi dell’art.24, co. 6, in quanto, essendo riservate a soggetti già in servizio presso gli atenei che le attivano, si prestano a inevitabili pressioni e condizionamenti . Anche la Corte dei Conti in sede di controllo ha sottolineato l’elevato numero di chiamate di personale interno agli atenei, giustificando, tuttavia, il fenomeno alla luce del sistema di assegnazione annuale delle risorse ai singoli atenei in termini di “punti organico” . Tali chiamate, infatti, assorbono una quota minore dei punti organico.
4) L’abuso dei contratti a termine nel pubblico impiego contrattualizzato
Le forme flessibili di lavoro nel pubblico impiego contrattualizzato sono disciplinate dall’art.36 del d.lgs. n. 165/01, il cui co. 2 consente alle amministrazioni pubbliche il ricorso al contratto a termine solo a fronte di comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, nel senso che non possono riferirsi a un fabbisogno ordinario e permanente .
L’aspetto più controverso e annoso della materia riguarda le conseguenze sanzionatorie all’illegittima apposizione del termine, regolate dal co. 5 del citato art.36, secondo cui la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione .
Tale disciplina differenziata rispetto al rapporto di lavoro privato, ove è prevista la conversione a tempo indeterminato in caso di violazione delle norme imperative, è stata sottoposta nel corso degli anni sia al vaglio di compatibilità costituzionale, sia a quello di compatibilità eurounitaria.
Per quanto concerne il primo, il Tribunale di Pisa, con un’ordinanza del 2002 , aveva ritenuto la disciplina dettata dall’art.36 del d.lgs. n. 165/01 in contrasto con gli articoli 3 (per la palese disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e lavoratori privati, in quanto preclude ai primi, nel caso di violazione delle norme imperative sul lavoro a termine, la tutela rappresentata dalla conversione del rapporto) e 97 (per violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto l’eliminazione di ogni residua forma di precariato consentirebbe al datore di lavoro pubblico di potersi avvalere di professionalità più motivate, in ragione della stabilità delle funzioni attribuite) della Costituzione.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 89 del 2003 , ha rigettato la questione, evidenziando il fondamentale principio in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art.97 Cost.. Le argomentazioni del Tribunale di Pisa, che muovevano dal presupposto della piena e completa assimilazione del lavoro pubblico a quello privato a seguito dell’avvenuta contrattualizzazione del primo, sono state, quindi, disattese dalla Consulta, secondo la quale la previsione di conseguenze a carattere esclusivamente risarcitorio per il caso di violazione delle norme imperative sul lavoro a termine nell’impiego pubblico è giustificata dalla differente disciplina del procedimento costitutivo che caratterizza i due rapporti.
Per quanto concerne la compatibilità eurounitaria, il Tribunale di Genova, con un’interessante ordinanza del 2004 , aveva rimesso alla Corte di Giustizia europea la questione della conformità del citato art.36 alla direttiva comunitaria n. 99/70/CE, in particolare del meccanismo sanzionatorio limitato al solo risarcimento del danno con esclusione della conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato.
La Corte di Giustizia si è pronunciata nel settembre 2006 , ritenendo la normativa italiana, che prevede il risarcimento del danno subito dal lavoratore a seguito del ricorso abusivo della pubblica amministrazione a una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato, conforme alla direttiva n. 99/70/CE. Tuttavia, ha rimandato al giudice italiano il compito di valutare in quale misura le condizioni di applicazione, nonché l’attuazione effettiva, dell’art.36 del d.lgs. n. 165/01 ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte della pubblica amministrazione.
La Corte di Giustizia ha ribadito tali conclusioni nel 2010 e nel 2013 , precisando in quest’ultima occasione che la conseguenza risarcitoria è misura conforme al diritto eurounitario a condizione che la prova da addurre per ottenere il ristoro non renda impossibile, o eccessivamente difficoltosa, la tutela del lavoratore.
Come è stato sinteticamente ed efficacemente osservato, la conclusione che si può trarre dalle pronunce dei giudici di Lussemburgo è che l’adeguatezza della misura italiana vigente per il settore pubblico non è un dato apodittico, ma è da dimostrare .
I giudici di merito sono stati, quindi, chiamati a risolvere la non facile questione loro rimandata dalla Corte UE, adottando, in mancanza di previsioni normative, variegate ed eterogenee soluzioni .
E’ stata evidenziata, alla luce della non uniformità degli indirizzi giurisprudenziali e del perdurante silenzio del legislatore, l’ineludibilità di un intervento nomofilattico delle sezioni unite della Corte di Cassazione e tale auspicio è stato fatto proprio dalla sezione lavoro nel 2015 .
A breve distanza di tempo è stata depositata l’attesa pronuncia delle sezioni unite , che con un’ampia e articolata ricostruzione hanno ritenuto compatibile con l’ordinamento dell’Unione europea il regime sanzionatorio predisposto dal legislatore italiano per il ricorso abusivo al contratto a termine da parte delle amministrazioni pubbliche.
I tratti salienti della pronuncia possono essere sintetizzati come di seguito:
1) anzitutto, nell'area dell’impiego pubblico la violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori non può comportare la conversione dei rapporti flessibili in rapporti a tempo indeterminato ;
2) il danno risarcibile ex art.36 del d.lgs. n. 165/01 non deriva dalla perdita di un posto di lavoro a tempo indeterminato, non essendo mai sussistita per il dipendente precario tale prospettiva, ma da una prestazione di lavoro svolta in violazione di norme imperative; in altri termini, il pregiudizio sofferto non è la perdita di quello specifico posto di lavoro ottenuto solo per un periodo limitato anziché a tempo indeterminato, ma la perdita di chance di conseguire, con percorso alternativo, l’assunzione mediante concorso nel settore pubblico o la costituzione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato con datore di lavoro privato;
3) il danno risarcibile ex art.36 del d.lgs. n. 165/01 si qualifica come “danno comunitario”, il cui risarcimento è configurabile quale sanzione ex lege a carico del datore di lavoro pubblico con esonero dal relativo onere probatorio per il lavoratore, che deve limitarsi a provare l’illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze falsamente indicate come straordinarie e temporanee ;
4) la quantificazione del danno viene effettuata attraverso l’applicazione dell'indennità di cui all’art.32, co. 5 della l. 4 novembre 2010, n. 183 (disposizione abrogata, ma sostanzialmente riprodotta dall’art.28 del d.lgs. n. 81/15);
5) al dipendente pubblico rimane, comunque, la possibilità di provare che le chances di lavoro perse, in quanto utilizzato in reiterati contratti a termine non conformi alla legge, si siano tradotte in un danno patrimoniale più elevato.
Secondo le sezioni unite la forfettizzazione prevista dal citato art.32, co. 5 della l. n. 183/10 (tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale), unita all’agevolazione sul versante dell’onere probatorio, nonché alla possibilità di provare i maggiori danni patiti, è idonea a svolgere la funzione sanzionatoria equivalente, effettiva e dissuasiva richiesta dalla giurisprudenza europea.
Pur tenendo in debito conto le numerose e autorevoli critiche espresse , a modesto (e piuttosto isolato) avviso di chi scrive, deve essere apprezzato il notevole sforzo ricostruttivo ed ermeneutico svolto dalle sezioni unite per (tentare di) fissare alcuni punti fermi in una materia caratterizzata dall’assenza di chiari riferimenti normativi e da un quadro giurisprudenziale molto intricato .
Le riportate conclusioni della Suprema Corte sono, però, state messe in discussione dai giudici di merito. Due ordinanze di rinvio (l’una alla Corte di Giustizia, l’altra alla Corte Costituzionale) hanno ritenuto che il danno ex art.36, co. 5 del d.lgs. n. 165/01 derivi dalla perdita di un posto di lavoro a tempo indeterminato e che, pertanto, il risarcimento debba avere a oggetto il valore di quel posto .
La Corte di Giustizia ha nuovamente confermato la rispondenza della normativa italiana al diritto dell’Unione europea ; la Corte Costituzionale ha ribadito l’impossibilità per tutto il settore pubblico di conversione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato .
5) La stabilizzazione del personale precario nella riforma Madia
Una delle soluzioni sovente utilizzate dal legislatore nostrano per far fronte al precariato pubblico è quella della stabilizzazione.
La storia dell’impiego pubblico è caratterizzata, sin dai tempi di realizzazione dell’unità d’Italia, da una sequenza ininterrotta di assunzioni di personale precario e sua successiva stabilizzazione . Come è stato evidenziato, si può a ragione sostenere che il ricorso a tale schema abbia costituito un canale parallelo di reclutamento del personale nei ruoli delle amministrazioni talmente costante da divenire quasi istituzionalizzato .
Non è questa la sede per ripercorrere analiticamente le vicende storiche del precariato nella pubblica amministrazione italiana, ma occorre ricordare che solo negli ultimi quattordici anni si contano ben sei interventi legislativi finalizzati alla conversione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro “precari” del personale, l’ultimo dei quali ad opera della “riforma Madia” del triennio 2015-2017.
L’art.17, comma 1, lett. o) della legge delega 7 agosto 2015, n. 124, che ha dato avvio alla suddetta riforma , prevede l’individuazione di limitate e tassative fattispecie di lavoro flessibile, caratterizzate dalla compatibilità con la peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e con le esigenze organizzative e funzionali di queste ultime, anche al fine di prevenire il precariato.
Il d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, emanato in attuazione della citata legge delega, all’art.20 (rubricato “superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni”) individua, per il triennio 2018-2020 , due percorsi di stabilizzazione dei precari .
Il co. 1 consente l'assunzione diretta di personale in possesso dei seguenti requisiti: 1) titolarità di rapporto di lavoro a tempo determinato presso l'amministrazione procedente alla data di entrata in vigore della l. n. 124/15; 2) reclutamento a tempo determinato, in relazione alle medesime attività svolte, avvenuto mediante procedura concorsuale; 3) maturazione al 31 dicembre 2017 presso l'amministrazione procedente di tre anni di servizio anche non continuativi negli ultimi otto anni.
Il co. 2 prevede la possibilità di bandire procedure concorsuali riservate per il 50% ai soggetti in possesso dei requisiti ivi indicati: 1) titolarità di rapporto di lavoro flessibile presso l'amministrazione procedente alla data di entrata in vigore della l. n. 124/15; 2) maturazione al 31 dicembre 2017 presso l'amministrazione procedente di tre anni di contratto anche non continuativi negli ultimi otto anni.
Come evidenziato dalla giurisprudenza, la differente disciplina dei due percorsi di stabilizzazione del citato art.20 è da ricondursi ai destinatari degli stessi : la platea dei destinatari del co. 1 è costituita da soggetti che hanno già sostenuto con esito favorevole una procedura concorsuale, con la conseguenza che l’amministrazione non bandisce un concorso, ma si limita a dare avviso della procedura e della possibilità per gli interessati di presentare domanda di partecipazione; il co. 2, invece, ha per oggetto una vera e propria procedura concorsuale aperta all’esterno, in quanto è rivolta a soggetti non reclutati dall’amministrazione mediante procedure concorsuali. Appare evidente la volontà del legislatore di privilegiare la stabilizzazione di quei precari, che, in quanto già scelti all’esito di concorso, garantiscono all’amministrazione un’adeguata professionalità.
Elemento comune a entrambe le procedure è il carattere facoltativo dell’attivazione, come emerge dalle espressioni utilizzate dal legislatore: “possono assumere” al co. 1 e “possono bandire” al co. 2 .
Il Ministro per la Semplificazione e la pubblica amministrazione, con due circolari (n. 3 del 23 novembre 2017 e n. 1 del 9 gennaio 2018 ), ha fornito alle amministrazioni gli indirizzi operativi. Per quel che interessa, la prima delle due circolari citate, al paragrafo 2 (rubricato “destinatari ed esclusioni”), evidenzia che le procedure disciplinate dall’art.20 del d.lgs. n. 75/17 riguardano i dipendenti pubblici contrattualizzati, in quanto le categorie in regime di diritto pubblico (tra cui i professori e i ricercatori universitari), ai sensi dell’art.3 del d.lgs. n. 165/01, rimangono disciplinate dai rispettivi ordinamenti.
6) Le ordinanze del Consiglio di Stato di rimessione alla Corte di Giustizia UE
La vicenda dedotta in giudizio riguarda alcuni ricercatori a tempo determinato dell’Università di Perugia, che avevano richiesto la stabilizzazione del proprio rapporto di lavoro, ai sensi dell’art.20 del d.lgs. n. 75/17. La determinazione negativa dell’Ateneo è stata da loro impugnata dinanzi al Tribunale amministrativo dell’Umbria, che ha rigettato i ricorsi, ritenendo non applicabile la disciplina dell’art.20 del d.lgs. n. 75/17, nonché la direttiva comunitaria n. 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato, alle categorie di personale pubblico non contrattualizzato, come i ricercatori universitari .
Il Consiglio di Stato, adito in sede di appello, solleva vari dubbi sulla conformità della disciplina italiana concernente lo status dei ricercatori universitari a tempo determinato alla direttiva comunitaria n. 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato.
Il cuore del ragionamento della prima ordinanza del giudice amministrativo di appello poggia sulla clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla citata direttiva, secondo cui gli Stati membri, al fine di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzazione di una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato, sono tenuti ad adottare almeno una delle tre misure ivi elencate: a) ragioni obiettive giustificative del rinnovo; b) durata massima dei rapporti a tempo determinato successivi; c) numero dei rinnovi consentiti . Gli Stati membri dispongono, pertanto, di un’ampia discrezionalità, dal momento che possono scegliere di far ricorso ad una delle misure elencate dalla clausola 5, oppure a norme equivalenti in grado di realizzare l’obiettivo di prevenire gli abusi nell’utilizzazione del lavoro precario.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia si è più volte soffermata sulla nozione di “ragioni obiettive”, da intendere nel senso della sussistenza di circostanze precise e concrete, che contraddistinguono una determinata attività (natura delle funzioni, caratteristiche ad esse inerenti, finalità perseguite) e, pertanto, giustificano la successione di rapporti a tempo determinato .
Il Consiglio di Stato nutre serie perplessità sulla conformità alla citata clausola 5 delle previsioni dell’art.24 della l. n. 240/10, che consentono l’assunzione di ricercatori a tempo determinato junior a condizione della compatibilità della spesa con le risorse disponibili per la programmazione e la proroga biennale del rapporto alla semplice valutazione delle attività svolte. In altre parole, la disposizione della legge Gelmini non ancora l’assunzione e la proroga ad alcuna ragione oggettiva connessa a esigenze temporanee o eccezionali.
Inoltre, come già in precedenza la dottrina , il Consiglio di Stato ravvisa un vuoto di tutela nella normativa sui ricercatori universitari a tempo determinato, che, a differenza di quella riguardante il personale contrattualizzato, non contempla né misure idonee a prevenire e sanzionare gli abusi nella successione di rapporti a termine da parte delle Università, né meccanismi di stabilizzazione del rapporto.
La seconda ordinanza si sofferma sulla clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva comunitaria n. 1999/70/CE, che contiene l’espresso divieto di disparità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori strutturati, a meno che non sussistano ragioni oggettive: ne consegue che la mera natura temporanea del rapporto di lavoro non è da sola sufficiente a legittimare un trattamento sfavorevole per il lavoratore a tempo determinato. Secondo la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia le ragioni oggettive idonee a legittimare disparità di trattamento tra lavoratori stabili e lavoratori temporanei non possono essere semplicemente ravvisate in una norma (di legge o collettiva) nazionale, che prevede un trattamento differenziato, ma devono consistere in elementi precisi e concreti del rapporto di lavoro nel particolare contesto in cui si inscrive, al fine di verificare se la disparità risponda a una reale necessità .
Come evidenziato nei paragrafi 2 e 3, l’art.24, co. 5 e 6 della legge Gelmini riconosce ai ricercatori a tempo determinato senior in possesso di abilitazione scientifica nazionale e ai ricercatori a tempo indeterminato, parimenti in possesso della predetta abilitazione, rispettivamente il diritto e la possibilità di essere sottoposti (i primi alla scadenza del contratto, i secondi fino al 31 dicembre 2021) ad un’apposita procedura di valutazione per la chiamata nel ruolo dei professori associati. Nessun diritto o possibilità analoghi sono, invece, riconosciuti ai ricercatori a tempo determinato junior in possesso di abilitazione scientifica nazionale, benché siano adibiti alle medesime mansioni dei ai ricercatori a tempo determinato senior e dei ricercatori a tempo indeterminato.
Il Consiglio di Stato dubita, pertanto, della conformità dell’art.24, co. 5 e 6 della l. n. 240/10 alla clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva comunitaria n. 1999/70/CE.
La prima ordinanza ha, invece, escluso profili discriminatori con i ricercatori degli Enti di ricerca, poiché, nonostante l’omonimia, si tratta di categorie differenti e non sovrapponibili, sia per la diversità delle funzioni (ai ricercatori di detti Enti non sono attribuiti compiti didattici), sia per il diverso regime giuridico (i ricercatori di detti Enti rientrano nell’ambio delle categorie contrattualizzate ).
Spetterà alla Corte di Giustizia valutare le numerose questioni sottoposte a cominciare dall’applicabilità della direttiva n. 1999/70/CE e dell’allegato accordo quadro al personale in regime di diritto pubblico, esclusa da numerose pronunce della giurisprudenza amministrativa .
La Corte di Giustizia, benché affermi, ormai dal 2006, l’applicazione della direttiva e dell’accordo ai rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi con le amministrazioni pubbliche , dovrà chiarire, prima di tutte le altre, tale questione.
Per completezza occorre ricordare che un’altra ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia UE relativa alla disciplina dei ricercatori universitari a tempo determinato è stata emessa lo scorso anno dal Tribunale amministrativo del Lazio .
7) Conclusioni
Occorre evidenziare che in materia ancora non esistono indirizzi giurisprudenziali consolidati.
Contemporaneamente alle ordinanze di rimessione alla Corte di Giustizia si registrano le pronunce della medesima sezione del Consiglio di Stato, che ha emesso le ordinanze, e di un tribunale amministrativo regionale, le quali, invece, affermano la compatibilità col diritto dell’Unione europea della disciplina della legge Gelmini sui ricercatori a tempo determinato .
Inoltre, è pendente presso la Corte Costituzionale una questione di legittimità costituzionale relativa all’art.24, co. 6 della l. n. 240/10 nella parte in cui non riconosce ai ricercatori a tempo indeterminato il diritto alla valutazione per la chiamata nel ruolo dei professori associati, a differenza di quanto il co. 5 prevede per i ricercatori a tempo determinato senior . Anche su tale questione si rinvengono pronunce di segno contrario .
Alla Corte di Giustizia e alla Consulta spetterà il gravoso compito di individuare qualche punto fermo in materia.