TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. I tre pilastri del provisional agreement tra Consiglio e Parlamento europeo del 7 giugno 2022

Il 7 giugno 2022, i negoziatori della presidenza del Consiglio e del Parlamento europeo hanno raggiungo un accordo provvisorio (provisional agreement) sulla proposta di direttiva in materia di salario minimo adeguato nell’Unione europea . L’accordo si fonda su tre pilastri.
Il primo è quello dell’adeguatezza del salario minimo legale che dovrà essere garantita prevedendo procedure trasparenti finalizzate alla sua determinazione, rinnovate ogni due anni (quattro nei paesi in cui sono previsti sistemi di adeguamento automatico dei salari al costo della vita come il Lussemburgo, il Belgio e Cipro) e fondate sull’effettivo coinvolgimento delle parti sociali. Ciò vale ad escludere la compatibilità con la direttiva di salari minimi calati dall’alto e fissati unilateralmente dai Governi come può avvenire in alcuni paesi specialmente dell’Est Europa o in Cina.
Il secondo pilastro riguarda la promozione della contrattazione collettiva nei paesi in cui la sua copertura non raggiunga l’80%. La contrattazione collettiva si conferma il meccanismo privilegiato per la determinazione di salari adeguati con il rischio, per il nostro paese, che passi in secondo piano l’esigenza da tutti avvertita di approdare ad un riordino, anche per via legislativa, del sistema contrattuale.
Il terzo pilastro si riferisce all’accesso effettivo dei lavoratori al salario minimo (effective access) da realizzare attraverso l’adozione di una serie di misure tra le quali le ispezioni del lavoro, un’informazione adeguata e un’effettiva capacità dell’autorità competenti di perseguire datori di lavoro inadempienti. Potrebbe essere questo il grimaldello che renderà non più solo auspicabile ma necessario un intervento del legislatore nazionale volto a fissare quantomeno «le regole del gioco» (the rules of the game) di un sistema salariale, quale quello italiano, fondato sulla libera contrattazione collettiva (v. infra § 3).

2. Quale possibile impatto per l’Italia? Salario minimo legale o rilancio del ruolo della contrattazione collettiva nel quadro di un riordino del sistema contrattuale

Come era prevedibile, all’indomani del comunicato del 7 giugno, la politica si è divisa in due. Chi ha invocato la necessità di introdurre anche in Italia il salario minimo legale e chi, invece, ha parlato di «grande malinteso» poiché la direttiva non ne impone affatto l’adozione ma, anzi, privilegia i sistemi retributivi basati sulla contrattazione collettiva, come quello italiano, qualora questa raggiunga un tasso di copertura pari ad almeno l’80%.
Certamente l’Italia potrebbe cogliere l’occasione offerta dalla direttiva per introdurre per la prima volta un salario minimo legale su base oraria . La proposta più significativa in tal senso è contenuta nel DDL 12.7.2018 sul salario minimo orario, a firma della on. sen. Catalfo, nel quale si propone una soglia minima uguale per tutti, che sembra doversi considerare parametrata sul trattamento economico complessivo, pari a 9 o all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali. La soglia non è di per sé altissima se considerata riferibile al trattamento economico complessivo (comprensivo di rateo di 13°, 14°). Sulla base di una indagine, solo i settori della vigilanza, del multiservizi e del terziario risultano avere una retribuzione oraria minima inferiore (rispettivamente 7,07, 7,59 e 8,64) a cui si aggiungono i lavoratori che hanno come datori di lavoro le famiglie, come colf, badanti, portieri, e i lavoratori del settore agricolo.
Tuttavia, la proposta non prevede né dei criteri né dei parametri sulla base dei quali arrivare a determinare tale cifra; neppure viene istituito un sistema di governance in grado di garantire a tale intervento normativo concrete prospettive di stabilità nel futuro. In questa visuale, il DDL solleva dubbi di compatibilità con la proposta di direttiva che, per contro, pare attribuire un’importanza decisiva non al salario minimo legale in sé considerato ma al procedimento attraverso il quale si arriva alla sua determinazione che deve basarsi su criteri definiti «in modo chiaro e stabile» e periodicamente aggiornati (art. 5) e sul coinvolgimento delle parti sociali, sulla falsa riga dei modelli tedesco e francese (artt. 5 e 7). In altri termini, i 9 Euro non possono essere calati dall’alto ma devono essere il risultato dell’applicazione di criteri trasparenti, chiari, aggiornati e di un confronto vero con le parti sociali.
È pienamente condivisibile anche l’opinione secondo cui, all’indomani dell’approvazione della direttiva, l’Italia non dovrebbe fare alcunché poiché il salario minimo contrattuale ne esce vincitore in quanto giudicato generalmente più adeguato del salario minimo legale. In ciò risiede il rischio di una direttiva che, per l’Italia, si risolva in «molto rumore per nulla» consentendo di nascondere i molti problemi esistenti dietro l’utile escamotage di una contrattazione collettiva che, almeno stando ai dati, copre dall’80% sino al 100% dei lavoratori se nella percentuale si includono coloro che potenzialmente potrebbero ottenere i minimi tabellari ricorrendo al giudice, in base all’art. 36 Cost. e all’art. 2099 c.c. Quale sia invece il tasso reale di copertura è difficile a stabilirsi ma appare certamente assai lontano dal 100% se si considera che, secondo il CNEL, il 62,7% dei 992 contratti collettivi nazionali vigenti al 31 dicembre 2021 è in attesa di rinnovo (seppure 202 contratti possano considerarsi ormai definitivamente accantonati in quanto scaduti da oltre cinque anni) , mentre secondo l’ISTAT, indagine condotta nel primo trimestre 2022, «il tempo medio di attesa di rinnovo per i lavoratori con contratto scaduto, tra marzo 2021 e marzo 2022, è aumentato da 22,6 a 30,8 mesi» . Senza considerare il fenomeno diffuso ma difficilmente quantificabile dei «sotto-minimi» , del lavoro nero, del falso part-time che contribuiscono ad alimentare i dubbi sull’effettivo raggiungimento di un tasso di copertura pari o persino superiore all’80%.
Il problema principale del sistema retributivo italiano è riassumibile nell’efficace espressione di Tiziano Treu che ha parlato di crisi della contrattazione collettiva come «autorità salariale» . In altri termini, a prescindere dal tasso di copertura reale o potenziale, la libera contrattazione collettiva nazionale, che per anni si è sviluppata in un contesto di sostanziale anomia legislativa, non appare più in grado di svolgere efficacemente la propria funzione di determinazione di livelli retributivi conformi ai parametri della proporzionalità e della sufficienza sanciti dall’art. 36 Cost. La drammaticità del problema è ormai certificata in alcune sentenze recenti del Tribunale di Milano e di Torino che, con riferimento al caso scuola del contratto collettivo vigilanza e servizi fiduciari firmato dalla triplice sindacale, hanno affermato che una retribuzione mensile pari a circa 630,63 EUR netti (circa 4 Euro netti all’ora), non è conforme all’art. 36 Cost. Tra i parametri utilizzati per giungere a tale conclusione colpisce il riferimento ai tassi soglia di povertà assoluta Istat a dimostrazione del fatto che per i giudici è oggi centrale non più solo la questione della proporzionalità della retribuzione ma anche quella della sua “sufficienza”, probabile conseguenza della crescita dei working poor . Così, la recentissima sentenza del Tribunale di Milano del 22 marzo 2022, nel caso relativo a dei portieri impiegati a tempo pieno per 40 ore settimanali ai quali veniva applicato il CCNL Vigilanza e servizi fiduciari, afferma che una retribuzione inferiore alla soglia di 900 EUR lordi mensili e frequentemente inferiore alla soglia di povertà Istat (che varia da 552,39 a 819,13 EUR a seconda della regione di residenza) non è né proporzionata, se parametrata ad altre retribuzioni corrisposte per mansioni analoghe, né sufficiente in quanto inidonea a consentire al lavoratore e alla sua famiglia di vivere in condizioni dignitose.
La direttiva potrebbe fornire un pericoloso alibi per non mettere mano ad un sistema contrattuale che, viceversa, necessita di numerosi aggiustamenti oppure potrebbe, al contrario, offrire la spinta finale decisiva per un intervento legislativo, da più parti auspicato, che, pur mantenendo un sistema salariale basato sulla libera contrattazione collettiva, stabilisca finalmente «the rules of the game».
In primo luogo, anche escludendo quelli scaduti da più di cinque anni, il numero dei CCNL resta troppo alto, specie in alcuni settori , e caratterizzato dalla presenza di contratti “pirata” – cioè da CCNL firmati da sigle scarsamente rappresentative che, seppur caratterizzati da una bassissima copertura (stimata nello 0,3% dei lavoratori potenziali destinatari), sono molto pericolosi in quanto abbassano le condizioni di lavoro e le retribuzioni previste dai CCNL leader anche di diverse centinaia di o al mese – e dalla presenza di contratti monstre, dal campo di applicazione omnibus , come il Multiservizi e il Vigilanza e Servizi fiduciari, capaci di fare concorrenza trasversale al ribasso ai CCNL leader in settori centrali come l’edilizia, il commercio, la logistica.
Per governare il fenomeno del dumping salariale e contrattuale e restituire al contratto collettivo nazionale la propria originaria funzione di limitazione, anziché alimentazione, della concorrenza sleale al ribasso tra lavoratori e imprese è necessario stabilire the rules of the game. Ad esempio, si potrebbe procedere ad una perimetrazione delle categorie contrattuali sulla base di criteri più oggettivi e meno discrezionali, rivedendo l’orientamento giurisprudenziale che privilegia il rispetto assoluto della volontà contrattuale persino quando il CCNL prescelto risulti «innaturale rispetto alle oggettive caratteristiche dell’impresa» . A tale fine, occorrerebbe mutuare il criterio della coerenza tra categoria contrattuale e attività effettivamente esercitata dall’imprenditore di cui all’art. 2070 c.c., norma corporativa forse troppo frettolosamente accantonata salvo poi venire richiamata dai giudici nel limitato caso in cui nessun contratto collettivo sia applicato e debba procedersi all’individuazione della retribuzione adeguata in base agli artt. 2099 c.c. e 36 Cost. o venire recuperata dal legislatore nella formulazione dell’art. 30, co. 4 d.lgs. n. 50 del 2016 applicabile agli appalti pubblici .
In secondo luogo, occorre selezionare meglio i giocatori. Ad esempio, sulla falsa riga dell’esperienza maturata nel settore degli appalti pubblici o delle cooperative, si potrebbe procedere all’individuazione di CCNL leader, settore per settore, utilizzando quale criterio selettivo quello della maggiore rappresentatività dei soggetti stipulanti (associazioni sindacali ma anche datoriali) come proposto da ultimo dal Ministro Andrea Orlando. Sono numerosi gli esempi legislativi in tal senso: basti pensare all’art. 7, co. 4, d.l. n. 248 del 2007 per il quale, con riferimento alle società cooperative, in presenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili alla medesima categoria, ai soci lavoratori deve essere applicato un trattamento economico e normativo non inferiore a quello dettato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale della categoria ; all’art. 1, co. 1, l. n. 389 del 1989 in base al quale, nell’individuazione dei contributi minimi previdenziali, l’INPS utilizza quale retribuzione da assumere come base di calcolo quella non inferiore «all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti e contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale» ; più di recente all’art. 47-quater del d.lgs. n. 81 del 2015 (come modificato dalla l. n. 128 del 2019) per il quale, ai «lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore», di cui all’art. 47-bis, è dovuto il trattamento economico previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale o, in mancanza, «un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale».
Proprio quest’ultima disposizione normativa è alla base della complessa vicenda del CCNL Assodelivery-Ugl Rider che, come noto, ha contribuito ad evidenziare almeno due ulteriori problemi. Da un lato, quello della misurazione e certificazione della rappresentatività condivisibilmente risolto dalla Circolare n. 17/2020 attraverso il riferimento a criteri sia quantitativi (la consistenza numerica del sindacato) sia qualitativi («una significativa presenza territoriale su base nazionale, la partecipazione ad azioni di autotutela, alla formazione e stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, l’intervento nelle controversie individuali plurime e collettive») . Dall’altro lato, il problema della delimitazione della categoria contrattuale nel cui ambito la rappresentatività deve essere misurata in relazione al quale la Circolare 17/2020 propone di utilizzare l’espediente del «macrosettore»; questo al comprensibile fine di arginare operazioni di «ritaglio […] e […] spezzettamento» della categoria poste in essere da associazioni sindacali e datoriali per eludere l’applicazione di CCNL più onerosi (come, nel caso di specie, quello della Logistica). La questione non può essere risolta se non sottraendo per legge all’esclusiva volontà dei soggetti collettivi la prerogativa di individuare le categorie contrattuali e i loro confini. In questo senso, non è sufficiente mutuare i criteri di cui all’art. 2070 c.c., che operano per così dire a valle in sede di individuazione del CCNL applicabile; occorrerebbe agire a monte prendendo spunto, ad esempio, dalla disciplina dei lavoratori dello spettacolo inquadrati in uno specifico elenco gestito dal FLPS (ex Enpals) . In quest’ottica, la ricognizione delle categorie contrattuali esistenti potrebbe essere cristallizzata in uno specifico elenco ministeriale periodicamente aggiornato dal Ministero del lavoro o dal CNEL, con il coinvolgimento e l’impulso delle associazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Un’idea simile si ritrova all’art. 2 del DDL 11.3.2019 sulla giusta retribuzione, salario minimo e rappresentanza sindacale proposto dall’on. sen. Nannicini et al.

3. Accesso effettivo al salario minimo: per garantirlo serve un intervento legislativo sul sistema contrattuale

L’esigenza di un intervento legislativo volto a stabilire non il salario minimo ma almeno le regole del gioco a cui ci si deve attenere nel sistema della libera contrattazione collettiva, potrebbe ricavarsi dall’art. 8 della proposta di direttiva rubricato «Accesso effettivo dei lavoratori ai salari minimi legali». In base a tale disposizione, gli Stati membri devono garantire l’accesso dei lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo legale attraverso l’adozione di una serie di misure tra le quali il rafforzamento de«i controlli e [del]le ispezioni sul campo effettuati dagli ispettorati del lavoro o dagli organismi responsabili dell’applicazione dei salari minimi legali». È questo, come visto, il terzo pilastro del provisional agreement del 7 giugno 2022. L’accesso effettivo è altresì garantito di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive che devono accompagnare la «violazione della legge nazionale» che istituisca la tutela del salario minimo (art. 12).
A ben vedere, l’art. 8 si riferisce solo al salario minimo legale; non fa parte delle «disposizioni orizzontali» applicabili sia agli ordinamenti che prevedono il salario minimo legale sia a quelli che prevedono il salario minimo contrattuale. Ma leggendo il provisional agreement, che parla più generalmente di bisogno di rafforzare “the effective access of workers to minimum wage protection”, l’art. 1 della direttiva che individua tra i propri obiettivi la garanzia «dell’accesso dei lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo, sotto forma di salari determinati da contratti collettivi o di un salario minimo legale, laddove esistente», l’art. 12 in materia di sanzioni (questa sì una disposizione orizzontale) e facendo più in generale riferimento al principio di effettività e del primato del diritto eurounitario, non può escludersi la necessità di avviare una seria riflessione sull’idoneità complessiva del nostro sistema a garantire un effettivo accesso dei lavoratori alla tutela del salario minimo adeguato anche prevedendo l’irrogazione di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive in presenza di violazioni.
Non è possibile in questa sede affrontare nel dettaglio un problema di tale complessità. Ma si può quantomeno osservare che, in assenza di un quadro di regole sulla contrattazione collettiva, non sarà possibile all’Italia realizzare questi due obiettivi di fondo. Il personale ispettivo ha il compito di vigilare «sulla corretta applicazione dei contratti e accordi collettivi di lavoro» (art. 7, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 124 del 2004): si tratta di una previsione dal contenuto ambiguo che si scontra con l’anomia legislativa che caratterizza il nostro sistema contrattuale al cui interno, come visto, non esistono né operano criteri legali di selezione dei contratti collettivi e dei minimi contrattuali tabellari se non in alcuni casi espressamente disciplinati dalla legge (come quello delle cooperative o degli appalti pubblici). In un sistema orientato all’applicazione del contratto collettivo su base esclusivamente volontaria, la norma citata non può che venire intesa restrittivamente e circoscritta ai casi in cui il contratto collettivo svolga funzione integratrice o derogatoria del precetto legale assurgendo a fonte del diritto extra ordinem ovvero a quelli in cui venga accertata la violazione della parte economica o normativa di un contratto collettivo di fatto applicato da datore di lavoro e lavoratore. In questo caso, a fronte dell’assenza di specifiche sanzioni amministrative (salvo in alcuni casi espressamente previsti dalla legge), la violazione può trovare sbocco nello strumento della diffida accertativa dei crediti pecuniari .
Più di recente, va segnalata l’introduzione della disposizione ispettiva (art. 12-bis, d.l. n. 76 del 2020 che sostituisce l’art. 14 del d.lgs. n. 124 del 2004) in base alla quale «il personale ispettivo dell'Ispettorato nazionale del lavoro può adottare nei confronti del datore di lavoro un provvedimento di disposizione, immediatamente esecutivo, in tutti i casi in cui le irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative»; tale provvedimento viene munito di una sanzione amministrativa ad hoc (da 500 EUR a 3.000 EUR). La Circolare INL 5/2020 ha interpretato estensivamente l’ambito applicativo del nuovo strumento ammettendone l’operatività in relazione «al mancato rispetto sia di norme di legge sprovviste di una specifica sanzione, sia di norme del contratto collettivo applicato anche di fatto dal datore di lavoro» così da rafforzare l’effettiva osservanza della parte economica e normativa del contratto collettivo. Tali strumenti operano però a condizione che sia stata accertata l’«applicabilità» del contratto collettivo, restando esclusa la possibilità del personale ispettivo di imporre alle parti un determinato contratto collettivo.
Introdurre un quadro di regole, pur minimo, sul sistema contrattuale – nella direzione indicata nel paragrafo precedente – potrebbe consentire al personale ispettivo di adottare la disposizione ispettiva e la relativa sanzione anche in quei casi in cui il datore di lavoro abbia individuato e conseguentemente applicato un CCNL non coerente con l’attività effettivamente svolta ovvero non stipulato dalle associazioni maggiormente rappresentative all’interno della categoria, in violazione delle rules of the games. Resterebbe poi da chiedersi se la sanzione prevista, da 500 a 3.000 EUR, soddisfi i criteri di effettività, proporzionalità e dissuasività previsti dalla direttiva.
Non verrebbe meno ma anzi si aggraverebbe il problema più generale dello scarso numero di ispezioni che vengono effettuate ogni anno sulle imprese e della conseguente necessità di potenziare i servizi ispettivi. Leggendo il Rapporto annuale delle attività di tutela e vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale del 2019, si scorge che le ispezioni complessive sono state 159.805, numero più che dimezzatosi nel 2020 a causa della pandemia. Considerando un numero complessivo di imprese che si attesta intorno ai 4.398.000, ciò significa che la percentuale che subisce un’ispezione nel corso di un anno è pari a circa il 3,6% con tassi di irregolarità che (non sorprende) sfiorano l’89%. In taluni casi risulta persino arduo monitorare l’effettiva irrogazione delle sanzioni amministrative poiché gli ispettorati territoriali, per l’emanazione dell’ordinanza ingiunzione, dispongono di termini molto ampi pari a cinque anni dalla commissione dell’illecito .
Allo stato attuale, l’effettivo accesso alla retribuzione minima adeguata rischia di risultare garantito pressoché esclusivamente dall’iniziativa giudiziale individuale e dalla giurisprudenza che utilizza i minimi tabellari quale parametro esterno ed indiretto di commisurazione della retribuzione ai principi di sufficienza e proporzionalità sanciti dall’art. 36 Cost. Un’iniziativa oggi sempre più disincentivata dalla posta in gioco esigua e dalla modifica del regime delle spese processuali in senso sfavorevole al lavoratore. Maggiori risultati potrebbe dare l’iniziativa giudiziale collettiva sindacale, ostacolata però dall’assenza di strumenti di tutela giurisdizionale collettiva idonei . Sotto quest’ultimo profilo, potrebbe risultare davvero utile per il sindacato – ma in prospettiva anche per altri enti del terzo settore (come Asgi) sempre più impegnati sul fronte della “battaglia vertenziale” – poter accedere agli strumenti dell’azione di classe risarcitoria e dell’azione collettiva inibitoria, introdotti dalla l. n. 31 del 2019, entrata in vigore da poco più di un anno .

4. Potere d’acquisto dei salari e pay gap

Resta sullo sfondo un problema di cui si parla molto in queste settimane, vale a dire la perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni italiane che nel 2022, secondo l’Istat, anche a causa della spinta inflazionistica, sarà pari a cinque punti percentuali. Colpiscono inoltre i dati circolati di recente secondo cui, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è aumentato in tutti i paesi Ocse ad eccezione dell’Italia. Si va dal 33% della Germania, al 31,10% della Francia, al 6,20% della Spagna sino a percentuali superiori al 200% per i paesi baltici mentre in Italia si assiste ad una diminuzione del 2,90% .
Una funzione importante è stata svolta sotto questo aspetto dal reddito di cittadinanza che, in fondo, ha contribuito a mettere in evidenza l’inadeguatezza e l’insufficienza delle retribuzioni mensili corrisposte a determinate categorie di lavoratori operanti, ad esempio, nel settore del turismo e della ristorazione in zone di lusso e ad alto costo della vita come Milano, Forte dei Marmi, Portofino dove uno stipendio mensile stagionale di 1.180 o vale 236 bottigliette di acqua minerale .
Lo scarso allineamento delle retribuzioni al costo della vita è alla base anche del fenomeno della fuga dagli impieghi pubblici nel Nord Italia denunciato dal Ministro Giovannini il 26 maggio 2022 secondo il quale, con riferimento alle assunzioni nelle motorizzazioni e nei provveditorati, «su 320 funzionari di amministrazione che sono stati messi a concorso, una quota consistente ha rinunciato evitando di prendere servizio a meno che non gli fosse stata indicata una sede al Sud». Del resto, come è possibile per un insegnante adempiere ai propri compiti educativi nella città di Milano se lo stipendio percepito risulta appena sufficiente a pagare un affitto o un mutuo e a provvedere alle spese necessarie alla sussistenza, così impedendogli di mantenere un tenore di vita decoroso e coerente con il ruolo che è chiamato a svolgere all’interno della società? Nel settore pubblico, se non in quello privato dove le retribuzioni reali dal Nord al Mezzogiorno subiscono spesso maggiori variazioni al ribasso o al rialzo, diventa difficilmente contestabile l’affermazione secondo cui «la contrattazione centralizzata riduce la dispersione dei salari nominali, ma tende ad aumentare la dispersione dei salari reali, tenendo conto delle differenze del costo della vita nelle diverse regioni» . Nel Nord Italia e, in particolare, in città come Milano, Torino, Venezia, Bologna che sono caratterizzate da un costo della vita sempre più elevato, il settore pubblico sarà destinato a perdere “cervelli” e sarà sempre meno in grado di offrire ai propri cittadini servizi essenziali di qualità se non potrà offrire stipendi che consentano ai lavoratori di garantire a sé stessi e alle proprie famiglie un tenore di vita decoroso. Una soluzione proposta da tempo dagli studiosi è quella di riscoprire la contrattazione territoriale e la flessibilità decentrata che, tuttavia, non dovrebbe essere utilizzata per ridurre i salari nel privato e in particolare nel Sud Italia, così rischiando di aggravare il gap tecnologico Nord-Sud e di fare del Sud un «serbatoio di manodopera a basso costo» , ma per allineare i salari al costo della vita tenendo conto dei divari regionali esistenti . Il problema è se oggi, specialmente nel settore pubblico, la proporzionalità e la sufficienza della retribuzione debbano essere valutate tenendo conto anche del costo della vita e dunque del luogo in cui la prestazione di lavoro viene svolta, magari consentendo ad alcune grandi realtà metropolitane di integrare le retribuzioni corrisposte ai propri pubblici dipendenti attraverso il ricorso alla fiscalità locale.
Al problema dei divari territoriali si aggiunge quello dei divari salariali di genere. Il gender pay gap è un fenomeno da tempo sotto gli occhi di tutti e oggetto di particolare attenzione da parte del PNRR e della proposta di direttiva sulla trasparenza salariale del 4 marzo 2021 che, seppure limitatamente all’ambito del lavoro subordinato, affronta il tema della discriminazione retributiva tra uomini e donne, che in media si attesta intorno al 16%, attraverso la lotta alle asimmetrie informative e il rafforzamento degli strumenti individuali e collettivi di accesso alla giustizia, dei meccanismi risarcitori e dei sistemi sanzionatori .
Ma accanto a tale fenomeno si registra quello non meno preoccupanti dell’aumento dei divari salariali tra dipendenti e manager, fenomeno che è esploso negli Stati Uniti dove l’Executive excess Report del 2022 segnala come nel 2021 lo stipendio medio dei lavoratori in 106 imprese su un campione di 300 non riesca a tenere il passo con la crescita dell’inflazione e come il gap salariale tra top CEO e dipendenti sia passato da 604 a 1 nel 2020 a 670 a 1 nel 2021 con una crescita media dello stipendio dei CEO di US $ 2.5 milioni (per una media di più di US $ 10 milioni all’anno) mentre lo stipendio medio dei dipendenti è aumentato di poco più di US $ 3.000 per una media di US $ 23.968 all’anno. Nel rapporto viene dimostrata la propensione delle aziende a reinvestire gli utili consistenti maturati in operazioni di stock buybacks, finalizzate anche ad aumentare i bonus e i compensi degli amministratori, mentre si conferma uno scarso interesse a ridistribuire gli utili a favore dei dipendenti attraverso l’aumento delle retribuzioni. Negli Stati Uniti questo fenomeno è da tempo sotto osservazione e in larga misura imputato all’eccessiva concentrazione della produzione industriale in poche grandi aziende che costituiscono veri e propri monopoli o oligopoli (si pensi a Walmart, Google, Apple, Facebook, Amazon) e che il diritto antitrust non è stato in grado di contrastare adeguatamente. I nuovi monopoli e oligopoli, secondo gli studiosi, sarebbero all’origine di gravi conseguenze economiche tra cui la diminuzione della produttività, la caduta degli stipendi, l’aumento dei divari salariali e delle diseguaglianze, il declino dell’innovazione e del dinamismo imprenditoriale, la scomparsa del localismo e della diversificazione degli investimenti .
Il pay gap in Italia, se non raggiunge certamente il livello degli Stati Uniti, sta divenendo comunque un fenomeno preoccupante. Secondo un’indagine Mediobanca del 2020, un manager guadagna oltre 36 volte il costo medio del lavoro per l’azienda (56.900 o) e occorrono quindi «36 anni a un lavoratore medio per guadagnare quanto un suo apicale nel 2020» . Mentre una ricerca Fiom-Cgil sull’andamento dei salari dei lavoratori soggetti all’applicazione del CCNL Industria metalmeccanica privata e installazione impianti nel periodo temporale 2010-2018, mostra come la crescita di valore aggiunto generato dalle imprese non sia stata ridistribuita a favore dei lavoratori sotto forma di aumento delle retribuzioni che sono rimaste stagnanti . In particolare, dal 2015 al 2018 nelle aziende metalmeccaniche reggiane analizzate (circa 3.000) il costo del lavoro totale sarebbe aumentato solo del 24% contro una crescita degli utili pari a ben il 72%. Il fenomeno dei maxicompensi e delle politiche societarie di redistribuzione degli utili a favore dei dipendenti richiederà di essere affrontato seriamente anche nel nostro paese. A questo proposito potrà essere interessante considerare alcune delle misure proposte negli Stati Uniti come l’imposizione di obblighi di trasparenza e disclosure e, specialmente, misure di politica fiscale quali l’aumento del livello di tassazione per le imprese che presentano i gap salariali più elevati tra CEO e dipendenti.

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