TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. La pronuncia della Corte Edu e la questione del seguito giudiziario.
Ai fini di una ricostruzione del tema del valore rivestito nell’ordinamento nazionale dai precedenti giurisprudenziali della Corte Edu, innanzitutto merita osservare che il valore di un qualunque precedente è sempre relazionale, nel senso che esso non si autodetermina, una volta per tutte, sulla base esclusiva delle caratteristiche intrinseche che una determinata pronuncia giudiziale possiede nel sistema giuridico di appartenenza, ma è condizionato, imprescindibilmente, anche dalle caratteristiche strutturali che connotano la funzione giudiziaria nell’ordinamento che lo recepisce, nonché dalla qualità dei meccanismi che regolano i rapporti di coordinamento-integrazione tra i diversi ordinamenti.
È utile premettere anche che il diritto Cedu non conosce il medesimo criterio di ripartizione per materia consolidatosi nelle tradizioni giuridiche degli ordinamenti nazionali. Nella prospettiva convenzionale la distinzione tra diritto civile, penale, amministrativo, non assume un autentico valore sistematico (con la sola esclusione, forse, del diritto processuale civile e del diritto processuale penale, grosso modo riconducibili, con le dovute precisazioni, all’ambito applicativo dell’art. 6 Cedu). Le “materie” convenzionali sono quelle corrispondenti all’ambito sostanziale di applicazione di ciascun “diritto” protetto dalla Cedu e dai suoi Protocolli, quindi il “diritto alla vita” (art. 2 Cedu), il “diritto alla libertà e sicurezza personale” (art. 5 Cedu), il “diritto alla vita privata e familiare” (art. 8 Cedu), il “diritto di proprietà” (art. 1, Prot. 1 Cedu) e così via. Nemmeno esiste, quindi, un diritto convenzionale del lavoro (del resto, come noto, la Cedu nemmeno conosce i diritti sociali e del lavoro), con l’importante precisazione che sono numerose le situazioni “coperte” dai diritti del lavoro nazionali che ricadono trasversalmente nell’ambito applicativo di una o più disposizioni convenzionali, come l’art. 4 Cedu (v. le sentenze Siliadin , Van der Mussele , Stummer ), l’art. 2 Cedu (v. la sentenza Brincat ), l’art. 8 Cedu (v. ancora la sentenza Brincat, nonché le sentenze e Bărbulescu c. Romania e López Ribalda ), ma anche gli artt. 10 e 14 Cedu.
Ciò detto, il presente scritto intende focalizzare l’attenzione su alcune peculiarità circa il diverso valore assunto dai precedenti della Corte Edu rispetto a quello proprio dei precedenti della Corte di giustizia dell’Unione europea, così da mettere in risalto alcune significative differenze che ricadono sulle modalità di “gestione” degli uni e degli altri da parte del giudice nazionale. Lo scopo è tentare di dissipare qualche ricorrente equivoco, cui talora fanno seguito indebite assimilazioni: ad esempio quando si afferma che i due ordini giurisdizionali sarebbero entrambi indistintamente governati dalla logica propria dei sistemi di common law o in egual misura qualificabili quali giurisdizioni di judge made law.
Innanzitutto, deve essere chiarito che in molti casi la gestione del precedente della Corte Edu, a differenza di quanto avviene rispetto alle pronunce della CgUe, pone una questione di c.d. “seguito giudiziario” strettamente inteso, vale a dire una questione di esecuzione di un particolare giudicato pronunciato dalla Corte europea, di regola sotto la supervisione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Si tratta di casi direttamente assoggettati al governo dell’art. 46 Cedu, il quale obbliga lo Stato membro all’adempimento delle sentenze definitivamente pronunciate dalla Corte Edu nei procedimenti di cui quello Stato sia stato parte.
La questione che si pone, in tali casi, è essenzialmente quella della corretta interpretazione della pronuncia divenuta definitiva, così da potervi dare esatta esecuzione e poterne consentire la verifica. Le misure esecutive possono essere dirette alla restitutio in integrum ovvero, in caso di impossibilità, risolversi nella liquidazione una somma di denaro a titolo di equa soddisfazione ai sensi dell’art. 41 Cedu. Le misure esecutive possono anche essere di carattere generale o di carattere individuale. Di carattere generale è la misura legislativa con cui ha trovato riconoscimento in Italia l’istituto delle unioni civili (legge 20 maggio 2016, n. 76), adottata come seguito giudiziario della sentenza Taddeucci and McCall c. Italia , che aveva accertato il contrasto con gli artt. 8 e 14 Cedu della lacuna legislativa allora esistente. Le misure di carattere individuale possono essere le più varie. A citarne alcune: l’ordine di restituzione degli immobili illegittimamente espropriati (Belvedere alberghiera c. Italia ), l’ordine di provvedere all’esecuzione di sentenze definitive (Immobiliare Saffi c. Italia ), l’ordine di demolizione di costruzioni illegali (Paudicio c. Italia ), l’ordine di ristabilire la potestà parentale (Errico c. Italia ), l’ordine di ricercare informazioni sulla situazione dei ricorrenti espulsi in violazione della misura provvisoria adottata dalla Corte Edu ai sensi dell’art. 39 Reg. (Ben Kemais c. Italia ), l’ordine di rimuovere l’obbligo di dichiarare la non appartenenza alla massoneria per i candidati alle cariche pubbliche previsto da una legge regionale della regione Marche (Grande Oriente d’Italia c. Italia ).
Nel particolare contesto del “seguito giudiziario”, la statuizione giurisdizionale del giudice nazionale è suscettibile di assumere essa stessa un ruolo di misura individuale di reintegrazione dell’ordine convenzionale violato, come avviene essenzialmente nei casi di revisione del giudizio interno e di successivo nuovo pronunciamento in conformità dei principi convenzionali. Sono particolarmente note la sentenza Scoppola , che ha accertato la violazione dell’art. 7 Cedu (nulla poena sine lege) in un caso di applicazione in malam partem della pena dell’ergastolo in forza di legge di interpretazione autentica in materia di rito abbreviato, la sentenza Contrada , che ha accertato la violazione dell’art. 7 Cedu in materia di prevedibilità dell’incriminazione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, la sentenza Staibano in materia di revisione del giudicato amministrativo, la sentenza Zhou , che ha accertato la violazione dell’art. 8 Cedu in materia di revisione del giudicato civile che aveva dichiarato lo stato di adottabilità del figlio minore e del successivo provvedimento di adozione legittimante.
2. Il valore della pronuncia della Corte Edu nei c.d. “casi paralleli”.
In linea di principio, pone un problema di esecuzione anche la questione del seguito giudiziario nei c.d. “casi paralleli”. Si tratta di quei casi in cui gli interessati, pur trovandosi in situazione identica, non sono stati parte di alcun giudizio a Strasburgo, e quindi sfuggono all’ambito applicativo proprio dell’art. 46 Cedu.
Si tratta di una delle situazioni processuali che maggiormente interessano il giudice nazionale il quale, per conseguenza naturale della regola del necessario esaurimento delle vie di ricorso interno (imposta dal principio di sussidiarietà del sistema Cedu), di regola si confronta, a processo pendente, proprio con precedenti pronunciati dalla Corte Edu inter alios, in casi appunto “paralleli”. Si pone quindi in termini peculiari la questione della qualità ed intensità del vincolo conformativo da essi derivante. Il tema è estremamente complesso. Volendo tentare una schematizzazione, la giurisprudenza nazionale ha assunto orientamenti talvolta più aperti, talvolta più restrittivi.
Un approccio di particolare apertura è stato assunto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 210 del 2013 nel caso Ercolano, che è stato il seguito giudiziario “parallelo” della già menzionata sentenza Scoppola. La Consulta si è orientata nel senso di ritenere applicabile un regime sostanzialmente sovrapponibile a quello proprio dell’art. 46 Cedu, pur in assenza di una norma convenzionale che esplicitasse formalmente l’esistenza di un vincolo di tal genere. Tanto che la Corte ha dovuto giocoforza optare in favore di una rilettura estensiva del concetto di rilevanza della questione di costituzionalità, evidentemente muovendo dal presupposto, logicamente necessario, che il vincolo obbligatorio estendesse il proprio effetto anche all’esterno della fattispecie concreta direttamente coperta dalla pronuncia europea Scoppola. Seguendo questa impostazione, la questione del seguito giudiziario nei casi paralleli finisce per essere ricondotta nel quadro delle vicende propriamente esecutive delle sentenze della Corte Edu, seppur pronunciate inter alios.
Molto più restrittivo è l’approccio seguito nella sentenza delle sezioni unite della Cassazione Genco , la quale ha escluso che i principi affermati nella sentenza della Corte Edu Contrada c. Italia (3) potessero estendersi anche ai “casi paralleli”, sull’assunto quest’ultima sarebbe una pronuncia «strettamente individuale». La Cassazione, in questo caso, ha dimostrato di voler intendere in modo estremamente rigoroso il vincolo derivante dai criteri selettivi enunciati nella sentenza costituzionale n. 49 del 2015, che ha limitato il vincolo conformativo del precedente Cedu ai soli casi di sentenze formalmente adottate con procedura pilota (art. 61 Reg. Cedu), o formalmente aderenti alla nozione di sentenza a portata generale (art. 73 Reg. Cedu), ovvero che si tratti di precedenti collocati nel «flusso di un orientamento giurisprudenziale consolidato».
È bene chiarire che i due orientamenti si differenziano radicalmente per visioni di sistema divergenti, comportanti implicazioni dogmatiche ben diverse. Così come ricostruita nella sentenza Genco, la questione del seguito giudiziario nei casi paralleli finisce per uscire dallo schema dell’esecuzione delle sentenze della Corte Edu ed essere ricondotta nell’ambito del tema generale del valore del precedente giurisprudenziale in quanto tale.
Emerge, a questo punto, una prima differenza macroscopica rispetto all’effetto conformativo che promana dalle sentenze della CgUe. Quest’ultime, almeno quando pronunciate all’esito di un rinvio pregiudiziale (diverso è il caso della procedura d’infrazione), giammai pongono una questione di “esecuzione” in senso stretto, non solo in quanto esse, avendo natura puramente interpretativa, non dispongono direttamente di diritti, ma anche in quanto sono rese all’esito di un giudizio che non vede lo Stato convenuto a titolo di soggetto responsabile.
3. Il valore della giurisprudenza della Corte Edu.
Vi è una seconda categoria di precedenti della Corte Edu, composta dalla generalità delle pronunce che non pongono un problema di “esecuzione” in senso proprio, ma, ciò nonostante, esercitano un proprio effetto conformativo sull’ordinamento di ciascuno Stato membro. Il nostro assetto costituzionale declina tale vincolo conformativo nel senso di riconoscere l’attitudine delle disposizioni della Cedu e dei suoi Protocolli, così come interpretate dalla giurisprudenza della Corte Edu, ad essere assunte come diretto termine di referenza per l’interpretazione convenzionalmente orientata del diritto interno ovvero come parametro interposto di legittimità costituzionale nei casi in cui l’interpretazione convenzionalmente orientata non sia legittimamente percorribile .
È precisamente questo il contesto in cui assumono rilevanza sia i limiti selettivi di vincolatività del precedente convenzionale individuati dalla sentenza costituzionale n. 49 del 2015, sia la replica opposta dalla Corte Edu, che nella sentenza G.I.E.M. si è sentita in dovere di ribadire l’eguale valore legale recato da tutte le sentenze da lei pronunciate. Ed è in questo contesto che entrano in gioco i più complessi problemi di gestione, da parte del giudice nazionale, della ratio decidendi espressa dai precedenti giurisprudenziali pronunciati dalla Corte Edu. Nemmeno è scontato che le necessarie competenze tecnico-giuridiche facciano naturalmente parte del bagaglio professionale e culturale del giudice nazionale. La forma mentis del giurista di diritto continentale, in particolare quello italiano, è abituata a governare un sistema interpretativo-applicativo fondato sul principio di primazia del diritto legislativo (art. 104 Cost.) e sulla centralità della ratio legis. Quest’ultima presenta una struttura logico-formale riflettente il carattere generale e astratto della disposizione normativa che la esprime ed è per natura un a priori rispetto al caso concreto da decidere. Coerentemente con questo assetto ordinamentale, negli ordinamenti di civil law la dinamica applicativa della norma giuridica tradizionalmente si struttura secondo la logica della sussunzione e l’argomentazione motivazionale secondo quella analitico-deduttiva. Per contro, nei sistemi di judge-made law è la tecnica del distinguishing a guidare la dinamica decisionale. La logica di gestione del distinguishing è fortemente incentrata sul fatto, e impone di mettere in relazione entità concrete: da un lato il caso da decidere, dall’altro lato il precedente di cui si assume la rilevanza vincolante. La logica del ragionamento giuridico è incentrata in questo caso sulla ratio decidendi, la quale si costruisce a posteriori rispetto al fatto storico oggetto di giudizio.
La sentenza costituzionale n. 49 del 2015 prende le mosse proprio dal timore che il giudice nazionale fraintenda il fatto cui il precedente Cedu si è pronunciato, magari nei confronti di uno Stato diverso dall’Italia, così da ricavarne una ratio decidendi inconferente, errata o comunque non importabile tout court nell’ordinamento italiano in ragione di differenze strutturali di partenza, non ben percepite dalla Corte o non ben comprese dal giudice nazionale. Ritengo che la sentenza n. 49 del 2015 sia eminentemente mossa da un intento di buon senso: scongiurare il rischio di esporre il sistema nazionale agli effetti di un’arbitraria “degradazione” o “degenerazione” che possa conseguire all’interferenza di rationes decidendi fraintese o non trasponibili nel caso da decidere.
Aiuta a comprendere in che modo la dinamica del “fraintendimento” possa in concreto operare la considerazione del ruolo spesso giocato dalle analisi di diritto comparato e internazionale nell’iter motivazionale delle decisioni della Corte Edu. Dette analisi trovano fondamento su veri e propri studi (reports) elaborati dai giuristi della Divisione della ricerca della Corte nei casi più complessi deferiti alla Grande Camera o ad una Camera di sette giudici. In particolare, le analisi di diritto comparato sono elaborate sulla base delle contribuzioni di diritto nazionale messe a disposizione da ciascuno Stato membro, su specifica interrogazione della Corte per mezzo di appositi formulari (esiste oggi la Rete delle Corti Superiori “SCN”), le quali entrano materialmente nel fascicolo di causa. Tali analisi hanno la funzione di fornire alla Corte gli strumenti conoscitivi necessari a verificare l’esistenza in una determinata materia di un margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati nel discostarsi dal trend europeo, nonché quelli necessari ad ancorare a parametri oggettivi e riconoscibili l’interpretazione di quelle clausole convenzionali che maggiormente si aprono ad un ampio ventaglio di possibilità interpretative (ad esempio il concetto convenzionale di “diritto alla vita”, “sicurezza dello Stato”, “imputazione penale”, “vita familiare”). Per fare un esempio, il precedente di Grande Camera Paradiso e Campanelli c. Italia del 24 gennaio 2017, in materia di vincoli familiari de facto e gestazione per conto terzi, e l’opinione concorrente espressa dai giudici De Gaetano, Pinto De Albuquerque, Wojtyczek e Dedov mostrano molto bene il ruolo giocato dalle analisi di diritto comparato e di diritto internazionale nell’iter decisionale.
Tale aspetto espone il giurista di diritto nazionale a peculiari profili di criticità nella gestione dei precedenti della Corte Edu. L’esperienza dimostra quanto profondamente la dogmatica giuridica sia influenzata non solo dalle scelte concettuali di fondo operate nella costruzione sistematica degli istituti, ma anche dalle implicazioni linguistiche connesse alla definizione dei concetti legali, nonché dalle complesse dinamiche multidirezionali che si instaurano tra mondo della semantica e mondo del diritto. È evidente che tale fenomeno si amplifica esponenzialmente quando gli istituti giuridici da trattare appartengano a famiglie giuridiche differenti. La terminologia giuridica inglese e francese utilizzata dalla Corte, e da ciascuna delle sue divisioni, è scrupolosamente sorvegliata e sistematizzata anche grazie all’elaborazione di terminology tables (manuali linguistici), periodicamente aggiornati dai giuristi della Corte di maggior esperienza, i quali hanno la funzione di indirizzare i giuristi della Corte verso l’impiego di un lessico il più possibile univoco ed uniforme, e quindi decifrabile all’esterno. Un’analoga omogeneità linguistica non è ovviamente ravvisabile nelle contribuzioni di diritto nazionale, le quali anzi esibiscono una tanto più ricca varietà semantica quanto maggiore è il grado di eterogeneità ravvisabile tra gli istituti giuridici dei differenti ordinamenti oggetto di comparazione.
Nei testi delle contribuzioni nazionali per il rapporto di diritto comparato destinato al caso Correia de Matos c. Portogallo è interessante osservare il gran numero di varianti lessicali utilizzate per indicare in lingua inglese “colui che esercita la professione legale”: lawyer (termine su cui infine è ricaduta la scelta della sentenza della Grande Camera del 4 aprile 2018), advocate (opzione talora preferita nel rapporto di diritto comparato), ma anche counsel, barrister e attorney. Nelle contribuzioni in alcuni casi sono riscontrabili assimilazioni lessicali per rappresentare concetti tra loro non assimilabili (ad esempio lawyer per indicare talora il procuratore ad litem, talaltra l’esperto giurista più genericamente inteso). In altri casi si riscontra all’opposto l’utilizzazione di termini differenti per descrivere un identico concetto. È ad esempio riscontrabile una certa propensione all’utilizzazione indiscriminata del temine barrister, o talora attorney, per indicare l’avvocato munito di procura alle liti, trascurando tuttavia che tanto il barrister quanto l’attorney sono figure professionali molto tipiche del mondo forense rispettivamente inglese e statunitense, le quali non trovano presso ordinamenti stranieri dei precisi termini di referenza identificabili in professioni giuridiche esattamente corrispondenti. Pertanto, compete al giurista un’attività di decodificazione non solamente linguistica, bensì linguistica e concettuale assieme.
Si consideri altresì la varietà semantica in cui il giurista di divisione si imbatte quando riscontri le opzioni linguistiche prescelte per la traduzione dalla lingua madre di istituti particolarmente tecnici. “Atto di sequestro” viene variamente tradotto con le parole seize, freezing order, charging order, restraint order, attachements, le quali tuttavia nell’inglese tecnico, ed in particolare nell’inglese standard della Corte, non sempre sono concettualmente equivalenti. Talora, nelle contribuzioni provenienti da taluni Stati dell’est Europa è riscontrabile l’espressione arrest of property, è dato supporre per una verosimile assonanza con l’espressione letterale della lingua d’origine. “Autore del reato” viene tradotto con offender, perpetrator, culprit, defendant, ma talora, nelle contribuzioni elaborate da giuristi di lingua madre francese o italiana, anche con l’espressione – inesistente nell’inglese giuridico – author of the crime, evidentemente per traduzione letterale dalla lingua d’origine delle espressioni auteur du crime e autore del reato. “Custodia cautelare in carcere” è abitualmente tradotta nel lessico della Corte con l’espressione pre-trial detention. In molti ordinamenti, tuttavia, non esistono degli istituti processuali perfettamente sovrapponibili. Pertanto, nelle contribuzioni di diritto nazionale si possono ritrovare le espressioni più varie quali take into police custody, remand in custody, detention pending investigation, detention in the period between conviction and appeal. È pertanto necessario operare una corretta ricostruzione concettuale, spesso superando gli schematismi propri delle abituali corrispondenze linguistico-sostanziali cui la forma mentis del giurista della Corte è abituata per tradizione giuridica e formazione culturale.
Tali profili di complessità naturalmente si riversano sul giudice e, in generale, sul giurista di diritto nazionale, il quale è chiamato innanzi tutto a esserne consapevole e a saperne governare le criticità, ai fini di una corretta comprensione sia del fatto posto a fondamento del precedente convenzionale, sia della ratio decidendi a esso sottesa.
4. Il problema della gestione da parte del giudice nazionale del diritto non legificato.
Una volta chiarita la meccanica di funzionamento della ratio decidendi, non deve stupire che nel determinare il margine di apprezzamento la Corte non di rado assuma quali termini di referenza anche diritti propri di ordinamenti estranei alla comunità degli Stati membri del Consiglio d’Europa, evidentemente valorizzando la preminenza del valore conformativo promanante dalla ragionevolezza intrinsecamente riconoscibile in una determinata scelta regolativa, giurisprudenziale o legislativa che sia. In effetti, la proiezione territoriale della sovranità si atteggia diversamente a seconda che si tratti di ordinamenti di diritto legislativo, i quali esigono che siano individuati rigorosamente i limiti spaziali entro i quali la potestà normativa dell’autorità sovrana possa e debba proiettarsi, ovvero ordinamenti di judge made law, nei quali la dimensione più puramente territoriale della sovranità si affievolisce essendo il principio regolativo del caso concreto ricavato non tanto da un atto normativo formale, ma dalla ratio che il “fatto” reca in sé.
Nella sentenza di Grande Camera Scoppola c. Italia (3) la Corte, pronunciandosi in tema di limitazioni del diritto di elettorato delle persone detenute o condannate per taluni gravi reati (art. 3, Prot. n. 1), nel rilevare l’eterogeneità delle soluzioni normative adottate nei diversi Stati e quindi l’inesistenza di un chiaro ed univoco consensus in merito alla necessità di disporre restrizioni del diritto di voto dei detenuti (§§ 45-48 e 101-102), non ha esitato a prendere in considerazione modelli legislativi e giurisprudenziali propri di Stati estranei al Consiglio d’Europa quali Canada, Australia e Sud Africa. Si consideri altresì l’analisi comparatistica sviluppata nella sentenza di Grande Camera Naït-Liman c. Svizzera in tema di giurisdizione universale, ove la Corte ha incluso nel fuoco della propria analisi comparatistica i regimi giuridici vigenti in Canada e Stati Uniti d’America.
Questo spiega anche la flessibilità con cui la Corte Edu utilizza, nei propri apparati motivazionali, le convenzioni OIL non ratificate dallo Stato membro parte del giudizio al fine di ricostruire il quadro giuridico degli obblighi convenzionali che vincolano quello stesso Stato, nonché le deliberazioni di relativi organi di controllo e supervisione (in particolare del Ceacr e del Cla). L’apertura dell’atteggiamento della Corte Edu assume peculiare evidenza nel processo di integrazione del diritto alla contrattazione collettiva e del diritto di sciopero nel campo di applicazione dell’art. 11 Cedu: nei precedenti Demir e Baykara c. Turchia , Enerji Yapi-Yol Sen c. Turchia , Ognevenko c. Russia , la Corte Edu ha richiamato espressamente non solo la Convenzione OIL n. 87 (nei casi di specie ratificata dagli Stati convenuti), ma anche le opinioni degli organi di supervisione dell’OIL, e nella specie del Cla, ove il diritto di sciopero viene definito quale “corollario indispensabile” della libertà di associazione.
Vi sono anche precedenti in cui si riconosce rilevanza interpretativa a ulteriori tipologie di atti internazionali non ratificati dallo Stato parte del giudizio convenzionale: nel caso Marckx c. Belgio la Corte Edu ha richiamato le Convenzioni CoE del 1962 e del 1975, non ratificate dal Belgio, al fine di definire lo status del figlio nato fuori dal matrimonio; nel caso Soering c. Regno Unito , a fronte della mancata ratifica del Protocollo n. 6 da parte del Regno Unito, la Corte ha trovato modo di argomentare circa il fatto che la pena capitale, in talune situazioni, comunque rilevasse alla stregua di trattamento inumano e degradante; nel caso Glass c. Regno Unito la Corte Edu ha riconosciuto rilevanza interpretativa alla Convenzione di Oviedo sulla biomedicina del 1997, nonostante essa non fosse allora ratificata dallo Stato parte del giudizio convenzionale. Negli stessi precedenti Demir e Baykara e Enerji Yapi-Yol Sen la Corte, al fine di delimitare il campo di applicazione dell’art. 11 Cedu, ha richiamato il valore interpretativo dell’art. 5 e dell’art. 6 della Carta europea dei diritti sociali, strumento convenzionale allora non ratificato della Turchia.
Nella sostanza, la giurisprudenza di Strasburgo dimostra che nei processi decisionali della Corte le fonti di soft law sono suscettibili di assumere un’autonoma rilevanza interpretativa, non strettamente vincolata al requisito del recepimento formale ad opera del singolo Stato parte del giudizio convenzionale. In linea generale, è molto significativo l’impatto esercitato dal soft law sulla struttura argomentativa delle decisioni della Corte Edu in relazione alla determinazione sia del significato convenzionale da attribuire alle clausole della Convenzione e dei suoi Protocolli addizionali, sia del margine di apprezzamento riconosciuto a ciascuno Stato membro. In tale ambito assumono rilevanza gli elementi interpretativi offerti da una vastissima gamma di strumenti di diritto internazionale soft quali ad esempio, solo a citarne alcuni, le risoluzioni del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, i reports degli Special Rapporteurs delle Nazioni Unite, i rapporti e le opinioni della Venice Commission, le raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, le decisioni di organi giurisdizionali non facenti parte degli ordinamenti sovranazionali europei (ad esempio la Corte Interamericana dei Diritti Umani).
Diversamente, la CgUe assume un atteggiamento molto più formale rispetto a quanto non avvenga nell’ordinamento Cedu. Nella giurisprudenza della CgUe si distingue nettamente tra strumenti internazionali formalmente ratificati di cui l’Unione europea è parte, e strumenti non ratificati ai quali l’Unione è estranea. Così, se in materia di disabilità la Corte di giustizia ha ritenuto che le disposizioni della direttiva n. 78/2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro debbano essere interpretate in conformità alla Convenzione ONU del 2006 sulla disabilità in quanto quest’ultima è stata ratificata dall’Unione (si consideri il recepimento operato nella giurisprudenza di Lussemburgo, a partire dalla sentenza C-13/05, Chacón Navas, della definizione biopsicosociale di disabilità, poi implementata per legge anche nell’ordinamento italiano), altrettanto non può dirsi con riferimento alle Convenzioni OIL, non ratificate, e invero nemmeno ratificabili non essendo l’Unione europea uno Stato membro dell’organizzazione . Nei casi in cui la giurisprudenza della CgUe ha richiamato talune convenzioni OIL al fine di recepire il valore interpretativo dei principi in esse accolti (giammai i precetti ovvero le norme di dettaglio), ciò è avvenuto in quanto vi sono talune direttive che menzionano tali Convenzioni nei rispettivi “considerando”, come ad esempio fa la direttiva n. 2003/88 in materia di orario di lavoro.
Tale diverso approccio rispetto alla proiezione territoriale della sovranità è diretta conseguenza anche della diversissima rilevanza dimensionale che assume il volume del diritto normativo nel sistema dell’Unione, che è densissimamente legificato, rispetto a quanto non avvenga nel sistema Cedu, nel quale la mole del diritto scritto è estremamente circoscritta, limitata alle poche disposizioni normative che compongono la Convenzione Edu e i suoi Protocolli.
5. Il valore del precedente giurisprudenziale della Corte di giustizia dell’Unione europea: i peculiari tratti distintivi.
Richiamare l’interprete alla responsabilità di una corretta gestione della ratio decidendi consente anche di sdrammatizzare il già citato conflitto che obiettivamente esiste tra le determinazioni assunte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015 e la posizione assunta dalla Corte Edu nella sentenza G.I.E.M., aprendo la strada a una possibile lettura dei criteri selettivi enunciati nella sentenza n. 49 del 2015 non alla stregua di regola tassativa inderogabile, ma come flessibile principio orientativo che indirizza l’interprete verso una saggia e ponderata gestione del problematico approccio con il precedente della Corte Edu.
In conclusione, è utile ricordare alcune differenze strutturali che distinguono il precedente giurisprudenziale Cedu dal precedente della CgUe. Innanzi tutto, non è corretto affermare che l’ordinamento giurisdizionale eurounitario sia in qualche modo ispirato ai sistemi di common law. Tale conclusione non solo è un’inevitabile conseguenza pratica del “peso” recato dalla densissima legificazione che caratterizza il diritto dell’Unione europea, ma è imposta dalla stessa natura rivestita dal giudizio pregiudiziale interpretativo di cui all’art. 267 TfUe. Quest’ultimo, a differenza di quanto avviene nel sistema Cedu, non ha ad oggetto un “fatto”, e nemmeno un “caso”, ma una pura questione giuridica, appunto quella di interpretazione dei trattati e di validità e interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni dell’Unione. Certamente, anche nelle decisioni della CgUe il “fatto” riveste un peso estremamente significativo nell’orientamento della logica decisionale, ma non nel senso che esso sia il “fatto generativo del diritto”, così come invece avviene nel common law propriamente inteso o, perlomeno, nel common law come tradizionalmente rappresentato secondo un idealtipo che invero prescinde dalle eterogenee modalità in cui esso si è sviluppato e storicizzato (si pensi alle rilevantissime differenze che intercorrono tra il sistema di common law inglese e quello nordamericano, e al diverso peso assunto dal diritto legislativo nelle diverse fasi della rispettiva evoluzione storica).
A cosa ci si riferisce, allora, quando si menziona la particolare “forza” che comunemente si riconosce alle pronunce della CgUe? Innanzi tutto, esse sono fonte di un effetto costitutivo del diritto oggettivo. In questo senso la Corte costituzionale, nelle sentenze n. 125 del 2004, n. 241 del 2005 e n. 311 del 2011, ne ha riconosciuto la natura “paranormativa”. Tale caratteristica strutturale, - del resto posseduta, mutatis mutandis, anche dalle sentenze di accoglimento della stessa Corte costituzionale italiana - non può essere confusa con il concetto di common law. Per le stesse ragioni ritengo invece corretto affermare che i sistemi giurisdizionali della Corte Edu e della CgUe, nonostante le sostanziali differenze, siano entrambi ordinamenti di judge made law, con la doverosa precisazione che tale espressione è stata tradizionalmente coniata per qualificare proprio il ruolo della giurisprudenza nei sistemi di common law, ma che oggi mi sembra possa essere più ampiamente estesa alla luce della sopravvenuta evoluzione ordinamentale delle giurisdizioni europee.
I due sistemi giurisprudenziali si differenziano anche per quanto attiene l’individuazione dell’ambito soggettivo e oggettivo di dispiegamento dei rispettivi effetti conformativi. Nella prospettiva della Corte Edu, lo Stato membro è vincolato all’adempimento degli obblighi convenzionali non in una sua particolare articolazione funzionale, ma nel suo complesso alla stregua di soggetto giuridico unitariamente inteso. Il sistema Cedu, in linea di principio, affida alla discrezionalità dello Stato la scelta degli strumenti ritenuti più idonei, e con essa l’individuazione dell’autorità investita della competenza a darvi esecuzione conformemente ai criteri di riparto delle attribuzioni propri dell'ordinamento costituzionale interno. La prospettiva convenzionale è result oriented: ciò che conta, sul versante esterno della compatibilità convenzionale, è il risultato concreto prodotto da una determinata azione positiva o negativa addebitabile allo Stato (nel senso esplicitato in Von Hannover c. Germania ). Essa invece resta indifferente rispetto al tema circa chi debba o possa provvedere all’interno dello Stato membro ad assicurare il risultato della conformità convenzionale e con quali mezzi (a condizione naturalmente che quest’ultimi siano a loro volta compatibili con la Convenzione).
A questo specifico riguardo è rilevabile una sostanziale armonia tra la visione della Corte Edu e quella della Corte costituzionale italiana. Quest’ultima, superata una stagione intermedia in cui ancora riteneva le sentenze della Corte Edu rivolte “allo Stato legislatore” , ha riconosciuto che, pur essendo affidato “innanzitutto al legislatore” il compito di rilevare il conflitto verificatosi tra ordinamento nazionale e sistema convenzionale e di porvi rimedio, grava su tutti i poteri dello Stato l’obbligo di adoperarsi affinché cessino gli effetti lesivi dei diritti protetti dalla Cedu, ma con l’essenziale precisazione che ciò deve avvenire nel rigoroso rispetto delle attribuzioni riconosciute a ciascuno dall’ordinamento costituzionale interno . Pertanto, l’evoluzione del sistema costituzionale riconosce sì l’autorità giurisdizionale quale diretta destinataria dell’obbligo conformativo promanante dalla Cedu, ma non in quanto direttamente investita dall’esterno di tale peculiare funzione, bensì in virtù delle attribuzioni ad essa spettanti “dall’interno” del sistema domestico di ripartizione dei poteri.
Per contro, nel sistema giurisdizionale eurounitario il vincolo conformativo opera diversamente, atteso che l’obbligo di adottare “ogni misura […] generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati” (art. 4, § 3 TUe) vincola lo Stato non solo nella veste di unitario soggetto giuridico, bensì anche in tutte le proprie articolazioni funzionali legislative, amministrative e giurisdizionali, le quali sono direttamente e individualmente chiamate ad adottare ogni effettiva misura di conformazione. In questa prospettiva, le decisioni giudiziarie costituiscono, per antonomasia, “misura particolare” utile ad assicurare la conformità dell’ordine giuridico nazionale rispetto ai fini di volta in volta avuti di mira dal diritto eurounitario.. Il giudice è pertanto individuato dallo stesso diritto dell’Unione quale diretto destinatario dell’obbligo di assicurare il primato del diritto dell’Unione, oggi ancor più alla luce dell’art. 47 CdfUe e dell’art. 19 TUe.
Ciò getta luce su un’ulteriore differenza di sistema che intercorre tra l’orientamento al risultato proprio del sistema Cedu e il principio dell’effetto utile proprio del sistema eurounitario. Quest’ultimo chiama il giudice ad adottare ogni misura particolare (interpretazione conforme, disapplicazione) utile ad assicurare il conseguimento non semplicemente dei risultati stabiliti dalle direttive (art. 288 TfUe), ma di tutte le finalità politiche perseguite dalle istituzioni dell’Unione, così come risultanti non solo dalle disposizioni dei testi normativi, ma anche dalle motivazioni degli atti legislativi (art. 296 TfUe), dal contenuto degli atti non vincolanti degli organi dell’Unione (raccomandazioni, pareri, accordi interistituzionali, risoluzioni, conclusioni o dichiarazioni approvate dalle istituzioni politiche dell’UE, in specie dal Consiglio o dal Parlamento europeo, orientamenti, comunicazioni o linee direttrici adottati dalla Commissione).
Alla luce di quanto detto, si deduce che il sistema giurisdizionale eurounitario, a differenza di quello nazionale, non è focalizzato sull’assorbente valenza interpretativa-applicativa della ratio legis, e nemmeno sulla preponderante ratio regolativa che risiede nella ragione concreta del “fatto” storico, bensì è orientato alle finalità espresse dalla volontà politica del legislatore eurounitario. Per il giudice di diritto nazionale, in particolare per quello italiano, ciò rappresenta una notevole rottura dal punto di vista identitario. Negli ordinamenti di civil law particolarmente ispirati al modello illuministico, è fondativo il principio di rigorosa separazione tra funzione giudiziaria e poteri di indirizzo politico amministrativo. La stessa logica della ratio legis, che è il fulcro interpretativo-applicativo del ragionamento giudiziale, opera alla stregua di struttura a presidio della separazione dei poteri dello Stato e del principio di subordinazione del giudice soltanto alla legge, in quanto vincola il giudice alla volontà del legislatore nei limiti in cui quest’ultima sia stata oggettivizzata nella disposizione normativa (voluntas legis), al contempo schermando il giudice dalle interferenze volontaristiche del legislatore storico che non abbiano trovato riconoscimento formale nel testo legislativo (voluntas legislatoris).
In conclusione, il giudice è chiamato a indossare una doppia toga, come giudice nazionale e come giudice europeo, ognuna caratterizzata ognuna da diverse attribuzioni, prerogative e limiti ordinamentali, che variano di volta in volta a seconda che le situazioni concrete oggetto di giudizio siano disciplinate esclusivamente dal diritto nazionale ovvero siano coperte dal diritto eurounitario e convenzionale.