Testo integrale con note e bibliografia
La sentenza CGUE nella causa Hoffmann -La Roche C-261/21,
1. Introduzione
Le sentenze rese in via pregiudiziale dalla Corte di giustizia sono, come noto, vincolanti per il giudice nazionale e producono effetti erga omnes . Questo significa, in aderenza a principi consolidati, che se il giudice intende discostarsi dai principi espressi dalla Corte (nel medesimo giudizio o in altri precedenti) o nutre ancora dei dubbi, ha l’obbligo di sollevare nuovamente un rinvio pregiudiziale al fine di ottenere ulteriori chiarimenti . I casi di esonero dall’obbligo di rinvio pregiudiziale per i giudici di ultima istanza sono infatti tassativi e sono stati ulteriormente precisati nella più recente sentenza Consorzio Italian Management .
Al di fuori delle ipotesi previste la sentenza del giudice nazionale è dunque resa in violazione dell’art. 267 TFUE e del diritto dell’Unione in genere. Ferma restando la possibilità, quando ve ne siano i presupposti, dell’avvio di una procedura di infrazione da parte della Commissione e/o di azioni di risarcimento del danno eventualmente promosse dalle parti in giudizio , la Corte, ha per contro sempre ribadito il rispetto del principio dell’intangibilità della res iudicata e della definitività delle decisioni, anche qualora risultino in contrasto con il diritto dell’Unione europea e/o in violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. In nome dell’autonomia procedurale, e fatti salvi i limiti dell’equivalenza e dell’effettività, gli Stati restano infatti in linea di principio liberi di scegliere se predisporre o meno, al loro interno, meccanismi processuali che consentano la revisione, la revoca o l’annullamento delle sentenze rese in spregio al diritto dell’Unione europea o alla giurisprudenza della Corte di giustizia, così come di prevedere il riesame di decisioni amministrative che violino tali diritto.
Va riconosciuto, in linea di principio, che le giurisdizioni di ultima istanza appaiono da tempo sufficientemente rispettose del diritto dell’Unione, muovendosi con dimestichezza nell’utilizzo del meccanismo di rinvio pregiudiziale. Lo dimostra la numerosità crescente dei rinvii pregiudiziali e la formulazione di quesiti, peraltro sempre più sofisticati, che non solo attengono a dubbi interpretativi sulle norme sostanziali applicabili nel giudizio in corso, ma mirano spesso e volentieri anche ad ottenere precisazioni sulle modalità di funzionamento di tale meccanismo (e dunque ad esempio sull’estensione o sui limiti tanto del potere che dell’obbligo di rinvio), sui suoi effetti e, infine, sui rimedi esperibili in casi di violazione dell’obbligo rinvio pregiudiziale.
Con riferimento all’ordinamento italiano, dopo il caso Randstad – nel quale veniva chiesto alla Corte di pronunciarsi sulla conformità con i principi del diritto dell’Unione, delle norme processuali italiane (e dell’art. 111 Cost., così come anche interpretato dalla Corte costituzionale) nella misura in cui non prevedono che il ricorso per conflitto di giurisdizione dinanzi alla Corte di Cassazione possa essere esperito per domandare l’annullamento di una sentenza del Consiglio di Stato resa in violazione di una precedente giurisprudenza della Corte ed omettendo di sollevare nuovamente un rinvio pregiudiziale – il caso Hoffmann-La Roche ha fornito alla Corte l’ulteriore opportunità di vagliare alla luce del diritto dell’Unione (e segnatamente degli artt. 19 TUE, 47 della Carta e 267 TFUE) le disposizioni nazionali che limitano il ricorso per revocazione a motivi tassativi e non includono il caso di eventuale conflitto tra la decisione di un giudice di ultima istanza (il Consiglio di Stato) e i principi espressi dalla Corte di giustizia nell’ambito del medesimo procedimento.
A differenza del caso Randstad, il Consiglio di Stato aveva infatti sollevato un rinvio pregiudiziale e, una volta ricevuta la risposta della Corte, aveva recepito nella sua decisione i principi di diritto espressi da quest’ultima. Quel che le parti lamentavano era invece un errore di fatto commesso dallo stesso organo e non corretto neppure all’esito della pronuncia della Corte.
Due sono i profili di interesse nella sentenza Hoffmann-La Roche. Il primo, evidentemente quello più visibile, è relativo ai rimedi eventualmente esperibili nel caso in cui decisioni adottate da giudici di ultima istanza siano rese in contrasto con le sentenze della Corte di giustizia.
Un secondo profilo, che la sentenza sembra (ma solo apparentemente) lasciare sullo sfondo, attiene invece alle competenze e ruoli del giudice nazionale e della Corte nell’ambito del rinvio pregiudiziale. Va infatti subito segnalato che mentre nel caso Randstad la Corte aveva focalizzato l’attenzione solo sugli artt. 19 TUE e 47 della Carta (pur avendo il Consiglio di Stato indicato, tra i parametri interpretativi, anche l’art. 267 TFUE), nel caso Hoffmannn-la Roche, la Corte ha reso la sua pronuncia estendendo le sue valutazioni anche all’art. 267 TFUE.
2. La vicenda Hoffmann-La Roche
La sentenza Hoffmann La Roche chiude una lunga e tormentata vicenda processuale che affonda le radici nel 2014, anno in cui l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato (AGCM) aveva sanzionato il gruppo Roche e il gruppo Novartis per aver concluso un’intesa contraria all’art. 101 TFUE in quanto diretta a differenziare artificiosamente l’uso dei medicinali Avastin e Lucentis, attraverso la diffusione di informazioni ingannevoli sui rischi nell’utilizzo off-label del primo per alcune patologie oftalmiche .
La decisione era stata impugnata dinanzi al Tar Lazio, che rigettava il ricorso , e poi in Consiglio di Stato. Quest’ultimo aveva tuttavia sottoposto alla Corte di giustizia una serie di quesiti pregiudiziali volti in sostanza a sapere se la definizione del mercato operata dall’AGCM fosse corretta tenuto conto, da un lato, della fungibilità dei prodotti ma, dall’altro, del fatto che l’uso dei prodotti era in un caso (Lucentis) off-label e nell’altro, autorizzato dall’EMA e AIFA e se dovesse considerarsi come intesa restrittiva, contraria all’art. 101 TFUE, il comportamento delle due imprese volte a enfatizzare la minore sicurezza o efficacia di un prodotto rispetto all’altro, sebbene non suffragata da esami di conformità alla disposizioni vigenti, da parte di autorità o di giudici nazionali .
Il Consiglio di Stato, ottenuta la risposta dalla Corte di giustizia – nel senso dell’esistenza di un’intesa contraria all’art. 101 TFUE - aveva dunque respinto l’appello con sentenza 4990/2019 confermando in tal modo la decisione dell’AGCM e la condanna al pagamento delle ammende inflitte da quest’ultima.
I due ricorrenti, sostenendo che la sentenza del Consiglio di Stato fosse affetta da errori di fatto, avevano proposto sempre dinanzi al Consiglio di Stato, un ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 395, punto 4 c.p.c.
Come noto, la Corte, all’atto di fornire i principi interpretativi è solita demandare al giudice nazionale la verifica dei presupposti di fatto e di diritto (interno) sui quali evidentemente si incardina il principio di diritto (dell’Unione) . Nello specifico le ricorrenti sostenevano che il Consiglio di Stato non avesse verificato nel merito l’asserita ingannevolezza o meno delle informazioni, e che nel caso di specie comunque non corrispondesse al vero, alla luce di successive e più chiare prese di posizioni delle autorità competenti circa la pericolosità di alcuni effetti del farmaco Lucentis.
Di talché, a dire dei ricorrenti, ne derivava una grave violazione della sentenza della Corte di giustizia, posto che quest’ultima nell’affermare in via di principio l’illiceità della condotta posta in essere da Roche e Novartis, aveva demandato proprio al giudice di rinvio (il Consiglio di Stato) il compito di accertare taluni elementi di fatto (l’ingannevolezza delle informazioni) i quali erano pertanto il presupposto della valutazione in diritto. La sentenza doveva dunque essere revocata in quanto non conforme (sia in punto di fatto che di diritto) alla pronuncia interpretativa della Corte appena resa.
Poiché dal combinato disposto degli artt. 106 c.p.a e 395 e 396 c.p.c. non poteva desumersi un’ipotesi speciale di revocazione per il caso di violazione di sentenze della Corte di giustizia, le parti sollecitavano il Consiglio di Stato a rivolgere ulteriori quesiti alla Corte di giustizia, diretti per l’appunto a sapere se fosse compatibile con il diritto dell’Unione europea un meccanismo processuale che limitasse ad un elenco tassativo di motivi il ricorso per revocazione senza prendere in considerazioni il caso di violazioni manifeste di princìpi espressi dalla Corte di giustizia, e peraltro resi nell’ambito della medesima causa, con l’effetto di consentire la formazione di un giudicato contrastante con il diritto dell’Unione europea.
Assecondando la richiesta delle parti, il Consiglio di Stato aveva sollevato il rinvio pregiudiziale, pur premurandosi, con un’articolata motivazione, di precisare di non ritenere in prima battuta che la questione fosse rilevante e, sostanzialmente di non nutrire dubbi interpretativi. Da parte sua egli infatti non rilevava, in riferimento alla sentenza resa dalla Corte di giustizia nel medesimo giudizio, alcun vizio derivante da errore di fatto o diritto della precedente decisione adottata dallo stesso Consiglio di Stato nel 2019 .
Il Consiglio di Stato si era tuttavia domandato (e questa era l’oggetto del primo quesito) se spettasse a lui o invece alla Corte di giustizia verificare che la sentenza di quest’ultima fosse stata correttamente rispettata nel momento dell’emanazione della sentenza del 2019 . Tale dubbio assumeva, agli occhi del Consiglio di Stato, particolare valore stante il fatto che la sentenza pregiudiziale (di cui si lamentava l’errata applicazione) si incardinava nell’ambito del medesimo giudizio che la aveva originata.
Con il secondo quesito egli poi domandava alla Corte (subordinatamente – si suppone – ad una risposta al primo quesito nel senso dell’appartenenza alla stessa Corte della competenza a verificare la correttezza della decisione emessa in sede nazionale) se la sentenza n. 4990/2019 risultasse effettivamente inficiata da errori di diritto e/o di fatto in violazione dei principi espressi dalla Corte nella sentenza Hoffmann-La Roche del 2018 .
L’ultimo quesito, era infine incentrato sui profili di compatibilità con i principi del diritto dell’Unione europea (artt. 4, par. 3, 19, par. 1, TUE e 2, parr. 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della [Carta]) del meccanismo processuale della revocazione così come previsto dall’ordinamento italiano .
Ritenendo evidentemente che l’esame di quest’ultimo quesito rivestisse un ruolo assorbente rispetto ai primi due, e che alla luce della risposta fornita a tale quesito non occorresse procedere all’analisi degli altri due, la Corte ha quindi concluso la sentenza precisando che « l’articolo 4, paragrafo 3, e l’articolo 19, paragrafo 1, TUE nonché l’articolo 267 TFUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta, devono essere interpretati nel senso che non ostano a disposizioni di diritto processuale di uno Stato membro che, pur rispettando il principio di equivalenza, producono l’effetto che, quando l’organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa di tale Stato membro emette una decisione risolutiva di una controversia nell’ambito della quale esso aveva investito la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi del suddetto articolo 267, le parti di tale controversia non possono chiedere la revocazione di detta decisione dell’organo giurisdizionale nazionale sulla base del motivo che quest’ultimo avrebbe violato l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta a tale domanda».
3. La risposta della Corte sulla revocazione delle sentenze contrarie al diritto dell’Unione europea
Come nel caso Randstad, anche nel caso Hoffmann-La Roche la Corte chiarisce, in via preliminare, che le disposizioni di cui agli artt. 2, parr. 1 e 2, TFUE, richiamate dal giudice di rinvio, oltre agli artt. 19 TUE, 47 della Carta e 267 TFUE, non sono rilevanti ai fini del giudizio . La norma si riferisce infatti alla ripartizione, tra l’Unione e gli Stati membri, delle competenze a legiferare e ad adottare atti vincolanti e dunque essa non è applicabile al caso di specie.
Il perno del ragionamento è invece l’art. 19 TUE, il quale obbliga gli Stati membri a stabilire i rimedi giurisdizionali necessari ad assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva . L’art. 19 TUE sostanzialmente codifica il principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri con i ben noti limiti del rispetto dei principi di equivalenza e di effettività.
Ebbene, nel caso di specie ambedue le condizioni appaiono soddisfatte. In punto di equivalenza, la giurisprudenza chiede che le modalità processuali, nelle situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno, e la Corte rileva per l’appunto che « l’articolo 106, paragrafo 1, del codice del processo amministrativo, letto in combinato disposto con gli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile, limita la possibilità per i singoli di chiedere la revocazione di una sentenza del Consiglio di Stato secondo le medesime modalità, indipendentemente dal fatto che la domanda di revocazione trovi il proprio fondamento in disposizioni di diritto nazionale oppure in disposizioni del diritto dell’Unione».
Riguardo invece all’effettività – e cioè alla condizione secondo cui le modalità procedurali non devono essere tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile la tutela dei diritti conferiti ai singoli dal diritto dell’Unione – nessun elemento porta a ritenere, secondo la Corte, che una disposizione come l’art. 106, par. 1, del c.p.a, in combinato disposto con gli artt. 395 e 396 del c.p.c. leda tale principio e dunque risulti contraria all’art. 19, par. 1, secondo comma, TUE .
Il diritto dell’Unione non obbliga gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso diversi da quelli già contemplati dal diritto interno « a meno che, tuttavia, dall’impianto sistematico dell’ordinamento giuridico nazionale in questione risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione, o che l’unico modo per poter adire un giudice da parte di un singolo sia quello di commettere violazioni del diritto» .
La condizione dell’effettività è soddisfatta perché il sistema processuale italiano consente che « disposizioni di diritto dell’Unione siano invocabili dinanzi a un organo giurisdizionale nazionale, il quale emetta la propria decisione dopo aver ricevuto la risposta alle questioni che esso aveva sottoposto alla Corte in merito all’interpretazione di tali disposizioni»; ed è perfettamente ammissibile […] « che lo Stato membro interessato conferisca all’organo di ultimo grado della giustizia amministrativa di detto Stato la competenza a pronunciarsi in ultima istanza, tanto in fatto quanto in diritto sulla controversia di cui trattasi» . Tale Stato – conclude la Corte – « può, di conseguenza, limitare la possibilità di chiedere la revocazione di una sentenza del suo organo giurisdizionale amministrativo di ultimo grado a situazioni eccezionali e tassativamente disciplinate, che non includano l’ipotesi in cui, ad avviso del singolo soccombente dinanzi a detto organo giurisdizionale, quest’ultimo non abbia tenuto conto dell’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte in risposta alla sua domanda di pronuncia pregiudiziale».
Se l’art. 19 TUE non esige nel caso di specie l’introduzione di un diverso mezzo di ricorso, stessa conclusione deve, per la Corte, imporsi anche in riferimento all’art. 4.3 TUE che – come noto – non ha valore autonomo. Inoltre non viene meno neppure alla luce dell’art. 47 della Carta europea dei diritti fondamentali . Nel caso di specie la motivazione sostanzialmente ricalca, completandola, quella fornita in riferimento all’art. 19 TUE poiché la Corte ribadisce che « quando i singoli hanno accesso, nel settore del diritto dell’Unione interessato, a un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge […] il diritto di accedere a un siffatto giudice, sancito dalla Carta, è rispettato, senza che sia possibile qualificare la norma di diritto nazionale che circoscrive la possibilità di chiedere la revocazione delle sentenze dell’organo di ultimo grado della giurisdizione amministrativa a situazioni eccezionali e tassativamente disciplinate come una limitazione, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, del suddetto diritto sancito all’articolo 47 della stessa» .
L’effettività (della tutela) che intende la Corte non si traduce dunque nella necessità di avere o predisporre un rimedio concretamente efficace per espungere dall’ordinamento interno eventuali violazioni del diritto dell’Unione che invece si cristallizzerebbero in decisioni oramai definitive, ma implica solamente una verifica del fatto che « l’impianto sistematico dell’ordinamento nazionale garantisc[a] ai singoli un rimedio giurisdizionale idoneo a far valere i loro diritti», senza che si “trasmodi” nell’esigenza di garantire ad ogni costo la piena conformità di una decisione nazionale con il diritto dell’Unione, e di prevedere strumenti che pongano eventualmente rimedio ad errori del giudice di ultima istanza.
4. Sull’intangibilità (o meno) del giudicato anche se in contrasto con il Diritto dell’Unione: Hoffmann-La Roche, Randstad e i precedenti
Alla luce del caso Randstad, risolto con sentenza del 21 dicembre 2021, la risposta sembrava prevedibile. La Corte aveva infatti ritenuto –- che «il diritto dell’Unione non impone di disapplicare il principio secondo cui le sentenze del Consiglio di Stato non possono essere annullate, in sede di ricorso di giurisdizione dinanzi alla Corte di Cassazione, qualora il primo abbia omesso di sollevare un rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia». Anche in questo caso sia il principio di equivalenza che quello di effettività risultavano rispettati .
Se i casi Randstad e Hoffmann-La Roche appaiono espressione di un approccio «non intrusivo» della Corte sugli ordinamenti nazionali , specie per ciò che concerne i principi della res iudicata e della certezza del diritto (e dunque della definitività delle decisioni rese in ultima istanza, ancorché in contrasto con principi della Corte di giustizia), va peraltro osservato che – seppur con una giurisprudenza non sempre cristallina – raramente la Corte ha richiesto la disapplicazione di norme processuali che impedissero al giudice nazionale di correggere o revocare decisioni definitive rese in spregio al diritto dell’Unione europea. Ed anzi ha sempre difeso il principio dell’intangibilità della res iudicata .
La sentenza Lucchini , a tutti nota, è infatti connotata da eccezionalità ed era relativa ad una situazione, del tutto particolare, in cui era in questione la ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e l’Unione europea in materia di aiuti di Stato, ed il contrasto tra una decisione definitiva della Commissione che dichiarava l’incompatibilità di un aiuto e una sentenza resa in spregio a tale decisione. In tale contesto, ed in applicazione di un diverso principio, quello del primato, la Corte ha statuito, che il diritto dell’Unione osta all’applicazione di una disposizione nazionale, come l’articolo 2909 c.c. sul principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui la sua applicazione impedirebbe il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile da una decisione della Commissione europea divenuta definitiva .
Al di là del caso Lucchini, la Corte non ha mai inteso introdurre elementi di rottura nell’ambito dei sistemi processuali interni, e ha generalmente fatto leva su meccanismi già espressi in norme nazionali per trarne, alla luce di una rilettura di tali norme in chiave di equivalenza e di effettività, delle soluzioni di equilibrio tra autonomia procedurale ed effettività del diritto dell’Unione europea . Più in particolare, la Corte ha sempre verificato in prima battuta se esistessero regole interne che consentissero di rivedere eccezionalmente una decisione definitiva o una sentenza passata in giudicato, per contrasto con il diritto interno, e se tali regole potessero essere estese per analogia anche ai casi di contrarietà della decisione al diritto dell’Unione .
Il caso Kühne Heitz - noto per aver affermato la possibilità del riesame della decisione amministrativa in contrasto con il diritto dell’Unione - non è altro, infatti, che un’applicazione del principio dell’equivalenza. Nella specie, una norma dell’ordinamento interno consentiva all’amministrazione, in talune ipotesi e senza ledere l’interessi di terzi, di ritornare su una decisione amministrativa, divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice di ultima istanza, qualora fosse intervenuta una giurisprudenza successiva. La Corte ha, pertanto, ritenuto che tale principio dovesse parimenti applicarsi qualora tale decisione, alla luce di una giurisprudenza successiva della Corte di giustizia, fosse ex post risultata errata.
Con la sentenza Kapferer la Corte ha invece coerentemente negato al giudice nazionale di tornare sulla sua decisione (nella specie, una sentenza) in ragione del fatto che, a differenza del caso Kühne Heitz, l’organo nazionale non disponeva di tale potere in virtù del diritto nazionale. Il principio di equivalenza è stato, inoltre, invocato nel caso i-21 Germany e Arcor , ove la Corte ha precisato che «se le norme nazionali di ricorso obbligano a ritirare l’atto amministrativo illegittimo per contrarietà al diritto interno, pur se ormai atto definitivo, allorché il suo mantenimento è «semplicemente insopportabile», identico obbligo deve sussistere a parità di condizioni in presenza di un atto amministrativo non conforme al diritto comunitario». Nella specie, la Corte non ha tuttavia rilevato l’esistenza di norme che dovessero per analogia estendersi alle domande di annullamento degli avvisi di liquidazione definitivi pur se manifestamente illegittimi alla luce del diritto dell’Unione.
L’applicazione del principio di equivalenza, in presenza dei dovuti presupposti, non sembra venir comunque meno per l’inerzia delle parti nell’attivazione dei rimedi previsti . Nel caso Asturcom , ad esempio, relativo ad un lodo arbitrale reso in violazione delle norme a tutela del consumatore, ma divenuto definitivo perché non impugnato, la Corte ha prima rilevato, alla luce dei principi di equivalenza ed effettività, che il termine di ricorso previsto dalla norma interna risultava ragionevole e non impediva alla ricorrente di tutelare con effettività le proprie ragioni, ma ha poi ritenuto che il dovere del giudice nazionale di rilevare d’ufficio, in sede di esecuzione del lodo arbitrale, la contrarietà della clausola compromissoria con la direttiva 93/13/CEE, dovesse essere dedotto dall’esistenza di analogo potere a livello interno , e dunque, ancora una volta, alla luce del principio di equivalenza. .
Per altro verso – e questo è in particolare evidenziato in casi più recenti - l’atteggiamento della Corte resta invece molto rigoroso nella verifica della condizione dell’analogia tra le azioni fondate sul diritto interno e quelle dirette a far valere violazioni di diritti di derivazione europea. Nella sentenza Târșia, riguardante proprio un caso di revocazione per contrarietà con il diritto dell’Unione di una sentenza resa in ultima istanza la Corte ha chiarito che il principio di equivalenza non va inteso come «equivalenza delle norme processuali applicabili a contenziosi aventi diversa natura quali, come accade nel procedimento principale, il contenzioso civile, da un canto, e il contenzioso amministrativo, dall’altro» ma «presuppone un pari trattamento dei ricorsi basati su una violazione del diritto nazionale e di quelli, analoghi, basati su una violazione del diritto dell’Unione», né potrebbe applicarsi «in una situazione come quella del procedimento principale, che riguarda due tipi di ricorsi fondati, sia l’uno sia l’altro, su una violazione del diritto dell’Unione» .
Ancora più cauto appare poi l’approccio adottato dalla Corte, in applicazione del principio di effettività. In tema di giudicato ad esempio, la Corte ha potuto fare leva sull’effettività nei casi in cui una norma o un principio interpretativo di diritto interno precludeva di fatto ad un giudice nazionale di evitare una pronuncia in contrasto con il diritto dell’Unione quando ancora la decisione non era definitiva, senza quindi giungere ad imporre la disapplicazione della norma che attribuisce effetti di autorità di cosa giudicata tra le parti in causa, riguardo ad una decisione definitiva
Nel caso Olimpiclub , ad esempio, ove non era possibile operare in base al principio di equivalenza, la Corte ha chiesto la disapplicazione non della regola secondo cui gli accertamenti fiscali definitivi, ancorché in contrasto con il diritto dell’Unione, non possano essere rimessi in discussione, bensì del (solo) principio interpretativo che consentiva alla norma dell’art. 2909 c.c. di estendere gli effetti del giudicato formatisi in esercizi fiscali precedenti anche ad esercizi fiscali ancora oggetto di giudizio (cd. giudicato esterno). Si trattava dunque e a ben vedere solo di evitare che l’accertamento definitivo effettuato in un determinato esercizio fiscale si potesse ripercuotere, con effetti distorsivi anche sugli esercizi successivi .
In senso similare, nel caso Klausern Holz , la Corte ha ritenuto che una decisione (passata in giudicato) che aveva affermato la validità di taluni contratti dal punto di vista del diritto nazionale, non potesse precludere ad altro giudice, in un successivo e diverso giudizio (di esecuzione di tali contratti), di qualificare tali contratti come aiuti di Stato e dunque di non dar seguito all’esecuzione degli stessi o al risarcimento del danno. Alla luce del principio di effettività la Corte ha infatti ritenuto che fosse contraria al diritto dell’Unione l’applicazione della regola che – nell’esigere nell’ambito di successivi giudizi il rispetto del principio di diritto enunciato nel primo procedimento - avrebbe prodotto la conseguenza di rendere impossibile un intervento contro l’erogazione di aiuti derivanti dall’esecuzione dei suddetti contratti.
Da ultimo, e proprio in tema di revocazione, la Corte nella sentenza Călin ha fatto leva sull’effettività ma solo per ritenere che il termine di decadenza di un mese per proporre il relativo ricorso – in linea di principio ritenuto ragionevole – fosse nel caso di specie da disapplicare poiché la sentenza definitiva, oggetto della domanda di revocazione, non era stata ancora pubblicata . Nel caso in oggetto, infatti, l’ordinamento rumeno prevedeva già espressamente il rimedio per la revocazione di sentenze rese in contrasto con il diritto dell’Unione .
Dalla giurisprudenza della Corte non emerge neppure un approccio di segno contrario in riferimento alla particolare situazione in cui – come evidenziato dal Consiglio di Stato nella sua ordinanza – il giudicato, in pendenza del giudizio di revocazione, non si sia ancora tecnicamente formato (le sentenze acquistano forza di giudicato dopo la scadenza dei termini di impugnazione fissati nell’art. 92 cod. proc. amm.). In una situazione del genere, osserva sempre il Consiglio di Stato, il giudice, avrebbe l’obbligo di adoperarsi per evitare che si consolidi una decisione contrastante con il diritto dell’Unione .
Spunti significativi possono trarsi dal caso Pizzarotti , per quanto relativo al differente contesto del giudizio di ottemperanza. Nella fattispecie veniva in rilievo la contrarietà di una sentenza amministrativa passata in giudicato con una pronuncia della Corte intervenuta posteriormente e la questione verteva dunque sulla possibilità (o obbligo) di tenere conto di nuovi principi interpretativi della Corte di giustizia nell’ambito di un successivo giudizio di ottemperanza.
Ebbene, anche in tal caso, la Corte non ha chiesto la disapplicazione di alcuna norma processuale interna, né del principio dell’autorità di cosa giudicata. Essa ha piuttosto invitato il giudice, a fare ricorso ai principi dell’effetto utile e dell’interpretazione conforme per poter ripristinare la conformità della situazione oggetto del procedimento principale alla normativa dell’Unione nonostante la contrarietà a quest’ultimo della sentenza amministrativa già passata in giudicato. Ed anche in questa occasione la Corte ha, tuttavia, subordinato tale possibilità al fatto che «le norme procedurali interne applicabili prevedano la possibilità, a determinate condizioni, per il giudice nazionale di ritornare su una decisione munita di autorità di giudicato, per rendere la situazione compatibile con il diritto nazionale» Ed effettivamente il giudice aveva in quel caso fatto presente «che, in virtù della propria giurisprudenza, esso può, a determinate condizioni, integrare l’originario disposto di una delle sue decisioni con una statuizione che ne costituisca attuazione, dando luogo a un «giudicato a formazione progressiva». La Corte non ha dunque ragionato in tal caso in termini di stretta equivalenza ma ha fatto leva sull’effettività, letto alla luce del principio di interpretazione conforme, chiedendo al giudice di adottare tra le varie soluzioni possibili quella che assicurasse maggiormente la conformità della soluzione con il diritto dell’Unione. E in chiave di interpretazione conforme è da leggere anche il caso Telecom , ove la Corte ha, anche in tal caso, invitato il giudice a verificare la possibilità di superare nell’ambito di un nuovo giudizio tra le stesse parti, una precedente decisione passata in giudicato e contraria al diritto dei consumatori, attraverso un’interpretazione del diritto nazionale più coerente con il dettato della direttiva.
Alla luce della casistica giurisprudenziale, ed in breve sintesi, i principi di equivalenza ed effettività presuppongono per la loro applicazione che l’ordinamento interno sia comunque ‘predisposto’ ad accogliere una soluzione processuale maggiormente in linea con l’effettività delle tutela delle posizioni giuridiche di fonte europea. L’equivalenza chiede che siano già previsti dei rimedi processuali per analoghe azioni fondate sul diritto interno (e dunque estendibili anche a quelle fondate sul diritto europeo); mentre l’effettività interviene solo laddove le modalità di un rimedio (già tuttavia previsto) siano tali da rendere di fatto impossibile l’esercizio del diritto al ricorso (Călin) o qualora si tratti di evitare che gli effetti di una decisione passata in giudicato, ma contraria al diritto dell’Unione, si ripercuotano nell’ambito di successivi giudizi (Olimpiclub, Klausern) o, ancora, quando il disposto originario si possa ancora correggere (come nel caso di un ‘giudicato a formazione progressiva’), dunque senza disapplicare il principio dell’autorità di cosa giudicata.
Anche il principio di interpretazione conforme può utilmente offrire al giudice la possibilità di superare eventualmente un giudicato di segno contrario, ma va ovviamente ricordato che il limite per la sua applicazione è che non sussista un insanabile contrasto tra la norma interna e il diritto dell’Unione . Un superamento degli attuali orientamenti giurisprudenziali attraverso tale principio non è tuttavia da escludere nei casi in cui esso consenta una lettura dei principi di equivalenza ed effettività maggiormente orientata all’effettività del sistema complessivo di tutela giurisdizionale dell’Unione, in riferimento al quale la vincolatività e la piena efficacia delle sentenze della Corte ne costituiscono il perno centrale.
5. Il ragionamento della Corte e la diversa prospettiva dell’art. 267 TFUE
La conclusione a cui giunge la Corte di giustizia in riferimento agli artt. 19 TUE e 4.3 TUE non può essere rimessa in discussione neppure alla luce dell’articolo 267 TFUE. Questa è la sintesi dell’ulteriore passaggio che la Corte svolge nell’ambito della sua risposta al terzo quesito del Consiglio di Stato. Da un lato, il giudice del rinvio ha l’obbligo di dare piena efficacia alla sentenza emessa in via pregiudiziale e dunque il Consiglio di Stato era tenuto ad assicurarsi che la sentenza n. 4990/2019 fosse conforme all’interpretazione dell’articolo 101 TFUE che la Corte aveva appena fornito . Dall’altro, rientra unicamente nella competenza del giudice «accertare e valutare i fatti della controversia di cui al procedimento principale» e «non spetta» dunque «alla Corte esercitare, nell’ambito di un nuovo rinvio pregiudiziale, un controllo che sia destinato a garantire che tale giudice, dopo aver investito la Corte di una domanda di pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione applicabili alla controversia sottopostagli, abbia applicato tali disposizioni in modo conforme all’interpretazione di queste ultime fornita dalla Corte».
Venendo meno la competenza della Corte di giustizia (e dunque la stessa ragion d’essere di un successivo rinvio pregiudiziale, necessario proprio per consentire alla Corte di esercitare tale competenza), l’art. 267 TFUE non può affatto richiedere l’introduzione di un nuovo rimedio (un nuovo motivo di revocazione) al solo fine di garantire che l’obbligo di dare piena efficacia alle sentenze della Corte sia rispettato da parte dello stesso organo giurisdizionale che, nell’ambito del medesimo giudizio, aveva chiesto di esprimersi sull’interpretazione delle disposizioni applicabili. Conseguentemente – e questo sembra essere il perno centrale del ragionamento - il giudice nazionale non può chiedere alla Corte di verificare se «l’organo giurisdizionale nazionale abbia correttamente applicato al procedimento principale l’interpretazione fornita dalla Corte in risposta a una domanda di pronuncia pregiudiziale da esso precedentemente sottopostale nello stesso procedimento».
Si tratta di pochi passaggi ma meritevoli di alcune riflessioni.
La prima attiene alla tecnica utilizzata dalla Corte. Vale la pena infatti osservare che in tali punti la Corte risponde di fatto anche al primo dei quesiti formulati dal Consiglio di Stato: quest’ultimo intendeva infatti proprio sapere se spettasse alla Corte o al giudice del rinvio la competenza a verificare che i principi enunciati nella sentenza pregiudiziale fossero stati correttamente recepiti nella sentenza nazionale.
Qual è la ragione per la quale la Corte ha evitato di esaminare il primo quesito e ha preferito fornire direttamente la soluzione al terzo quesito pur includendo anche la risposta al primo?
L’unica risposta plausibile è che qualora la Corte avesse formulato tale enunciazione in riferimento al primo quesito, sarebbe stata poi necessariamente indotta a ritenere ultronea una sua risposta non solo al secondo, ma presumibilmente anche al terzo quesito. Quest’ultimo avrebbe perso tecnicamente di rilevanza. Il Consiglio di Stato aveva infatti già chiaramente evidenziato, nell’ordinanza di rinvio, che – qualora la competenza a verificare la corretta applicazione nel caso concreto dei principi espressi dalla Corte nel medesimo giudizio non fosse spettata a quest’ultima – egli avrebbe con ogni certezza rigettato comunque il ricorso. Pertanto, anche nell’ipotesi in cui la Corte avesse riconosciuto l’obbligo di estendere l’istituto del ricorso di revocazione al caso dell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della [Corte], ed in particolare con i principi di diritto affermati dalla [Corte] in sede di rinvio pregiudiziale», tale risposta non avrebbe spostato l’esito del giudizio in sede nazionale in un senso o nell’altro, e dunque non sarebbe stata utile per il giudice nazionale.
Appare dunque abbastanza evidente che la Corte non voleva rinunciare ad esprimersi sul terzo punto, e la ragione va probabilmente ricercata, in primo luogo, nell’esigenza di chiarire – anche all’esito della vicenda Randstad di poco precedente – che il diritto dell’Unione (e segnatamente gli artt. 19 TUE e 47 della Carta) non impone ad un ordinamento interno l’introduzione di nuovi o specifici mezzi di ricorso per far valere eventuali difformità delle sentenze adottate dai giudici di ultima istanza con le pronunce rese in via pregiudiziali, in altri giudizi o anche nel medesimo, nella misura in cui il tali rimedi non esistano neppure per far valere analoghe violazioni di diritto interno e sia comunque garantito l’accesso al singolo a un sistema di rimedi giurisdizionali effettivi.
D’altra parte la formulazione del terzo quesito era tale da dare contestualmente modo alla Corte di fornire incidentalmente al Consiglio di Stato una risposta esaustiva anche al primo quesito, lasciato inevaso, ma certamente di rilievo. Un esame – cosi come richiesto dal giudice di rinvio - basato anche sull’art. 267 TFUE (oltre che sugli artt. 19 TUE e 47 Carta) ha infatti consentito agevolmente alla Corte, nell’ultimo quesito, di fondare il suo ragionamento su un presupposto ben preciso: la competenza a valutare se una sentenza resa in via pregiudiziale sia correttamente applicata in sede nazionale non spetta alla Corte ma al giudice nazionale.
In secondo luogo – proprio partendo da questa premessa - la Corte ha avuto modo di precisare che (anche) dall’art. 267 TFUE non possa dedursi un obbligo di introdurre un nuovo rimedio il cui presupposto di funzionamento è – nel caso di specie – precipuamente quello di indurre la Corte ad esercitare una competenza che non le appartiene.
Infine, appare verosimile che la Corte abbia voluto ancora una volta cogliere l’occasione di precisare alcuni aspetti del meccanismo di rinvio pregiudiziale e, in particolare la sua finalità e contestuali limiti, questa volta, al potere di rinvio anche da parte dei giudici di ultima istanza (cosa che evidentemente non avrebbe potuto fare se avesse limitato la sua risposta solo al primo quesito).
Ecco dunque che la Corte, riprendendo la nota sentenza Consorzio Italian Management , afferma che «per quanto i giudici nazionali possano […] rivolgersi nuovamente alla Corte prima di dirimere la controversia di cui sono investiti, al fine di ottenere ulteriori chiarimenti sull’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte, tale disposizione non può, tuttavia, essere interpretata nel senso che un organo giurisdizionale nazionale possa proporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale volta a chiarire se detto organo giurisdizionale nazionale abbia correttamente applicato al procedimento principale l’interpretazione fornita dalla Corte in risposta a una domanda di pronuncia pregiudiziale da esso precedentemente sottopostale nello stesso procedimento».
In altre parole, il giudice non solo non ha l’obbligo ma non avrebbe neppure il potere di sollevare un rinvio pregiudiziale per sollecitare la Corte ad esprimersi sulla corretta applicazione in sede nazionale di una sua precedente sentenza.
6. Il sottile confine tra applicazione e interpretazione e i ruoli del giudice nazionale e della Corte di giustizia
Il fatto che non spetti alla Corte verificare se l’applicazione delle disposizioni dell’Unione avvenga in maniera conforme all’interpretazione di queste ultime fornita dalla stessa Corte nel medesimo giudizio, discende dalla competenza – da sempre riservata al giudice nazionale - di accertare e valutare i fatti della controversia di cui al procedimento principale .
La tradizionale ripartizione di competenze tra la Corte, che interpreta, e il giudice nazionale che applica, non corrisponde tuttavia ad una gerarchia tra le rispettive funzioni. Il meccanismo del rinvio pregiudiziale si basa infatti, e come noto, sulla collaborazione e sulla reciproca fiducia; se la Corte di giustizia è il sommo interprete del diritto dell’Unione, il giudice nazionale è colui che è deputato a tutelare i diritti dei singoli che si ritengano lesi, con l’ausilio, ove occorra della Corte.
Sicché la competenza del giudice nazionale non è chiaramente limitata alla mera applicazione del diritto dell’Unione o dei principi interpretativi resi sulle stesse da parte della Corte. Nel contesto dell’art. 267 TFUE quel che infatti ricade nella competenza del giudice nazionale, oltre alla valutazione degli elementi di fatto strettamente considerata, è anche l’analisi del quadro giuridico interno, nonché l’interpretazione del diritto dell’Unione (a cui consegue anche l’obbligo di interpretare il diritto interno conformemente al primo). Dunque il giudice interpreta ed applica allo stesso tempo. Tant’è che è il giudice a decidere di attivare il rinvio pregiudiziale (e non le parti in giudizio) ed è colui al quale compete valutare la rilevanza della questione ai fini della sua decisione, sulla base degli elementi di fatto, delle norme nazionali che lui ritiene siano applicabili in giudizio. Tutti aspetti questi, non sindacabili dalla Corte, la quale tutt’al più può declinare la sua competenza nel caso di manifesta irrilevanza o non pertinenza della domanda .
Gli elementi di fatto e le questioni di diritto si intersecano allora inscindibilmente nelle valutazioni che il giudice nazionale deve compiere. E difatti, come espresso dall’Avv. Gen Lagrange, «tracciare il confine tra applicazione e interpretazione è senza dubbio uno dei problemi più complessi sollevati dall’art 177». Appare inoltre certo che una demarcazione tra elementi di fatto e valutazione giuridica degli stessi, è, per quanto riguarda un giudizio pendente in sede nazionale, di pertinenza dello stesso giudice interno alla luce delle regole del proprio ordinamento, restando nella sua signoria la possibile qualificazione – ai fini, come nel caso di specie, del ricorso per revocazione - di un errore come di fatto o come di diritto (e viceversa).
Quel che dunque è possibile segnare è una netta delimitazione a contrario: nell’ambito dell’art. 267 TFUE la Corte non è competente né a valutare i fatti della controversia, né ad applicare norme e dunque a risolvere il caso concreto, né ad interpretare il diritto nazionale . Per contro il giudice nazionale, a cui spettano invece tutti tali compiti, quando si trovi ad applicare ed interpretare le norme dell’Unione, ha però l’obbligo, se di ultima istanza, a sollevare un rinvio pregiudiziale in caso di dubbio (tranne i casi di esonero) e a conformarsi alla sentenza resa dalla Corte.
Insomma, quel che rientra, alla luce dell’art. 267 TFUE, nella sfera di competenza del giudice nazionale è ben più ampio di una mera “applicazione” del diritto dell’Unione e coincide con tutta una serie di operazioni che il giudice è tenuto a svolgere in sede nazionale per giungere alla soluzione della controversia.
Nel caso di specie alla Corte è apparso chiaro – perché dichiarato espressamente nell’ordinanza di rinvio – che la questione verteva su eventuali errori relativi a valutazioni fattuali e dunque attratte nella sfera di competenza del giudice nazionale , ancorché (e questo era l’elemento all’origine del dubbio) era sulla base degli elementi di fatto, confermati in sede di appello dal Consiglio di Stato e riportati nell’ordinanza di rinvio, che la Corte aveva reso la sua sentenza nel 2018 ed erano sempre tali elementi che la Corte chiedeva allo stesso giudice di valutare. E, come si è sottolineato prima, mancando la competenza della Corte (e la possibilità di un rinvio), l’art. 267 TFUE diventa dunque un parametro irrilevante ai fini della valutazione dell’esistenza o effettività del rimedio della revocazione.
Il quesito che ci si potrebbe tuttavia porre è se la posizione della Corte, alla luce dell’art. 267 TFUE possa mutare qualora la censura in sede nazionale riguardasse una valutazione di diritto e non di fatto; ovvero, se il giudice del rinvio si rivolgesse per ipotesi alla Corte al fine di ottenere una valutazione sulla conformità, con il diritto dell’Unione, della decisione nazionale oggetto di domanda di revocazione, in ragione di un dubbio sull’esatta comprensione o interpretazione dei principi resi dalla Corte, piuttosto che all’applicazione degli stessi in sede nazionale. La domanda, in altre parole, è la seguente: qualora il punto attenesse più genericamente ad una violazione di un precedente (per discostarsi dal quale il giudice sarebbe obbligato a sollevare un ulteriore rinvio pregiudiziale; e il pensiero corre anche al caso Randstad) o di una sentenza nazionale resa in spregio alla sentenza resa nell’ambito del medesimo giudizio, residuerebbe ancora un margine per domandare alla Corte di giustizia se l’art. 267 TFUE osti a disposizioni nazionali che limitino il rimedio della revocazione a ipotesi tassative senza prendere in considerazione la violazione di una sentenza della Corte di giustizia?
Non costituirebbe un ostacolo un’eventuale erronea formulazione del quesito volto a indurre la Corte a pronunciarsi sulla conformità di una norma nazionale o anche un eventuale soluzione giuridica che il giudice intendesse adottare all’esito della pronuncia appena resa dalla Corte. Sappiamo infatti che all’occorrenza la Corte riformula i quesiti mal posti, individuando il reale oggetto del quesito nella richiesta di interpretazione delle norme e principi dell’Unione richiamati (o comunque ritenuti pertinenti anche d’ufficio) e facendo da questa poi derivare – a seconda della risposta – una compatibilità o un’incompatibilità del diritto nazionale (o di un principio, una prassi una decisione) secondo la nota formula “osta” o “non osta”.
Sappiamo inoltre che sarebbe certamente possibile per il giudice nazionale che ha sollevato il rinvio riformulare ulteriori quesiti diretti ad ottenere chiarimenti interpretativi sui principi espressi dalla Corte nell’ambito del medesimo procedimento, e ciò proprio al fine di evitare una non corretta applicazione di tali principi in sede di giudizio (oppure per poter statuire su un ricorso per revocazione qualora questo sia previsto dal proprio ordinamento) .
In un caso del genere, differentemente dal caso Hoffmann-La Roche, la Corte sarebbe competente a rispondere al quesito del giudice nazionale. Se è vero che alla Corte non spetta tecnicamente verificare la corretta applicazione da parte del giudice nazionale della sentenza pregiudiziale resa nell’ambito del medesimo giudizio, è d’altra parte indiscutibile che essa, chiamata a rendere nuove precisazioni sulla sentenza appena resa, sarebbe pienamente competente a fornire al giudice nazionale gli elementi utili a consentire a quest’ultimo di dedurre eventuali violazioni del diritto dell’Unione e/o la non corretta applicazione dei principi interpretativi nel giudizio in corso.
Per contro, quel che invece non muterebbe sarebbe, anche in tal caso, la valutazione finale, cioè quella relativa all’(in)utilizzabilità dell’art. 267 TFUE quale parametro per dedurre l’esistenza o meno di un obbligo di introdurre nell’ordinamento interno nuovi motivi di revocazione, al fine di assicurare che il giudice del rinvio ottemperi alla sentenza resa in via pregiudiziale (ed eventualmente consentirgli di sollevare un nuovo rinvio).
L’art. 267 TFUE può essere utilmente richiamato come parametro solo qualora si ritenga che il meccanismo di rinvio sia ostacolato da disposizioni processuali interne che direttamente o solo di fatto precludano al giudice di rivolgersi alla Corte di giustizia nell’ambito di un giudizio nazionale . Con riferimento a giudizi diretti alla revocazione, al riesame o all’annullamento di una sentenza asseritamente in spregio al diritto dell’Unione, si potrebbe ad esempio pensare, in via del tutto teorica, al caso in cui disposizioni nazionali impongano di chiudere il procedimento di revocazione entro un termine determinato o impediscano addirittura una sospensione, con ciò ostacolando o impedendo la rimessione di una questione alla Corte .
Il punto però è proprio questo: affinché l’art. 267 TFUE sia invocabile per ‘scardinare’ regole processuali che ne ostacolino l’attivazione, l’ordinamento nazionale, alla luce della giurisprudenza della Corte, deve già prevedere un rimedio nell’ambito del quale attivare potenzialmente il meccanismo di rinvio (nel caso di specie il ricorso per revocazione).
Quando non è in questione il funzionamento in sé del rinvio pregiudiziale ma invece, e più a monte, la stessa esistenza di un giudizio o procedimento nell’ambito del quale sia possibile annullare o revocare una sentenza resa in spregio al diritto dell’Unione o alla giurisprudenza della Corte, non è dunque possibile fare leva sull’art. 267 TFUE, e le norme utilmente invocabili restano gli artt. 19 TUE (letto alla luce dei principi di equivalenza ed effettività) e l’art. 47 della Carta. Ma per tale via la questione appare già esaustivamente chiarita dalla Corte.
7. Non resta che trovare la soluzione all’interno dell’ordinamento ?
Escluso dunque che sia il diritto dell’Unione ad imporre di mettere mano al meccanismo di revocazione previsto dagli artt. 394 e 395 c.p.c., allo stato attuale la soluzione andrebbe caso mai trovata nell’ambito dell’ordinamento interno.
La strada maestra è, evidentemente, un’introduzione per via legislativa di un nuovo motivo di revocazione per contrarietà a sentenze della Corte di giustizia, peraltro suggerito anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 , e sulla falsariga di quanto disposto dalla Legge delega 21 novembre 2021, n. 206 che prevede l’Introduzione di una nuova ipotesi di revocazione, per le sentenze il cui contenuto è stato dichiarato, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani o ad uno dei suoi Protocolli (con efficacia per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023) . In attuazione di tale Legge, l’art. 3, comma 27, lett. b) dello schema di decreto legislativo , stabilisce che all'articolo 362 c.p.c. dopo il secondo comma sia aggiunto il seguente: «Le decisioni dei giudici ordinari passate in giudicato possono altresì essere impugnate per revocazione ai sensi dell’articolo 391-quater, quando il loro contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione ovvero ad uno dei suoi Protocolli». La lett. o) del medesimo articolo dispone quindi che nel c.p.c. sia inserito un nuovo art. 391-quater .
Nell’attesa, o in difetto di un intervento legislativo volto ad introdurre una previsione analoga anche per il caso di contrarietà alle sentenze della Corte di giustizia, ci si chiede se, per via del principio di equivalenza, tale rimedio possa essere esteso per via giudiziale .
Come riportato in precedenza, la Corte ha precisato che l’equivalenza va inteso in senso stretto nel senso che «presuppone un pari trattamento dei ricorsi basati su una violazione del diritto nazionale e di quelli, analoghi, basati su una violazione del diritto dell’Unione» e non l’equivalenza «delle norme processuali applicabili a contenziosi aventi diversa natura quali, come accade nel procedimento principale, il contenzioso civile, da un canto, e il contenzioso amministrativo, dall’altro» .
Tenendo in debito conto tale giurisprudenza, il fatto che il rimedio sia previsto nell’ambito del processo civile sarebbe superabile nella misura in cui la nuova norma sia richiamata anche nell’ambito del processo amministrativo, come attualmente avviene in forza dell’art. 106 c.p.a. e in riferimento agli artt. 395-396 c.p.c. Allo stato attuale, infatti, lo schema di decreto legislativo prevede che il nuovo motivo di revocazione sia inserito in un nuovo art. 391-quater, anziché nell’ambito dell’art. 395 c.p.c. come invece era indicato nella Legge delega del 2001.
Il punto è però un altro. Oltre al fatto che il caso di revocazione sembrerebbe limitata ai casi in cui risulti pregiudicato un diritto di stato delle persone (che non sia peraltro compensabile con un equa indennità disposta dalla stessa Corte), il nuovo motivo di revocazione di cui all’art. 391-quater sarebbe attivabile solo in caso di una sentenza della Corte Edu successiva alla sentenza nazionale, e non anche quando il giudice nazionale abbia reso la decisione in contrasto con una giurisprudenza già esistente di segno contrario.
Ragionando dunque in termini di equivalenza, tale via potrebbe non essere perseguibile per i casi in cui la sentenza, passata in giudicato, risulti in contrasto con una sentenza precedente e dunque il giudice abbia omesso di sollevare un rinvio pregiudiziale, oppure non si sia conformato alla sentenza della Corte di giustizia resa nel medesimo procedimento. Se così è, i casi Randstad e Hoffmann- La Roche sarebbero rimasti ugualmente fuori.
Resta tuttavia fermo che la nuova previsione potrebbe comunque dare lo spunto ai supremi giudici del nostro ordinamento per sollevare un (ennesimo e ulteriore) rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Il tema è certamente molto sentito e ne è conferma l’ultima ordinanza della Sesta sezione del Consiglio di Stato, del 3 ottobre 2022, con la quale la stessa ha rivolto all’Adunanza Plenaria un quesito volto a sapere se l’omissione di «pronunciarsi sull’istanza di rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea formulata da una delle parti in causa ex art. 267 T.F.U.E. sia qualificabile come omissione di pronuncia dovuta ad errore di fatto con conseguente ammissibilità della revocazione della sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395, comma 1, n. 4) cod. proc. Civ» . In particolare, dice la Sesta sezione, l’errore di fatto sarebbe configurabile quando il giudice sia incorso in un fraintendimento […] in merito alla questione di possibile incompatibilità delle disposizioni interne da applicare per risolvere la controversia con il diritto dell’Unione europea prospettata dalla parte nei motivi di appello». La questione non è peraltro del tutto nuova e già in passato la stessa Sesta nonché la Quarta sezione si erano pronunciate, con interpretazioni tuttavia divergenti . La proposizione del quesito all’Adunanza Plenaria è sintomo dunque della volontà di chiarire possibilmente in via definitiva tale aspetto.
Va tuttavia detto che, a prescindere da quale possa essere l’esito finale, il quesito rivolto all’Adunanza Plenaria coprirebbe solo alcune ipotesi. La strada della revocazione non sarebbe comunque percorribile nei casi di mancata applicazione, da parte del giudice del rinvio, della sentenza pregiudiziale resa dalla Corte nel medesimo giudizio, di violazione di una giurisprudenza precedente. E si potrebbe anche discutere dell’ipotesi – per la verità oramai peregrina, vista la casistica, e dunque abbastanza teorica - in cui non vi sia stata alcuna istanza di parte ma il giudice abbia comunque omesso di rinviare d’ufficio una questione interpretativa rilevante alla Corte di giustizia.
Una presa di posizione dell’Adunanza Plenaria potrebbe in ogni caso contribuire a sensibilizzare il legislatore su questo tema. In linea più generale, un nuovo orientamento giurisprudenziale unitamente all’entrata in vigore delle disposizioni in tema di revocazione delle sentenze nazionali in contrasto con sentenze della Corte Edu, potrebbe inoltre anche consentire, come già rilevato in precedenza, un superamento degli attuali limiti alla revocazione delle sentenze rese in contrasto con pronunce della Corte, per via di una lettura dei principi di equivalenza ed effettività alla luce del principio di interpretazione conforme .
8. La responsabilità dello Stato e il risarcimento del danno: una via praticabile?
Sia consentita infine qualche riflessione sulla possibilità, evocata dalla stessa Corte di giustizia, di un’azione in responsabilità contro lo Stato. L’indicazione di tale rimedio non è una novità ed anzi corrisponde ad una prassi frequente, specie laddove sia rilevata l’insufficienza o inidoneità, dei rimedi predisposti a livello interno per elidere o correggere una violazione del diritto dell’Unione commessa da un giudice di ultima istanza .
E’ d’altra parte vero che anche in presenza di violazioni evidenti un esito positivo di tali azioni è assai raro visti gli stringenti requisiti posti dalla Corte . Lo stesso Avv. Gen. Hogan, nelle sue Conclusioni al caso Randstad , ha ammesso che il rimedio dell’azione per risarcimento dei danni rimane più un’illusione che la realtà .
Se poi si confrontano i casi Randstad e Hoffmann-la Roche, solo il primo sembra evidenziare elementi di una certa consistenza ai fini di un eventuale profilo di responsabilità. La differente configurazione del caso Hoffmann-La Roche rispetto a Randstad, non ha portato, infatti, la Corte a paventare, come invece accaduto in quest’ultimo, la possibilità di un’azione di inadempimento, e d’altra parte nel caso Randstad la Corte era scesa di fatto anche nel merito della questione riscontrando una chiara violazione del diritto secondario, alla luce di precedenti giurisprudenziali di segno contrario. Un ulteriore aspetto di differenziazione, è che nel caso Randstad il Consiglio di Stato aveva omesso di rivolgersi alla Corte – violando dunque l’obbligo posto dall’art. 267, par. 3 TFUE – mentre nella vicenda Hoffmannn-La Roche, il giudice aveva, al contrario, formulato un rinvio pregiudiziale. E sappiamo che la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, pur non costituendo di per sé, motivo di responsabilità, è un elemento che concorre a considerare la violazione (della norma sostanziale) grave e manifesta .
Tuttavia, il fatto che la Corte evochi anche in Hoffmann-La Roche tale possibilità non va neppure letto come una mera clausola di stile e conferma peraltro un ulteriore aspetto: un’azione in responsabilità non sarebbe in linea teorica contraddetta dalle affermazioni secondo cui non spetterebbe alla Corte la valutazione delle circostanze del caso di specie e del quadro giuridico interno né competerebbe ad essa la verifica sulla corretta applicazione della sua sentenza da parte del giudice di rinvio .
Senza entrare nel merito – e dunque valutare se errori in fatto e in diritto sussistano o meno – quel che va rilevato è che eventuali violazioni, per quanto relativo ad un’attività di esclusiva competenza del giudice nazionale - rientrerebbe pur sempre nel campo di applicazione del diritto dell’Unione.
L’art. 267 TFUE impone al giudice del rinvio di dare, all’interpretazione del diritto dell’Unione fornita dalla Corte nella sentenza emessa in via pregiudiziale, piena efficacia . Poiché, come la Corte usa esprimersi, la risposta in via pregiudiziale deve essere utile al giudice , quest’ultimo non è investito di una mera competenza ma ha un reale obbligo di valutare attentamente i fatti di causa e il quadro giuridico interno, onde evitare che la Corte esprima principi che non possono poi concretamente esser applicati, si pronunci su questioni meramente interne o ipotetiche o fittizie. La competenza (interna) del giudice è perciò strettamente funzionale a quella della Corte, poiché si innesta nel procedimento di rinvio pregiudiziale, costituendone il presupposto e poi l’atto conclusivo. E proprio perché le valutazioni che compie il giudice del rinvio non sono sindacabili dalla Corte (a meno di una manifesta irrilevanza o non pertinenza della questione), la responsabilità (in senso lato, del suo compito) è ancora più marcata. Nel momento in cui il giudice dà applicazione alla sentenza egli è, infine vincolato non solo dal dispositivo ma anche dalla motivazione, alla luce della quale il primo deve essere letto .
Per quanto dunque il giudice nazionale agisca entro uno spazio di ampia discrezionalità, che la stesso meccanismo dell’art. 267 TFUE gli garantisce, egli ha il dovere di agire con la massima diligenza perché un suo eventuale errore (in fatto o in diritto) vanificherebbe il ruolo interpretativo della Corte, minando quel rapporto di leale collaborazione tra le Corti che è insito nell’art. 267 TFUE e che è ulteriormente rafforzato dall’art. 4.3 TUE.
Ciò detto, nonostante l’azione in responsabilità costituisca un rimedio residuale, e con minime chances di successo, le ragioni di preoccupazione del Consiglio di Stato risiedono proprio nella possibilità che le parti hanno di avviare tale tipo di azioni.
Il timore di subire azioni disciplinari o risarcitorie, emerge con sempre più vigore, da un lato, in una lunga serie di recenti ordinanze di rinvio che il Consiglio di Stato ha adottato sia all’indomani della sentenza Randstad che della più recente sentenza Hoffmann-La Roche. Si tratta per lo più di rinvii per i quali appare molto chiara l’assenza di dubbi interpretativi ma che sono sollevati a scopo ‘difensivo’, al fine dunque di evitare che un eventuale rifiuto (benché motivato) di rinvio pregiudiziale dia alla parte, che lo abbia richiesto, motivo di agire in responsabilità. Il tentativo del Consiglio di Stato è quello di indurre la Corte a fornire ulteriori dettagli e chiarimenti sui casi di esonero dal rinvio pregiudiziale, sì da limitare al massimo il margine di discrezionalità .
Dall’altro lato, è sempre questo stesso timore che ha spinto il Consiglio di Stato (la sezione Sesta) a rivolgersi all’Adunanza Plenaria, con l’ordinanza del 3 ottobre u.s., per sollecitare un ripensamento sui limiti del ricorso per revocazione nel caso di violazione dell’art. 267 TFUE. Tralasciando il fatto che – come già osservato –il quesito riguarda l’omissione di rinvio (peraltro in casi particolari) e non la (s)corretta applicazione della sentenza della Corte, quel che il Consiglio di Stato stigmatizza è il venir meno dell’intima coerenza dell’ordinamento – «ove lo stesso errore non è considerato a tal punto ingiusto da portare alla revoca, ma le sue conseguenze ingiuste meritevoli di essere rimediate in via risarcitoria” (punto 3.5.4 dell’ordinanza di rimessione)» .
9. Brevi conclusioni
La sentenza Hoffmann-La Roche lascia certamente alcuni punti fermi.
Il primo è una conferma di una tendenza della Corte particolarmente cauta riguardo all’assetto dei rimedi processuali degli ordinamenti interni, e specie per ciò concerne la definitività delle pronunce rese in ultima istanza. La sentenza Hoffmann- La Roche è in perfetta linea di continuità con Randstad ma anche con la casistica giurisprudenziale precedente.
Il secondo, con specifico riguardo all’ordinamento italiano, è l’assenza di alcun obbligo di prevedere o introdurre ulteriori motivi di ricorso per revocazione. La mancanza di un meccanismo di revocazione per i casi di sentenze emesse da giudici di ultima istanza che siano confliggenti con sentenze della Corte di giustizia, non è infatti in contrasto con gli artt. 19 TUE e 47 della Carta.
Una soluzione che assicuri una maggiore coerenza va dunque cercata nell’ambito dell’ordinamento interno e sotto tale profilo sarà certamente di grande interesse la risposta che l’Adunanza Plenaria fornirà alla Sesta sezione del Consiglio di Stato. Il quesito è tuttavia limitato ai casi di omissione di rinvio pregiudiziale (e solo in quanto conseguenza di un errore manifesto di valutazione della rilevanza della questione). Poiché anche una presa di posizione dell’Adunanza Plenaria, nel senso dell’accoglimento dei rilievi della Sesta sezione, avrebbe un valore circoscritto, la via maestra resta dunque quella di un intervento in via legislativa, come auspicato anche dalla Corte Costituzionale, che porti all’espressa previsione di un nuovo motivo di revocazione per contrarietà della sentenza di un giudice di ultima istanza con il diritto dell’Unione, pur con tutte le cautele di cui tale rimedio è generalmente circondato, in primis le esigenze difensive di terze parti eventualmente coinvolte.
Molte sono invece le questioni che restano aperte, a partire da quelle collegate all’eventuale introduzione di tale rimedio. La prima riguarda lo schema che sarebbe più idoneo: se il modello fosse quello adottato per le sentenze della Corte Edu, la revocazione dovrebbe essere limitata ai casi di sentenze sopravvenute al passaggio in giudicato della decisione nazionale. Il rimedio non potrebbe dunque applicarsi a casi analoghi a quelli decisi con le sentenze Randstad e Hoffmann-La Roche. Tale limite rischierebbe tuttavia di introdurre un diverso motivo di incoerenza nel sistema del ricorso per revocazione. Il ricorso non sarebbe applicabile proprio nei casi in cui il giudice, nonostante il rispetto dell’obbligo di rinvio, abbia poi consapevolmente o solo negligentemente disatteso la sentenza che la Corte abbia formulato nell’ambito del medesimo giudizio.
Una seconda questione attiene all’eventuale obbligo che avrebbe un giudice adito con un ricorso per revocazione di sollevare un rinvio pregiudiziale. La violazione potrebbe ad esempio essere molto chiara alla luce di una sentenza in termini nel frattempo sopraggiunta. Un’omissione di rinvio dovrebbe ovviamente essere ben motivata. E’ prevedibile, tuttavia, che il giudice ritenga comunque opportuno attivare il meccanismo dell’art. 267 TFUE, anche per non rischiare di incorrere in eventuale responsabilità.
Un ulteriore ordine di considerazioni ha invece respiro più ampio, andando anche ben oltre la sentenza in oggetto. Esso riguarda i limiti all’obbligo di rinvio e le incertezze interpretative del giudice di ultima istanza. Per quanto la Corte abbia fornito tutta una serie di precisazioni nella sentenza (peraltro sollecitata Consiglio di Stato) evidentemente rimangono diverse zone d’ombra. Nei numerosi rinvii pregiudiziali sollevati recentemente dal Consiglio di Stato, quest’ultimo, da un lato fa mostra di non nutrire alcun dubbio interpretativo sulla portata delle norme applicabili in giudizio, ma dall’altro formula una serie di domande dirette ad ottenere dalla Corte ulteriori dettagli al fine di delimitare il più possibile il confine tra obbligo di rinvio ed esonero dallo stesso. Con l’ordinanza del 21 luglio 2022 il Consiglio di Stato ha ad esempio ritenuto di «dover sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ex art. 267 TFUE, alcune questioni pregiudiziali “di metodo”, incentrate sul tormentato rapporto fra obbligo di rinvio pregiudiziale […] e i parimenti rilevanti principi internazionali e costituzionali della indipendenza del giudice e della ragionevole durata del processo».
Il timore di non ottemperare all’obbligo posto dal terzo par. dell’art. 267 TFUE è peraltro tangibile anche nella sentenza Hoffmann-La Roche. In uno dei passaggi finali della sua ordinanza di rinvio, il supremo organo giurisdizionale amministrativo aveva premesso di «escludere la sussistenza di una violazione, sia dal punto di vista della sua configurazione astratta che da quello fattuale, del diritto dell’Unione europea e dei principi affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia del 23 gennaio 2018».
Il fatto che il Consiglio di Stato cerchi di sollecitare la Corte a fornire ulteriori dettagli è certamente sintomo di grande attenzione e di cautela e risponde a quello spirito di collaborazione che permea il meccanismo di rinvio pregiudiziale. Tuttavia, nonostante la Corte possa continuare a fornire chiarimenti e per quanto possa farlo nella maniera più precisa possibile, i casi di esonero dall’obbligo di rinvio non possono essere misurati con una formula matematica e il giudice non potrà mai essere certo di ottemperare perfettamente alle condizioni richieste dalla Corte. Ma tale incertezza (che certamente porta ad una maggiore responsabilizzazione) non è che il risvolto dello spazio di discrezionalità di cui il giudice gode nell’esercizio della sua funzione e che non è (e non deve essere) compromessa neppure nell’ambito dell’art. 267 TFUE.
Per il resto non resta ovviamente che attendere le future risposte della Corte di giustizia.