Testo integrale con note e bibliografia
Soffermandosi a riflettere sul tema del bilanciamento nella giurisprudenza della Corte di giustizia e sulla necessità di condensarlo in poche righe, pur memori dell’insegnamento di Blaise Pascal, sembra agevole, al contrario, ritenere di poter esaurire rapidamente l’argomento arrestando l’indagine a quella che ormai è diventata quasi una vulgata e, cioè, la sostanziale immobilità della Corte - quanto meno sul piano dei diritti collettivi - rispetto agli approdi riconducibili alle note decisioni Viking e Laval , o, meglio, rispetto all’intero famigerato quartetto di pronunzie del 2007.
Ed invece nei concisi e non del tutto organici spunti che si tenterà di offrire in questo breve contributo si intende muovere da un assessment all’anglosassone affermando che, se sicuramente può individuarsi un prima e un dopo Viking e Laval e probabilmente non si potrà affermare che c’è stato un prima e un dopo SAP SE , la recente sentenza del 18 ottobre scorso sul coinvolgimento dei lavoratori in caso di costituzione di una Società europea mediante trasformazione, nondimeno, dopo Lisbona qualcosa forse si è mosso.
Non sono, forse, i “ruggenti anni ‘20” di cui, sul piano legislativo, parla Claire Klipatrick, ma certo qualcosa è cambiato su un piano cruciale: non tanto in termini di espansione dei diritti sociali tout court quanto su un piano di relativa compressione delle libertà economiche per effetto del parallelo enforcement dei diritti fondamentali (un esempio fra tutti, la transizione ambientale e quella digitale).
1. E, questo il primo snodo della riflessione, il cambiamento ruota innanzitutto intorno alla cooperative conversation di cui parla la Presidente della Corte costituzionale Silvana Sciarra, alla shared jurisdiction descritta da Daniel Sarmiento per giungere, in un’epoca assai più risalente, alla “sentenza soggettivamente complessa” di un Piero Calamandrei ignaro delle implicazioni che tale definizione avrebbe potuto avere in futuro, la pronunzia cui contribuiscono diversi giudici in termini, appunto, cooperativi e non gerarchici.
Il pensiero va, stavolta, ad Association de Mediation Sociale del 2014 non a caso, sull’art. 27. E’ noto che la Corte, dopo aver evitato, non senza qualche acrobazia, di chiarire in Dominguez se le disposizioni della Carta potessero avere effetti diretti orizzontali, in Mediation ha sostanzialmente risposto alla medesima domanda con un “sì, ma non in questo caso” ed è a tutti noto quanto cauta sia la giurisprudenza successiva sul punto; l’Avvocato Generale aveva suggerito un effetto orizzontale che potremmo definire “mediato” con un tentativo, non solo a mio avviso, particolarmente apprezzabile di chiarire il significato e le implicazioni di una disposizione complessa quale l’art. 52, par. 5, della Carta - un vaso di Pandora la cui apertura la Corte di giustizia, senza dubbio deliberatamente, ha deciso di rimandare- .
Di questa complessa soggettività da conto, di recente, la pronunzia Hoffmann - Laroche del 7 luglio scorso là dove, pur al cospetto della autonomia procedurale degli Stati membri, è stata posta la questione della compatibilità, con l’art. 4 par. 3 TUE, con l’art. 19 par. 1, con l’art. 267, tutti letti in particolare alla luce dell’art. 47 della Carta, della insussistenza di un rimedio giurisdizionale, come la revocazione, che consenta di verificare se una sentenza di un giudice nazionale si ponga in contrasto con il diritto dell’Unione ed in particolare con una sentenza precedentemente emessa dalla Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale.
Ma procediamo con ordine.
Scopo di questo scritto è l’assolvimento di un compito che, se si fosse decisi ad iniziare cercando ogni scusa per il fallimento, non si esiterebbe a definire impossibile: la ricerca dei tratti di ciò su cui ruota il progresso della tutela dei diritti sociali in Europa nel bilanciamento fra istanze contrapposte.
2.Può allora affermarsi, sin da ora, che, senza dubbio, il bilanciamento ha assunto nuovi contorni che vertono (questo il secondo punto nodale su cui ci si soffermerà) sulla tutela giurisdizionale effettiva come declinata nelle pronunzie più recenti in tema di rule of law, quella che individua il proprio fulcro negli artt. 21 e 47 della Carta nel combinato disposto con gli artt. 2 e 19 TUE e che oggi trova un nuovo inatteso e sotto alcuni profili dirompente addentellato in quanto affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza Thelen Technopark del gennaio 2022.
E’ passato tanto tempo da quando la Corte dì giustizia con Factortame , in modo diremmo rivoluzionario, declinò incisivamente la tutela giurisdizionale effettiva anche in termini dì tutela interinale. Superato il monismo giuridico descritto da Paolo Grossi e concretizzatosi il passaggio del diritto da scienza teoretica a scienza pratica, per usare le parole di Nicolò Lipari, la tutela giurisdizionale effettiva oggi descritta dall’art 47 della Carta- sicuramente l’articolo più richiamato dai giudici nazionali -, eco sul versante processuale dell’art. 19, ha giocato un ruolo cruciale nella trasformazione delle tutele e nel riconoscimento di un nuovo spazio ai diritti sociali.
Si vedrà fra poco in che termini questa disposizione abbia assunto un rilievo nodale, al punto da diventare non solo cartina di tornasole ma addirittura il perno della tutela dei diritti fondamentali in Europa.
E allora, contrariamente alla vulgata che vuole la Corte immobile su una bilancia che pende inesorabilmente a favore delle libertà economiche, sembra opportuno sottolineare da subito, che quell’enforcement dei diritti sociali fondamentali enfatizzato da pronunzie come Bauer e Max Plank e da decisioni quali la C-762/2018 sulle ferie del licenziato si è realizzato a discapito del principio secondo cui la Corte in tanto è forte in quanto si mostri consistent con se stessa, in quanto non modifichi in modo sostanziale la propria giurisprudenza. La Corte, insomma, qualcosa ha iniziato a rischiare.
Nella sentenza n. 254 del 2020 (all’esito del doppio rinvio contestuale operato dalla Corte di appello di Napoli su licenziamento collettivo ) la Corte costituzionale afferma, con principio che già aveva espresso nelle sentenze n. 63 e n. 20 del 2019 e nelle ordinanze n. 182 del 2020 e n. 117 del 2019, che l’attuazione di un sistema integrato di garanzie ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate – ciascuna per la propria parte – a salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata. Assume rilievo, quindi, secondo la Corte, la circostanza che l’art. 19, paragrafo 1, consideri nel medesimo contesto - così da rivelarne il legame inscindibile - il ruolo della Corte di giustizia, chiamata a salvaguardare «il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati» (comma 1), e il ruolo di tutte le giurisdizioni nazionali, depositarie del compito di garantire «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» (comma 2).
Nella sentenza della Corte Costituzionale n. 67 del 2022, il primato e, con esso, il principio di leale collaborazione, unitamente all’identità nazionale, rappresentano l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti ed obblighi. Emblematico, a mio avviso, il ball game con la Corte di giustizia, che, a sua volta, definisce il rinvio pregiudiziale, a partire dal parere n. 2 del 2013, la chiave di volta del diritto dell’Unione.
Prendendo l’Italia come case - study, non è allora senza significato che da Lisbona ben 631 siano stati i rinvii pregiudiziali e che, di questi, larga porzione abbia riguardato i diritti sociali. In particolare, rispetto al decennio precedente, si è passati da 183 rinvii dei giudici di ultima istanza ai 403 del decennio successivo con un aumento del 120%.
Si può, allora, affermare che al di là di ogni querelle post Cilfit alla luce delle loopholes le scappatoie all’obbligo di rinvio come descritte in Consorzio Italian Management, di cui parlano Daniele Gallo e Lorenzo Cecchetti, il “can che dorme dell’Unione”, per utilizzare la colorita espressione dell’allora Avvocato Generale Bobeck, il “Titano immobile” che oggi pur con circospezione ha iniziato a muoversi, il rinvio pregiudiziale appunto, gode ancora di ottima salute e questo non può che essere l’effetto del processo di costituzionalizzazione del diritto dell’Unione rafforzato dal Trattato di Lisbona ed enfatizzato dall’entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali. Quello che possiamo dire è che la pur non rivoluzionaria Consorzio sia riuscita ad aggiornare Cilfit trovando ancora una volta un bilanciamento fra l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione e la necessità di affidare maggiori responsabilità ai giudici nazionali di ultima istanza alla luce dell’attuale fase del processo di integrazione del diritto dell’unione.
3. Quindi, delineando l’ulteriore snodo su cui si va articolando questa indagine, si può confermare, come già anticipato, che la vera svolta sul piano sociale è stata in termini di tutela giurisdizionale effettiva, potremmo aggiungere allora, memori del primo passaggio di questo intervento, composita cioè risultante dalla sinergia dei diversi protagonisti coinvolti, Corte di giustizia, corti costituzionali, giudici nazionali.
Nella saga polacca che va da Ak del 2019 ad AB del 2021 si inserisce la Grande sezione del 20 aprile 2021 sulla vicenda di nomina dei giudici maltesi in cui, invece, la Corte ha escluso le violazioni prospettate ed ove senza dubbio centrale appare il link fra art. 2 e art. 19 ancora più rimarcato rispetto al caso dei giudici polacchi ma, da questo momento c’è qualcosa di più: si comincia ad enfatizzare ulteriormente la portata dell’art. 2 e dei valori comuni su cui l’Unione si fonda, apertura che, nelle speculazioni successive, ha iniziato ad involgere non più soltanto lo stato di diritto ma anche i diritti sociali ed è questo forse, il nuovo link che possiamo trovare fra rule of law a diritto sociale.
4. La giurisprudenza della Corte più recente evidenzia allora come la stessa sia ormai sempre più “sulla linea del fronte” nella battaglia per la garanzia del rispetto dei valori fondamentali dell’Unione in una accezione oggi più estesa e con una sorta di controllo esterno improntato alla ragionevolezza, come strumento metodologico ineliminabile. Tutela giurisdizionale effettiva, perciò, quale estrinsecazione della ragionevolezza. Ragionevolezza, come attenzione alla realtà, quella ragionevolezza che non scende dalla imposizione legislativa, direbbe Nicolò Lipari, ma sale dalla condivisione.
Il principio di effettività si pone come criterio di individuazione del diritto vigente, alternativo rispetto all’impostazione giusnaturalistica o formalistica.
Con l’espressione effettività si designa usualmente una esistenza giuridica valutata nella concretezza dei comportamenti posti in essere, la law in action che prescinde sia da una vincolatività assoluta sia da una vincolatività legata alla forza cogente della legislazione.
La peculiarità dello scarto rispetto ai tempi di Viking e Laval va ricercata proprio qui, nella ricerca di strumenti volti a garantire la più effettiva tutela giurisdizionale dei singoli, in assenza di gerarchie ma, piuttosto, in un continuo confronto fra soggetti tutti coinvolti. Tutela finalizzata, peraltro, alla prevenzione dei conflitti.
L’ambigua intersezione fra ambito interno e sovranazionale crea ancora qualche incertezza nella compiuta realizzazione di quella effettività quale criterio di raccordo fra norma interna e norma sovranazionale e fine ultimo della giustizia, imponendo la ricerca di percorsi risolutivi.
Giunge così in ausilio la ragionevolezza, come strumento metodologico ineliminabile.
Tante riflessioni sono state dedicate alla ragionevolezza, Qui ci basti ricordare che Cartesio finirà proprio per identificare nella ragione la “capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso”.
La Corte costituzionale già dal 1988 ha avvertito che “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti o astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare”.
5. Vediamo allora, passando rapidamente al secondo snodo di questa riflessione, come quella tutela giurisdizionale effettiva sia stata declinata nella sentenza del 18 gennaio scorso Thelen Technopark in tema di tariffe concernenti gli architetti.
In quella pronunzia, la Grande Sezione ha dichiarato che la direttiva sui servizi non può essere invocata in una controversia tra privati.
Sebbene il divieto di effetto diretto orizzontale delle direttive sia una giurisprudenza consolidata sin dalla storica sentenza Marshall del 1986 , Thelen Technopark riveste un rilievo assai significativo per almeno tre motivi.
In primo luogo, in una precedente sentenza (Commissione c. Germania n. 377/17), a seguito di un procedimento per inadempimento, la Corte aveva esplicitamente dichiarato che il diritto nazionale pertinente era incompatibile con la direttiva sui servizi. A tale riguardo, il giudice nazionale del rinvio nella causa Thelen Technopark aveva altresì chiesto alla Corte se l'effetto diretto orizzontale della direttiva sui servizi potesse, nel caso di specie, fondarsi sull'articolo 260, paragrafo 1, TFUE, che impone a uno Stato membro di conformarsi alla sentenza della Corte (con percorso non troppo dissimile rispetto a quello seguito dal Consiglio di Stato nella vicenda Hoffman - Laroche cit.).
In secondo luogo, la direttiva sui servizi mira ad attuare la libertà di stabilimento di cui all'articolo 49 TFUE e la libera circolazione dei servizi di cui all'articolo 56 TFUE, entrambe invocabili nelle controversie tra privati: essa solleva, allora, la questione circa il se il divieto di effetto diretto orizzontale delle direttive si applichi anche alle direttive che concretizzano una libertà fondamentale dotata di effetti diretti orizzontali.
In altre parole, la questione è se la giurisprudenza Mangold , si applichi per analogia alle Direttive che concretizzano una libertà fondamentale piuttosto che un diritto fondamentale
In terzo luogo, in sofisticate conclusioni, l'Avvocato Generale Szpunar aveva proposto - ancora una volta infruttuosamente - di consentire l'invocazione dell'articolo 15 della Direttiva sui servizi in situazioni orizzontali in quanto esso esprimeva specificamente l'articolo 49 TFUE e, in particolare, perché il diritto nazionale pertinente, violando questa disposizione della Direttiva sui servizi, violava anche la libertà contrattuale sancita dall'articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Il Bundesgerichtshof ha chiesto alla Corte, in primo luogo, se dall'articolo 4, paragrafo 3, TUE, dall'articolo 288 TFUE e dall'articolo 260, paragrafo 1, TFUE risulti che l'articolo 15, paragrafi 1, 2, g) e 3, della direttiva sui servizi possa essere invocato in una controversia tra due privati, vale a dire che tali disposizioni hanno effetto diretto orizzontale.
In subordine, il Bundesgerichtshof ha poi domandato se lo stesso articolo 49 TFUE, o altri principi generali del diritto dell'Unione, richiedano la disapplicazione della normativa di settore in una controversia tra due privati.
Ad avviso del giudice del rinvio, l’esito del ricorso per cassazione (Revision) dipendeva dalla questione circa il se l’articolo 15, paragrafo 1, paragrafo 2, lettera g), e paragrafo 3, della direttiva 2006/123 fosse idoneo a produrre direttamente effetti nell’ambito di una controversia intercorrente esclusivamente tra privati, con la conseguenza che l’articolo 7 della normativa avrebbe dovuto essere disapplicato ai fini della soluzione di tale controversia.
Mentre il Bundesgerichtshof si era limitato a chiedere alla Corte di giustizia se dovesse disapplicare la disposizione pertinente, la Corte ha risposto a tale questione con un breve saggio sul primato del diritto dell'Unione e sul dovere di garantirne la piena efficacia.
La Corte utilizza quello che è quasi diventato un brocardo nell’affermare che “the duty for Member State bodies to give full effect to EU law requires national courts to interpret, to the greatest extent possible, national law in conformity with EU law. They ought to consider the whole body of rules of national law […] in the light of the wording and purpose of the directive in order to achieve an outcome consistent with the objective pursued by that directive”.
Quindi, l’obbligo di tutti gli organi dello Stato membro - su cui si tornerà fra poco - di interpretare il diritto interno nella massima misura in conformità del diritto dell’Unione in modo da assicurare il risultato voluto dalla direttiva.
Ma, nel caso di specie il giudice nazionale osserva che una tale interpretazione avrebbe potuto condurre ad un risultato contra legem. A questo punto, nel ribadire un principio consolidato, osserva la Corte che una Direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un soggetto di diritto e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti dinanzi a un giudice nazionale. Infatti, ai sensi dell’articolo 288, terzo comma, TFUE, il carattere vincolante di una Direttiva, sul quale si fonda la possibilità di invocarla, sussiste solo nei confronti dello «Stato membro cui è rivolta», e l’Unione ha il potere di sancire, in modo generale e astratto, con effetto immediato, obblighi a carico dei cittadini solo ove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti. Pertanto, anche se chiara, precisa e incondizionata, una disposizione di una direttiva non consente al giudice nazionale di disapplicare una disposizione del suo diritto interno ad essa contraria se, in tal modo, venisse imposto un obbligo aggiuntivo a un soggetto di diritto (il richiamo è a CGUE 24 giugno 2019, Popławski II, C 573/17 e giurisprudenza ivi citata).
Ne consegue che un giudice nazionale non è tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del suo diritto nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione, qualora quest’ultima disposizione sia priva di efficacia diretta, ferma restando tuttavia la possibilità, per tale giudice, nonché per qualsiasi autorità amministrativa nazionale competente, di disapplicare, sulla base del diritto interno, qualsiasi disposizione del diritto nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione priva di tale efficacia.
6. Questo è il principio rivoluzionario dettato dalla sentenza. Nei commenti è stato osservato che è quanto meno intrigante che la Corte abbia descritto d'ufficio il dovere dei giudici nazionali di disapplicare d'ufficio il diritto nazionale in conflitto in termini generali. L'opinione dominante nella giurisprudenza è stata che, a seguito dell'autonomia procedurale degli Stati membri e dei principi di equivalenza e di effettività, i giudici nazionali non sono generalmente tenuti ad applicare d'ufficio le disposizioni del diritto dell'Unione, il che renderebbe l'esercizio dei diritti individuali "praticamente impossibile o eccessivamente difficile". Un obbligo per i giudici nazionali di disapplicare il diritto nazionale in conflitto esiste anche specificamente per talune disposizioni del diritto dei consumatori dell'Unione (si veda la causa C-168/05, Mostaza Claro ) e le disposizioni del trattato sul diritto della concorrenza dell'Unione.
Prima di affrontare, quindi, lo snodo inerente al delicato tema degli effetti orizzontali delle direttive, non può non sottolinearsi il peculiare rilievo di una affermazione così dirompente, eppure espressa con singolare nonchalance dalla Corte di giustizia che, pur riaffermando il noto principio secondo cui il giudice non è tenuto a disapplicare una disposizione interna contrastante con una norma dell’Unione priva di effetti diretti, nondimeno facoltizza l’interprete - giurisdizionale o amministrativo - con un semplice e chiarissimo “può” (ovviamente ove ciò sia previsto dal diritto interno), ad effettuare quella disapplicazione autonomamente quando ne ravvisi l’opportunità.
Alla domanda rivoltale dal Bundesgerichtshof circa l’obbligo di disapplicazione, la Corte, nel ribadire che una Direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un soggetto di diritto e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti dinanzi a un giudice nazionale, giunge allora conclusioni inattese anche se senza dubbio ridimensionate dal riferimento alla previsione in tal senso del diritto interno.
7. Passando al punto, nodale, dell’efficacia delle Direttive, è stato osservato come, con riguardo al parere dell'AG Szpunar, nonostante la sua analisi fosse innovativa e perspicace, la Corte abbia giustamente respinto le sue proposte di invocabilità diretta orizzontale, posto che tale conclusione avrebbe probabilmente comportato una maggiore frammentazione e incertezza per quanto riguarda gli effetti giuridici delle disposizioni direttive non attuate.
Si è giunti, quindi, soprattutto da parte della dottrina straniera a sostenere che, se il divieto di effetto diretto orizzontale delle direttive è considerato indesiderabile, la modifica dell'articolo 288 TFUE costituisce, allo stato, il rimedio più adeguato.
Nel 1992, Frank Emmert si espresse a favore del rovesciamento di Marshall perché il divieto di effetto diretto orizzontale delle direttive era destinato a rimanere “a fright without an ending” "uno spavento senza fine"; e quindi l'opzione migliore era quella di avere “a frightening ending” "un finale spaventoso" della regola Marshall. Mentre la Corte ha confermato il divieto due anni dopo in Faccini Dori , la previsione di Emmert ha resistito alla prova del tempo, poiché la giurisprudenza sugli effetti giuridici delle Direttive è diventata sempre più complessa e, secondo molti commentatori, fondamentalmente incomprensibile.
In primo luogo, alla fine degli anni '90, la giurisprudenza cd “effetti accessori” ha messo in dubbio il divieto dell'effetto diretto orizzontale. Nel 2004, la sentenza Wells si è aggiunta alla confusione consentendo a un individuo di invocare la direttiva sulla valutazione di impatto ambientale contro uno Stato membro nonostante le "semplici ripercussioni negative" che un privato terzo subirebbe. Più o meno nello stesso periodo, la Corte sembrava anche aggirare il divieto di effetti diretti orizzontali nella causa Mangold, consentendo a un singolo di invocare la direttiva 2000/78/CE in combinato disposto con il principio generale di non discriminazione nei confronti di un altro privato.
Tuttavia, nelle sentenze Pfeiffer e Berlusconi , la Corte ha insistito, rispettivamente, sul divieto dell'effetto diretto orizzontale e verticale inverso delle Direttive. In particolare, entrambi i casi riguardavano situazioni in cui l'efficacia diretta della Direttiva non avrebbe comportato una “sostituzione” della pertinente disposizione di diritto nazionale con una disposizione di direttiva, ma semplicemente una “esclusione” di norme nazionali contrastanti. Questa distinzione tra "sostituzione" ed "esclusione" era stata sviluppata nella dottrina giuridica come una promettente teoria dell'effetto diretto delle direttive, in grado di spiegare sia Marshall che Faccini Dori da un lato, che la giurisprudenza sugli "effetti accessori" dall'altro.
Contro il parere dei suoi Avvocati Generali, la Corte ha respinto la tesi e ha sempre insistito, particolarmente in Pfeiffer , sull’interpretazione conforme come limite all'invocabilità di Direttive non attuate.
Il risultato in Thelen Technopark è coerente con la teoria degli effetti di esclusione. Il riconoscimento dell’effetto diretto dell'art. 15, commi 1, 2, lett. g) e 3), della Direttiva Servizi avrebbe avuto effetti meramente escludenti, vale a dire la disapplicazione della disposizione interna.
In mancanza di quest'ultima disposizione, il contenzioso tra Thelen e M.N. sarebbe stato disciplinato dai loro obblighi contrattuali e dal diritto contrattuale tedesco generalmente applicabile, non dalla direttiva sui servizi. Tuttavia, come ha osservato l’Avvocato Generale Szpunar, «non vi è motivo di presumere che una direttiva abbia efficacia diretta nei rapporti orizzontali se il risultato della sua inclusione è semplicemente quello di escludere l'applicazione di una disposizione di diritto nazionale». Lo stesso dicasi per la cosiddetta “teoria della spada/scudo”, che il governo olandese aveva sollevato nella sua presentazione alla presente causa,[60] sebbene il fallimento di tale teoria nel descrivere la giurisprudenza sulle direttive fosse già stato ammesso da i suoi stessi sostenitori più di 20 anni fa.
Inoltre, la Corte ha ricordato che una Direttiva non consente a un giudice nazionale di disapplicare un diritto nazionale contrastante se ciò comporta un obbligo aggiuntivo per un individuo. Sebbene questa formulazione non sia univoca su cosa significhi esattamente imporre un obbligo "aggiuntivo" a un individuo, è coerente con il modo in cui abbiamo concettualizzato la logica della giurisprudenza della Corte.
In altre parole, invocare una Direttiva comporta un “obbligo aggiuntivo” a carico di un altro soggetto se incide sulla norma giuridica che disciplina direttamente la controversia in esame, cioè se essa “determina il contenuto sostanziale della norma giuridica in base alla quale il giudice nazionale doveva decidere sulla causa dinanzi ad esso”, come ha affermato la Corte in Unilever Italia e Smith v. Meade .
In sintesi, Thelen Technopark è coerente sia con Smith v Meade e Pfeiffer che con Unilever Italia.
In Thelen Technopark, la conseguenza pratica del divieto dell'effetto diretto orizzontale è parsa deludente, tanto più che la Corte aveva già esplicitamente ritenuto il decreto tedesco incompatibile con l'art. 15 della Direttiva Servizi. Tutto ciò che la Corte poteva offrire a Thelen, la parte che ha cercato di invocare la Direttiva, era una richiesta di risarcimento danni separata contro lo Stato tedesco.
Non può negarsi, tuttavia, che Corte abbia saggiamente evitato il campo minato dottrinale che la proposta di AG Szpunar avrebbe probabilmente causato, insistendo sul divieto di efficacia diretta orizzontale di tutte le direttive.
Ci si può chiedere se la responsabilità dello Stato offra un rimedio sufficientemente efficace per compensare la mancanza di efficacia diretta orizzontale delle direttive. Tuttavia, questa domanda è in definitiva inutile. Il divieto di efficacia diretta orizzontale - nel senso che invocare una Direttiva in quanto tale non può comportare un obbligo diretto a carico di un altro soggetto incidendo sulla norma giuridica che disciplina direttamente la fattispecie in esame - è stato costantemente affermato dalla Corte sin dai tempi di Marshall. Sembra difficile aspettarsi dalla Corte un radicale superamento della sua giurisprudenza consolidata.
Deve, quindi, concludersi affermando che l'efficacia diretta orizzontale delle Direttive in quanto tali è possibile solo attraverso una modifica dell'art. 288 TFUE. Se un tale emendamento sia desiderabile è una questione complessa in gran parte al di là dello scopo di questa riflessione. Si può d’altro canto ipotizzare se questo sviluppo possa motivare il legislatore dell'UE a mantenere la differenza tra Regolamenti e Direttive con altri mezzi, ad esempio rendendo le disposizioni delle Direttive meno precise o addirittura condizionate in modo da preservare - per usare le parole di Robert Schütze - un "pre -effetto nullo” rispetto alle direttive e quindi un maggiore “grado di autonomia legislativa materiale per gli Stati membri”.
Si tratta sostanzialmente di una scelta costituzionale; per ora non può che sottolinearsi come la giurisprudenza Marshall si configuri quale diritto costante, come sembra emergere ancora una volta in Thelen Technopark.
Ma c’è ancora qualcosa di nuovo su questo fronte.
E’ giunta da pochissimo in Grand Chambre (la causa è la C- 715/20) la ancor più seria e cruciale questione dell’efficacia diretta delle Direttive ove le relative disposizioni siano invocate in relazione all’art. 47 della Carta che, come stiamo vedendo, rappresenta ormai il vero core business del sistema. E sarà al centro della questione delle questioni: l’efficacia delle Direttive.
La questione, non nuova per i lavoristi, vertendo sulla vexata quaestio dei contratti a termine, registra, sul diritto UE, una posizione peculiare della Commissione; la rappresentante della stessa ha, infatti, sostenuto in udienza l’effetto effetto diretto orizzontale dell’art. 30. Il delicato passaggio prevede quale norma sostanziale la clausola 4(1) dell’accordo quadro ed il viatico sarebbe rappresentato dall’art. 20 della Carta che, vietando ogni discriminazione elencherebbe motivi in via non esaustiva, ciò che consentirebbe di includere la discriminazione basata sul tipo di contratto di lavoro (a termine o no) fra i motivi protetti. Tale approdo, sul piano sostanziale, incontrerebbe la protezione, sul versante procedurale, dell’. 47 della Carta.
Nell’attesa delle conclusioni dell’Avvocato Generale Giovanni Pitruzzella che dovrebbero essere depositate il 30 marzo, gli interrogativi su una portata dell’art. 47 davvero dirompente, sono molti.
Appare tangibile che, per tale via, qualsiasi disposizione di una direttiva potrebbe diventare, tout court, dotata di effetto diretto orizzontale per il solo essere stata posta in relazione all’art. 47.
Sappiamo che le disposizioni delle direttive sono state lette spesso in combinato disposto con gli artt. 20 e 21 della Carta (da ultimo, con la vicenda riguardante l’Italia sull’età dei commissari di polizia, in cui il limite dei 30 anni è stato ritenuto confliggente con la normativa europea) e, anzi, possiamo affermare che il cammino più pregnante della Carta dei diritti fondamentali - che ha segnato sicuramente un grande avanzamento rispetto ai tempi di Viking e Laval - si sia dipanato proprio lungo i percorsi dei diritti sociali, là dove declinati in correlazione con i principi di uguaglianza e non discriminazione.
E’ lampante, tuttavia, che ben più incisivo e soprattutto diffusivo sarebbe l’effetto di una interpretazione fautrice di una lettura in chiave di effetto diretto orizzontale delle disposizioni che ne siano prive, ove esaminata in combinato disposto con l’art. 47: si pone la rilevante questione della sostanziale parificazione, de facto, di Direttive e Regolamenti che ha indotto molta dottrina straniera a sostenere l’opportunità di una riforma strutturale dell’art. 288 TFUE.
Vedremo cosa dirà l’Avvocato Generale; vedremo cosa dirà la Corte anche se possiamo affermare con tranquillante certezza che questa strada la Corte finora non ha mai inteso percorrerla.
8. Orbene e veniamo qui all’ultimo ganglio di questa indagine, c’è un altro punto della decisione Thelen Technopark che val la pena richiamare e infatti, mentre il Bundesgerichtshof si era limitato a chiedere alla Corte di giustizia se dovesse disapplicare la disposizione interna pertinente, la Corte ha risposto a tale quesito con un breve saggio sul primato del diritto dell'Unione e sul dovere di garantirne la piena efficacia.
La Corte utilizza quello che è quasi diventato un brocardo, nel richiamare l’obbligo di tutti gli organi dello Stato membro di interpretare il diritto interno (to the greatest extent possible), nella massima misura possibile, in conformità del diritto dell’Unione, in modo da assicurare il risultato voluto dalla direttiva.
E allora due sono, senza alcun dubbio, sulla base di un sommario studio statistico, le affermazioni più ricorrenti contenute nelle sentenze della Corte di giustizia: la prima, “spetta al giudice nazionale”; la seconda «nell'applicare il diritto nazionale, i giudici nazionali chiamati ad interpretarlo sono tenuti a tener conto di tutte le norme di quel diritto e ad applicare i criteri ermeneutici da esso riconosciuti per interpretarlo il più possibile (così fin dal caso Marleasing), alla luce della lettera e della finalità del diritto dell’Unione”- due riferimenti costanti all'impegno del giudice nazionale.
Giungiamo cosi a quella che chi scrive ama definire “rivoluzione” Dominguez perché per la prima volta nel 2012 (l’affermazione si consoliderà soprattutto con Poplawsky II del 2019) la Corte ha chiarito che il giudice non deve muovere dalla ricerca della norma dotata di effetto diretto per eventualmente ricorrere, in via succedanea all’interpretazione conforme.
L’ordine è, invece, opposto: di fronte ad una potenziale incongruità del sistema si impone al giudice la previa ricerca dell’interpretazione compatibile fra diritto interno e diritto dell’Unione; solo qualora tale interpretazione risulti del tutto impossibile, ci si muoverà alla ricerca della norma dotata di effetto diretto per procedere alla disapplicazione della norma interna contrastante con il diritto dell’Unione, che rappresenta sempre un vulnus, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
9. E allora forse è sufficiente chiudere questa breve indagine con due esempi di quel procedimento bottom up e top down quale estrinsecazione di bilanciamento in action in un’ottica di ragionevolezza.
9.1. Quanto al primo, oggetto di verifica, nella vicenda decisa dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 22861 del 2022, era la disciplina di diritto interno sulla somministrazione di lavoro, ratione temporis applicabile, in relazione a quanto previsto dall’art. 5.5. della Direttiva 2008/104/CE sul lavoro tramite agenzia interinale.
Nella fattispecie oggetto di causa era stato accertato che il lavoratore fosse stato inviato in missione presso la stessa società utilizzatrice in base a plurimi contratti di somministrazione e di lavoro; la Corte muove da un dato: quello della temporaneità sostanzialmente ontologica del lavoro tramite agenzia interinale.
Nella sentenza del 14 ottobre 2020, nella causa C-681/18, la Corte di Giustizia ha quindi dichiarato che l’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della Direttiva 2008/104 deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che non limita il numero di missioni successive che un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale può svolgere presso la stessa impresa utilizzatrice e che non subordina la legittimità del ricorso al lavoro tramite agenzia interinale all’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustifichino tale ricorso. Per contro, tale disposizione deve essere interpretata nel senso che essa osta a che uno Stato membro non adotti alcuna misura al fine di preservare la natura temporanea del lavoro tramite agenzia interinale, nonché ad una normativa nazionale che non preveda alcuna misura al fine di evitare l’assegnazione ad un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale di missioni successive presso la stessa impresa utilizzatrice con lo scopo di eludere le disposizioni della Direttiva 2008/104 nel suo insieme.
Nella successiva sentenza del 17 marzo 2022, nella causa C- 232/20, la Corte di giustizia ha aggiunto un ulteriore tassello alla valutazione del giudice, evidenziando come missioni successive del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice, ove conducano a una durata dell’attività presso tale impresa più lunga di quella che “possa ragionevolmente qualificarsi «temporanea», alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore”, potrebbero denotare un ricorso abusivo a tale forma di lavoro, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 5, prima frase, della Direttiva 2008/104.
Nella sentenza appena citata, la Corte di Giustizia ha considerato che gli Stati membri possono stabilire, nel diritto nazionale, una durata precisa oltre la quale una messa a disposizione non può più essere considerata temporanea, in particolare quando rinnovi successivi della messa a disposizione di un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice si protraggano nel tempo. Una siffatta durata, in conformità all’articolo 1, paragrafo 1, della Direttiva 2008/104, deve necessariamente avere natura temporanea, vale a dire, secondo il significato di tale termine nel linguaggio corrente, essere limitata nel tempo (Corte di Giustizia, C-232/20 cit. punto 57).
Ora - e qui scatta la sinergia, la conversazione cooperativa fra giudice nazionale e giudice dell’Unione - nell’ipotesi in cui la normativa applicabile di uno Stato membro non abbia previsto una durata determinata, è compito dei giudici nazionali stabilirla caso per caso, alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore (v., in tal senso, sentenza del 18 dicembre 2008, Andersen, C-306/07, punto 52) e garantire che l’assegnazione di missioni successive a un lavoratore temporaneo non sia volta a eludere gli obiettivi della Direttiva 2008/104, in particolare la temporaneità del lavoro tramite agenzia interinale (v. Corte di Giustizia, C-232/20 cit. punto 58). La necessaria temporaneità delle missioni deve essere in ogni caso assicurata, a prescindere da una previsione normativa in tal senso nei singoli ordinamenti nazionali.
Sulla base di tali considerazioni, la sentenza del 17 marzo 2022 ha stabilito che l’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 5, paragrafo 5, della Direttiva 2008/104 debbano essere interpretati nel senso che costituisce un ricorso abusivo all’assegnazione di missioni successive a un lavoratore tramite agenzia interinale il rinnovo di tali missioni su uno stesso posto presso un’impresa utilizzatrice, nell’ipotesi in cui le missioni successive dello stesso lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice conducano a una durata dell’attività, presso quest’ultima impresa, più lunga di quella che può essere ragionevolmente qualificata «temporanea», alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore, e nel contesto del quadro normativo nazionale, senza che sia fornita alcuna spiegazione obiettiva al fatto che l’impresa utilizzatrice interessata ricorre a una serie di contratti di lavoro tramite agenzia interinale successivi, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
Abbiamo allora un primo tassello: temporaneità diremmo ontologica della somministrazione regolare, temporaneità che spetta al giudice verificare e, soprattutto, troviamo l’utilizzazione proficua nell’ottica del bilanciamento che ci interessa della categoria dell’abuso del diritto.
Aggiunge a questo punto la Corte un ulteriore tassello, il tassello dell’obbligo di interpretazione conforme che grava sul giudice nazionale per assicurare il risultato voluto dalla Direttiva.
Come già accennato, pur di fronte ad una disposizione non dotata di effetto diretto, il carattere vincolante della stessa comporta in capo alle autorità nazionali un obbligo di interpretazione conforme del loro diritto interno a partire dalla data di scadenza del termine di recepimento (si veda sul punto, sentenza dell’8 novembre 2016, Ognyanov, C 554/14).
Secondo l’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 24 giugno 2019 nella causa Poplawsky II , l'interpretazione delle norme nazionali il più possibile conforme al diritto dell’Unione è la vera chiave di volta del sistema, il principio che obbliga il giudice a fare tutto ciò che rientra nelle proprie possibilità, in virtù dell’obbligo di leale cooperazione, che su di lui grava ai sensi dell’art. 4 TUE, per pervenire ad una applicazione del diritto interno coerente con il diritto dell’Unione.
L’interpretazione conforme, come già chiaro nella pronunzia Dominguez, diventa preliminare e pregiudiziale e viene estesa fino alle sue estreme conseguenze; l’ordine, pertanto, non è ricerca dell’effetto diretto (con conseguente disapplicazione) ed eventuale successiva interpretazione conforme qualora la norma non sia dotata di effetto diretto.
L’ordine è, come già detto, opposto: di fronte ad una potenziale incongruità del sistema si impone al giudice la previa ricerca dell’interpretazione compatibile fra diritto interno e diritto dell’Unione, nell’ottica della compatibilità; solo qualora tale interpretazione risulti impossibile ci si muoverà alla ricerca della norma dotata di effetto diretto.
Per attuare tale obbligo, il principio d’interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio, nei limiti delle loro competenze, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultimo .
E’ a tutti noto l’insegnamento Pfeiffer , là dove la Grande Sezione ha fornito utili indicazioni ai giudici nazionali chiarendo che, «[s]e è vero che il principio di interpretazione conforme del diritto nazionale, così imposto dal diritto [dell’Unione], riguarda in primo luogo le norme interne introdotte per recepire la direttiva in questione, esso non si limita, tuttavia, all’esegesi di tali norme, bensì esige che il giudice nazionale prenda in considerazione tutto il diritto nazionale per valutare in quale misura possa essere applicato in modo tale da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva» (Pfeiffer cit.). In sostanza, «il principio dell’interpretazione conforme esige quindi che il giudice del rinvio faccia tutto ciò che rientra nella sua competenza, prendendo in considerazione tutte le norme del diritto nazionale, per garantire la piena efficacia [della direttiva in questione]».
Il canone esegetico dell’interpretazione conforme del diritto interno al diritto dell’Unione costituisce patrimonio ormai acquisito nella giurisprudenza della Corte di cassazione (di recente v. Cass. n. 10414 del 2020; Cass. n. 24325 del 2020).
Pertanto la normativa nazionale va esaminata conformemente alla normativa europea, tenuto conto che le indicazioni della Corte di Giustizia, in un caso che rientra nella sfera applicativa dell’articolo 5, paragrafo 5, della Direttiva 2008/104, implicano: a) nell’ambito dei parametri della Direttiva 2008/104, spetta a uno Stato membro garantire che il proprio ordinamento giuridico nazionale contenga misure idonee a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione al fine di prevenire il ricorso a missioni successive con lo scopo di eludere la natura interinale dei rapporti di lavoro disciplinati dalla Direttiva 2008/104; b) il principio di interpretazione conforme al diritto dell’Unione impone al giudice del rinvio di fare tutto ciò che rientra nella sua competenza, prendendo in considerazione tutte le norme del diritto nazionale, per garantire la piena efficacia della Direttiva 2008/104 sanzionando l’abuso in questione ed eliminando le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione (in questi termini le conclusioni dell’Avvocato Generale Sharpston depositate il 23 aprile 2020 nella causa JH c. KG, C-681/18).
La Corte di Giustizia, nelle sentenze del 14 ottobre 2020 e del 17 marzo 2022 più volte citate, ha interpretato la direttiva 2008/104 mettendo in risalto, quale requisito immanente e strutturale del lavoro tramite agenzia interinale, il carattere di temporaneità e segnalando il rischio di un ricorso abusivo a tale forma di lavoro in presenza di missioni successive che si protraggano per una durata che non possa, secondo canoni di ragionevolezza, considerarsi temporanea, avuto riguardo alla specificità del settore e alla esistenza di spiegazioni obiettive del ricorso reiterato a questa forma di lavoro.
In tale contesto, l’obbligo imposto agli Stati membri dall’art. 5, par. 5, prima frase, di adottare le misure necessarie per impedire il ricorso abusivo ad una successione di missioni di lavoro tramite agenzia interinale, in contrasto con le finalità della Direttiva, è chiaro, preciso e incondizionato.
A questo punto si sarebbe potuta scegliere la via, coraggiosa anche se ancora inesplorata, disegnata da Thelen Teknopark e affermare che nonostante la disapplicazione non sia dovuta dal giudice essa, tuttavia, resta possibile?
Il Collegio ha deciso di optare per la più collaudata via della interazione fra norma interna e norma sovranazionale sulla base dell’art. 4 TUE e quindi, posto che l’art. 5, par. 5, cit. non può essere direttamente invocato dal lavoratore in rapporti orizzontali, cioè tra soggetti privati, la possibilità di una interpretazione conforme delle disposizioni nazionali in grado di garantire l’effetto utile alle disposizioni del diritto dell’Unione deve basarsi anche sulle disposizioni interne che disciplinano gli effetti di condotte elusive di norme imperative, e tra queste l’art. 1344 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 1418 cod. civ.
Una interpretazione conforme della normativa interna impone, quindi, di verificare se, nel caso concreto, anche sulla base degli indici rivelatori indicati dalla Corte di giustizia, nonostante l’intervenuta decadenza dall’impugnativa del singolo contratto, il successivo e continuo invio mediante missioni del medesimo lavoratore possa condurre ad un abusivo ricorso all’istituto della somministrazione.
Tale complessiva valutazione non è stata compiuta nel caso considerato e si è deciso che dovesse essere effettuata dal giudice del rinvio, tenendo conto delle indicazioni offerte dalla Corte di giustizia nonché dei principi dinanzi enunciati.
9.2. E passiamo, conclusivamente, alla sentenza SAP SE del 18 ottobre scorso.
Non c’è modo di soffermarsi sul contesto normativo e fattuale in questa sede sembra utile sottolineare 3 aspetti: 1) Per quanto riguarda, in primo luogo, la formulazione dell’articolo 4, paragrafo 4, della direttiva 2001/86, la Corte osserva che quest’ultimo dispone che, fatto salvo l’articolo 13, paragrafo 3, lettera a), di tale direttiva, nel caso di una SE costituita mediante trasformazione, l’accordo sulle modalità relative al coinvolgimento dei lavoratori applicabile a tale SE prevede «che il coinvolgimento dei lavoratori sia in tutti i suoi elementi di livello quantomeno identico a quello che esisteva nella società da trasformare in SE». 2) Per quanto riguarda l’espressione «il coinvolgimento (…) in tutti i suoi elementi», secondo la Corte il «coinvolgimento dei lavoratori» deve ritenersi comprendente «qualsiasi meccanismo, ivi comprese l’informazione, la consultazione e la partecipazione, mediante il quale i rappresentanti dei lavoratori possono esercitare un’influenza sulle decisioni che devono essere adottate nell’ambito della società». 3) Quanto all’espressione «livello quantomeno identico a quello che esisteva nella società da trasformare in SE», il legislatore dell’Unione ha inteso riservare un trattamento speciale alle SE costituite mediante trasformazione, in modo da non pregiudicare i diritti in materia di coinvolgimento di cui godono i lavoratori della società che deve essere trasformata in SE in applicazione della legge e/o delle prassi nazionali.
Dal considerando 10 della direttiva la Corte ha quindi evinto che il legislatore dell’Unione ha ritenuto che, in caso di costituzione di una SE, in particolare mediante trasformazione, sussista un rischio maggiore di scomparsa o riduzione dei sistemi e delle prassi di partecipazione esistenti d’altro canto, anche il considerando n. 18 «[l]a garanzia dei diritti acquisiti dei lavoratori in materia di coinvolgimento nel processo decisionale delle società è un principio fondamentale e l’obiettivo esplicito [di tale] direttiva». Soprattutto, mi sembra importante sottolinearlo, la Corte ha chiarito che dalla direttiva 2001/86 emerge che la garanzia dei diritti acquisiti voluta dal legislatore dell’Unione implica non soltanto il mantenimento dei diritti quesiti dei lavoratori nella società da trasformare in SE, ma anche l’estensione di tali diritti a tutti i lavoratori della SE ( il richiamo è proprio alla v., in tal senso, sentenza del 20 giugno 2013, Commissione/Paesi Bassi, C 635/11, EU:C:2013:408, punti 40 e 41).
Conclusivamente, questo sembra a chi scrive il punto chiave di quel meccanismo bottom up e top down cui si accennava in precedenza, tutti i lavoratori della SE costituita mediante trasformazione devono godere degli stessi diritti di cui godono i lavoratori della società da trasformare in SE. Ne consegue che, nel caso di specie, tutti lavoratori della SAP devono poter beneficiare della procedura elettorale prescritta dalla normativa tedesca, e ciò anche in assenza di indicazioni in tal senso in tale normativa.
10. Si giunge così a chiudere il cerchio. I due esempi richiamati riportano al linguaggio comune, le common words di cui parla Silvana Sciarra, non c’è una prima, non c’è un’ultima parola. C’è una sentenza soggettivamente complessa di Calamandrei che, nel caso del rinvio della Corte di cassazione coinvolge anche il giudice di merito cui la Corte ha indicato di verificare se un abuso in concreto si fosse verificato sulla base degli indici rivelatori che potevano condurre ad escludere la temporaneità tout court della somministrazione. C’è una sentenza soggettivamente complessa che, nel caso della pronunzia sulla società europea garantisce l’enforcement del coinvolgimento dei lavoratori in termini di parità.
C’è, quindi, un linguaggio comune che, nell’ottica degli artt. 4, 19 e 47 del Trattato si muove sempre più nella direzione di una tutela giurisdizionale effettiva che si concretizza sotto l’ombrello del primato, perché, come efficacemente osservava un grande Maestro, Giuseppe Tesauro, un sistema giustizia può definirsi tale soltanto nella misura in cui assicuri tutela effettiva a tutte le istanze.