TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Il considerevole tempo trascorso dall’entrata in vigore della legge n.533 del 1973, così come quello, minore ma ormai cospicuo, trascorso dagli interventi normativi (specialmente quello sull’accertamento tecnico preventivo obbligatorio, di cui alla legge n. 111 del 2011, ovvero quelli che hanno, per primi, modificato il regime della esenzione dalle spese, legge n. 326 del 2003, centrali rispetto al cd. contenzioso previdenziale, consentono di guardare con sufficiente distacco e disincanto al sistema processuale vigente, finalizzato a concretizzare le tutele in un ambito di evidente rilievo sociale quale è quello presidiato, in primo luogo, dall’art. 38 della Costituzione e che si suole definire come “sicurezza sociale”
Nel nostro ordinamento giuridico, la formula “sicurezza sociale” esprime più che altro un concetto politico al quale si era ispirato il legislatore costituente nella formulazione degli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost., ma a cui non seguì l’azione politica della predisposizione di un programma organico di riforma del sistema previdenziale ereditato dal regime corporativo.
Da ciò, la constatazione che l'attuazione dei principi costituzionali si è rivelata lenta e disarticolata, anche per la presenza di equivoci nella formulazione del testo dell'art. 38 Cost., ed ha dato vita ad un mosaico complesso di attribuzioni di compiti a diversi soggetti pubblici e privati, alla cui azione amministrativa si deve il concreto attuarsi dei rapporti contributivi e previdenziali.
Si è osservato che è la sede giudiziaria ordinaria che accomuna la disciplina del contenzioso sui rapporti di previdenza ed assistenza sociale, proprio perché così dispone l’art. 442 c.p.c., come novellato dalla legge n. 533 del 1973, che ha previsto per queste controversie il medesimo rito delle controversie di lavoro. Profondamente diversificata è invece la disciplina del contenzioso amministrativo, che precede la sede giudiziaria e che, là dove ritenuta applicabile, si conforma ai principi espressi da quella generale di cui alla legge n. 241 del 1990, nella parte relativa al contenzioso con la pubblica amministrazione.
Il legislatore del 1973 scelse di applicare il rito del lavoro nella consapevolezza della profonda diversità del contenzioso previdenziale rispetto alle cause di lavoro; in tale secondo tipo di controversie si registrava la drammatica e lacerante situazione “del lavoratore, costretto molto spesso a cedere le armi proprio perché si esaurisce nei meandri della procedura, qualsiasi sua capacità di resistenza […] I giudici debbono vigilare affinché le norme vengano rispettate e (specialmente alla luce dei nuovi poteri loro assegnati) “ tutto ciò per realizzare i principi informatori della oralità, concentrazione, immediatezza e gratuità.
All’interno della legge, tuttavia, un posto a sé era assegnato al gruppo di norme in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie. Il legislatore, come dimostrano i lavori preparatori, ebbe ben chiaro che a tale tipo di controversie non era certo sotteso il conflitto sociale tra lavoratore e capitale (sul quale impegnò la forza e l’autorevolezza del pretore del lavoro), ma il diverso problema del raccordo con il procedimento amministrativo, finalizzato alla concessione delle prestazioni previdenziali ed assistenziali, e della competenza territoriale del giudice, che doveva essere concentrata in quella del pretore del capoluogo del circondario per perseguire una tendenziale uniformità di indirizzi senza perdere di vista l’avvicinamento della giustizia al lavoratore.
In particolare, la preoccupazione fu quella di porre rimedio alla lunghissima attesa del lavoratore che, non avendo ottenuto la prestazione richiesta, rimaneva poi irretito per tempi inaccettabili nelle maglie del contenzioso amministrativo. Si introdusse così, il silenzio rifiuto e si contenne la rilevanza dell’espletamento del procedimento amministrativo, assegnandogli il ruolo di condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria.
Queste linee guida valgono ancora oggi ed impegnano gli operatori del diritto, come anche gli studiosi del sistema, ad una ricognizione critica del sistema processuale “vivente” e ciò, non solo nei contenuti di diritto positivo, ma anche e soprattutto nella ricerca degli atteggiamenti storicamente assunti dai protagonisti del processo previdenziale ed assistenziale.
Non può, infatti, essere trascurato il fatto che il processo previdenziale, sia esso relativo alle prestazioni agli assicurati, che quello relativo alle contribuzioni dovute da datori di lavoro e lavoratori autonomi, come anche quello che ha ad oggetto le misure assistenziali, è contenzioso di forte impatto finanziario per lo Stato e ciò spiega le normali condizionalità che caratterizzano le prestazioni previdenziali ed assistenziali e l’assenza di una relazione di interdipendenza giuridica tra obbligazione contributiva e diritto alla prestazione (come dimostra la regola dell’automaticità delle prestazioni contenuta nell’art.2116 c.c .).
E’ dunque innegabile che il sistema della tutela dei diritti di sicurezza sociale è fondamentalmente regolato dal principio di sostanziale indisponibilità, con minime deroghe, del diritto alla prestazione e che tale indisponibilità è giustificata dal fatto che attraverso di essa si realizzano insieme l’interesse del privato e, in via indiretta, anche quello pubblico.
A tale doppia funzione corrisponde, come la prassi giudiziaria insegna, una continua tensione e divaricazione cui è sottoposto il contenzioso previdenziale ed assistenziale: da una parte vi è l’interesse del privato ad ottenere il massimo beneficio e dall’altro l’interesse dello Stato, attraverso l’azione degli Enti previdenziali, a dare applicazione alla volontà del legislatore, che è molto pragmatico ed obbedisce a logiche mutevoli e strette tra istanze sociali e limiti di bilancio.
Peraltro, si tratta di un impegno finanziario finalizzato a dare concretezza a diritti fondamentali della cittadinanza sociale che non dovrebbero finire travolti da meccanismi processuali impropri ed inadeguati.
Ciò però fatalmente accade ogni volta che il contenzioso, per finalità meramente speculative, assume rilievi quantitativi esorbitanti rispetto alla struttura giudiziaria competente, con l’emersione di fenomeni evidenti di forme di abuso del processo, realizzato ad esempio con la duplicazione o con il frazionamento delle domande.
Si tratta, in tali casi, di forme gravissime di lesione della giurisdizione che prevalgono sulla possibilità che si formi un giudicato implicito sull’ammissibilità dell’azione (vd. Cassazione civile sez. un., 30/10/2008, n.26019) come accade nell’ambito dei procedimenti relativi a controversie in materia di previdenza e assistenza sociale, per le domande che frazionano un credito relativo al medesimo rapporto, comprensivo delle somme eventualmente dovute per interessi, competenze e onorari e ogni altro accessorio, per le quali la legge impone la declaratoria di improcedibilità in ogni stato e grado del procedimento (D.L. n. 112 del 2008, art. 20, commi 7 e 8, convertito nella L. n. 133 del 2008).
A tale situazione, intese porre ulteriore rimedio l'ultimo capoverso dell'art 152 disp. att. cod. proc. civ, inserito dall'art. 38 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111, prevedendo che la parte ricorrente, a pena di inammissibilità di ricorso, formulasse apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l'importo nelle conclusioni dell'atto introduttivo.
Come è noto, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 241 del 2017, ha dichiarato incostituzionale tale disposizione, per la irragionevolezza della sanzione dell'inammissibilità, che integrava una penalizzazione eccessiva e sproporzionata, a fronte di un mancato adempimento di rilevanza meramente formale, ed eccedente rispetto al fine perseguito dal legislatore.
Anche la disciplina dell’accertamento tecnico preventivo obbligatorio non sfugge al destino delle controversie previdenziali ed assistenziali. La disposizione contenuta nell’art. 445 bis c.p.c, introdotta dall’art. 38, comma 1 lett. b) D.L. n. 98 del 2011, conv. con modif. in legge n. 11 del 2011, non ha avuto vita facile.
In uno scenario ove già l’art. 42 del d.l. n. 267 del 2003, conv. con modif. in legge n. 276 del 2003, aveva lasciato la via dei ricorsi amministrativi in caso di rigetto della domanda di prestazione, optando per l’introduzione di un termine semestrale di decadenza, l’introduzione del nuovo art. 445 bis c.p.c. si propose di apprestare un modello procedimentale orientato a deflazionare il contenzioso giudiziario, liberandolo dall’appesantimento della fase di accertamento del requisito sanitario.
Come è noto, l’essenza dell’istituto è scandita da una successione di eventi.
In primo luogo, la materia a cui si rivolge è quella della invalidità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché pensione di inabilità ed assegno di invalidità; in tali casi, la domanda giudiziale deve essere preceduta da un «accertamento tecnico per la verifica delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere».
E’ prevista la presentazione del ricorso da parte del soggetto interessato, da depositarsi presso il Tribunale del circondario in cui il medesimo risiede ed è pure chiarito espressamente che la presentazione del ricorso per accertamento tecnico preventivo interrompe il termine di prescrizione.
Nel caso in cui la domanda giudiziale sia proposta senza previamente esperire il procedimento o senza che questo sia giunto a conclusione, l'improcedibilità deve essere rilevata non oltre la prima udienza dal convenuto o dal Giudice che assegnerà alle parti termine di 15 giorni per l'espletamento o il completamento della procedura.
A seguito del ricorso, il Giudice fissa l'udienza di comparizione delle parti, ove procederà a norma dell'art. 696-bis c.p.c. e del comma 6-bis dell'art. 10 d.l. n. 203 del 2005, per quanto compatibili; in sostanza, il Giudice dispone l'accertamento nominando un CTU e fissando l'inizio delle operazioni peritali. Al termine delle stesse, il Giudice fissa alle parti un termine perentorio non superiore a 30 giorni per dichiarare se condividono o meno le conclusioni del consulente. A questo punto, in assenza di contestazioni, il Giudice — ove non ritenga di dover disporre la rinnovazione delle indagini peritali o, al ricorrere di gravi motivi, di sostituire il consulente — procede all'omologa dell'accertamento tecnico con decreto, provvedendo anche alla liquidazione delle spese del CTU.
Il decreto di omologa non è impugnabile, né modificabile e deve essere notificato a cura del ricorrente all'ente, che provvederà al pagamento delle prestazioni accertate entro i successivi 120 giorni «subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente».
Nel caso in cui una delle parti non condivida le conclusioni del consulente, entro il predetto termine fissato dal Giudice deve depositare apposita dichiarazione di dissenso ed entro i successivi 30 giorni (termine, anche questo, perentorio) deve presentare ricorso introduttivo del giudizio «specificando, a pena di inammissibilità, i motivi di contestazione» 
Il giudizio di cognizione in questione si concluderà con sentenza inappellabile.
Questo schema processuale, forse per ragioni culturali, sulle quali varrebbe la pena di fare approfondimenti che esulano dalla portata di questo contributo, più che tecniche, ha incontrato diversi ostacoli nel suo assorbimento all’interno del sistema delle tutele.
A partire dai dubbi di costituzionalità sollevati dal Tribunale di Roma e disattesi dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 243 del 2014.
Nell’occasione, fatti salvi la insindacabilità della scelta processuale discrezionale del legislatore in materia di modello processuale ed il principio secondo cui il doppio grado di giudizio non rappresenta una garanzia costituzionale, la Corte rigettò, in quanto infondati, i dubbi di costituzionalità avanzati in relazione al procedimento di cui all'art. 445-bis c.p.c., là dove lo stesso avrebbe previsto, secondo la tesi del giudice a quo, delle limitazioni e degli ostacoli al diritto di difesa delle parti. Allo stesso modo sono stati ritenuti infondati anche altri aspetti di rilievo sostanziale, legati alla natura ed alla funzione del procedimento, posto che la Corte Costituzionale ha affermato che l'istituto in esame concretizza un corretto bilanciamento tra il diritto della parte di far valere la sua pretesa assistenziale o previdenziale e gli interessi pubblici della riduzione del contenzioso.
Secondo la Consulta, l'art. 445-bis c.p.c. prevede una mera condizione di procedibilità della domanda attraverso la previsione di un «procedimento giurisdizionale sommario, sul modello dell'istruzione preventiva, a carattere contenzioso», «avente ad oggetto la verifica delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa che si intende far valere in un giudizio, cui fa seguito un (eventuale) giudizio di merito a cognizione piena».
Successivamente all’intervento della Corte Costituzionale, si è dipanata la vicenda interpretativa che ancora oggi, a distanza di oltre un decennio dall’entrata in vigore del procedimento, stenta a trovare una fisionomia comunemente accettata.
Convivono due istanze, certo apprezzabili, sottese all’interpretazione della disciplina del procedimento previsto dall’art. 445 bis c.p.c..
Da una parte si tende a garantire nel più breve tempo possibile che si giunga alla concretizzazione di un accertamento da far valere nei riguardi dell’Ente, per cui, anche forzando visibilmente il testo (invero scarno) si tende a dilatare la portata del modello procedimentale ed a riassorbire all’interno dello stesso molte questioni che invece esulano dai limiti propri dell’istituto che è quello di essere finalizzato al solo accertamento sanitario.
Dall’altra parte, ha finito per giocare un ruolo essenziale proprio la consapevolezza dei limiti di oggetto dell’a.t.p.o. e la necessità di garantire il rispetto delle garanzie di difesa. Esse si dispiegano a tutto tondo, ben oltre la semplice questione dei tempi imposti e non imposti e della non appellabilità della sentenza che conclude la fase di eventuale opposizione. Tali garanzie certamente non furono considerate in via principale dal legislatore, che aveva in mente solo di alleggerire la pressione sul contenzioso giudiziale, oberato dalla commistione dell’accertamento del requisito sanitario con quello degli ulteriori presupposti, ma hanno sollecitato, nella applicazione giurisprudenziale, l’approfondimento di aporie e contraddizioni che la pratica ha fatto emergere.
Senza alcuna pretesa di completezza, giacché occorrerebbe ben altra analisi approfondita, va dato atto di quelle pronunce attraverso le quali, non senza difficoltà ed autocritiche, la giurisprudenza di legittimità ha posto alcuni punti fermi.
Assume rilievo di sistema, a proposito della questione della legittimazione passiva nelle cause indicate nel testo dell’art. 445 bis c.p.c., la pronuncia della Corte di cassazione n. 20862 del 2022, che ha fissato il principio secondo il quale, in tema di controversie assistenziali, nel procedimento di accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c. la legittimazione passiva spetta in via esclusiva all'INPS, avendo l'art. 20 del d. l. n. 78 del 2009 trasferito all'Istituto sia la responsabilità ultima degli accertamenti sanitari in materia di invalidità civile, sordità civile, handicap e disabilità, sia la legittimazione esclusiva a resistere alle domande aventi ad oggetto lo "status" di invalidità non riconosciuto in sede amministrativa.
Dalla individuazione (Cass. n. 20862 del 2022) dell’INPS come unico soggetto passivo, anticipata dalla individuazione nello stesso Istituto dell’unico contraddittore nelle cause relative all’accertamento dello status di handicap (Cass. n. 24593 del 2021), è stato tratto il corollario secondo cui, la sentenza, pronunciata nei confronti dell'INPS, ex art. 445-bis, commi 6 e 7, c.p.c., avente ad oggetto solo un elemento della fattispecie costitutiva, vale a dire l'accertamento del requisito sanitario, funzionale alla concessione di prestazioni assistenziali, ha efficacia di giudicato anche nei confronti di enti diversi dall'INPS, preposti all'erogazione di ulteriori prestazioni, che non vanno considerati terzi rispetto al giudizio, bensì "aventi causa" ex art. 2909 c.c., qualità che va attribuita anche ai soggetti la cui posizione giuridica sia strettamente dipendente da quella facente capo alla parte titolare della statuizione passata in giudicato, salvo i casi in cui siano titolari di una situazione incompatibile con quella decisa o il giudicato sia frutto di collusione o dolo delle parti in loro danno ( Cass. n. 31147 del 2022).
Dunque, (Cass. n. 32695 del 2022) se unico soggetto legittimato passivo è l'INPS, il decreto di omologa del requisito sanitario pronunziato nei confronti di un resistente diverso è impugnabile per il capo relativo alle spese di lite, correlandosi la immodificabilità e non impugnabilità del decreto al presupposto, meramente certificativo, che l'accordo sulle conclusioni del c.t.u. sia intervenuto tra le "giuste" parti del procedimento; ne consegue che, in caso di erronea individuazione del legittimato passivo e di condanna di quest'ultimo al pagamento delle spese di lite, va ammessa l'esperibilità del rimedio di cui all'art. 111, comma 7, Cost., da parte del soggetto non legittimato che, altrimenti, resterebbe in via definitiva privo di qualsivoglia tutela giurisdizionale. Il che, come esplicitato da Cass. n. 33128 del 2022, supera il precedente orientamento espresso da Cass. n. 23899 del 2021.
Altri tasselli importanti sono stati posti in tema di interesse ad agire, essendosi precisato che l'ammissibilità dell'accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c. presuppone, come proiezione dell'interesse ad agire ai sensi dell'art. 100 c.p.c., che l'accertamento medico-legale, richiesto in vista di una prestazione previdenziale o assistenziale, risponda ad una concreta utilità per il ricorrente - la quale potrebbe difettare ove siano manifestamente carenti, con valutazione "prima facie", altri presupposti della predetta prestazione -, al fine di evitare il rischio della proliferazione smodata del contenzioso sull'accertamento del requisito sanitario ( Cass. n. 13662 del 2015; n. 2587 del 2020, n.14629 del 2021.
Inoltre, (Cass. n. 24953 del 2021) l'interesse ad agire per il riconoscimento della condizione di portatore di handicap grave, di cui all'art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992, sussiste indipendentemente dalla specificazione di un determinato beneficio, in quanto la predetta condizione assume un pieno rilievo giuridico, essendo tutelata dall'ordinamento in funzione del successivo riconoscimento di molteplici misure finalizzate a rimuovere le singole situazioni di discriminazione dalla stessa generate.
Tuttavia, (Cass. n. 36382 del 2021) l'accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c., espletato ai fini del conseguimento di una determinata prestazione, non può essere utilizzato, in caso di rigetto della domanda per insussistenza del relativo requisito sanitario, quale presupposto per l'ottenimento di una prestazione diversa, dal momento che l'indicazione, nel ricorso, della specifica prestazione invocata è essenziale sul piano dell'interesse ad agire, ai sensi dell'art. 100 c.p.c., non potendo ritenersi ammissibile la richiesta di un accertamento sanitario genericamente individuato.
In tema dei poteri del giudice, dal versante procedimentale e nella consapevolezza della necessità di salvaguardare l’essenza della giurisdizione che sarebbe negata dall’abnorme esercizio del potere di omologa, si è affermato (Cass. n. 9356 del 2023) che il decreto di omologa dell'accertamento tecnico preventivo è ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., se pronunziato dal giudice senza la previa fissazione - con decreto comunicato alle parti e all'esito delle operazioni di consulenza - di un termine non superiore a trenta giorni per contestare le conclusioni del c.t.u., perché proprio dallo spirare del predetto termine (posto a salvaguardia del diritto di difesa) deriva, in difetto di contestazioni, l'intangibilità dell'accertamento.
Ancora, il provvedimento di diniego (rigetto o inammissibilità) dell'istanza, emesso senza espletare la consulenza tecnica, non è ricorribile ex art. 111, comma 7, Cost., in quanto il provvedimento in questione non incide con effetto di giudicato sulla situazione giuridica soggettiva sostanziale - attesa la possibilità per l'interessato di proporre una nuova istanza, al sopravvenire di nuovi elementi di fatto o di diritto - ed è comunque idoneo a soddisfare la condizione di procedibilità di cui all'art. 445 bis, comma 2, c.p.c., sicché il ricorrente è legittimato a procedere secondo le forme ordinarie per l'accertamento del diritto ( Cass. n. 10753 del 2022).
Il decreto di omologa, emesso per errore quando il giudizio di merito era già pendente, non è ricorribile in Cassazione, in quanto destinato ad essere comunque sostituito dalla sentenza conclusiva di tale giudizio (Cass. n. 25399 del 2019) e la non impugnabilità del decreto di omologa, esclude altresì la sua modificabilità o revocabilità, ai sensi dell'art. 177 (Cass. n. 4731 del 2022).
Dal punto di vista, poi, dell’inserimento del procedimento nel contesto delle altre regole processuali presenti nell’ordinamento di settore, in un caso in cui si era ritenuta inammissibile la formulazione del dissenso, ed esclusa la sussistenza del requisito sanitario, perché l'aggravamento era intervenuto successivamente al deposito della consulenza tecnica in sede di ATP, Cass. n. 30860 del 2019 ha affermato che la previsione di cui all'art. 149 disp. att. c.p.c., dettata in materia di invalidità pensionabile, che impone la valutazione in sede giudiziaria di tutte le infermità, pur sopravvenute nel corso del giudizio, si applica anche ai giudizi introdotti ai sensi dell'art. 445 bis c.p.c., la cui "ratio" di deflazione del contenzioso e di velocizzazione del processo, nei termini di ragionevolezza di cui alla Convenzione EDU, ben si armonizza con la funzione dell'art. 149 citato, sicché la sua mancata applicazione vanificherebbe la finalità della novella, creando disarmonie nella protezione dei diritti condizionate dai percorsi processuali prescelti.
Questo breve quadro dello stato del contenzioso della sicurezza sociale relativo all’accertamento dell’invalidità, sotto il formante giurisprudenziale di legittimità, non può non toccare il versante del regime delle spese di giudizio.
Anche in questo caso, si tratta di cercare una difficile convivenza tra l’aspirazione alla gratuità, intesa in senso assoluto, del processo previdenziale e le esigenze dello Stato di frenare il ricorso abusivo alla giurisdizione; l’abuso, infatti, non serve a tutelare i diritti sociali ma, inquinando ed inflazionando il sistema giudiziario, rende ancora più impervia la via di chi invece quei diritti, che spesso assicurano la sopravvivenza, invoca con fondatezza.
Così il legislatore del 1973, con l’art. 10 della legge n. 533, derogò alla regola dell’anticipazione delle spese da parte di chi agisce (salva l’ammissione al gratuito patrocinio) prevedendo che le spese del processo previdenziale fossero anticipate dagli uffici giudiziari e poste a carico dell’erario. In materia di spese di c.t.u., l’anticipazione era posta a carico dell’INPS già dall’art. 125, ultimo comma, r.d. n. 1422 del 1924, disposizione ritenuta in vigore anche dopo l’entrata in vigore del codice di procedura civile e della stessa legge n. 533 del 1973, come chiarito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 185 del 1987.
L’aspetto più critico e travagliato è però quello della regolazione definitiva delle spese, che l’art. 11 della legge n. 533 stabili, modificando l’art. 152 disp. att. c.p.c. nel senso che gravassero sul lavoratore soccombente nei giudizi relativi a prestazioni previdenziali, salvo che non si trattasse di lite temeraria.
Agli esordi, questa disposizione fu vista con sospetto perché a taluni apparve eccessivamente di favore, essendo destinata ad esonerare anche i lavoratori non versanti in difficoltà economica. I dubbi furono risolti dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 4 luglio 1979 n. 60; Corte cost. n. 135 del 1987) che anzi la estese anche alle controversie aventi ad oggetto le prestazioni assistenziali (Corte cost. n. 85 del 26 luglio 1979) ed anche in favore dei congiunti superstiti del lavoratore, nonostante l’attribuzione della prestazione avvenisse ex lege e iure proprio (Corte cost. n. 98 del 1987).
La dottrina, diede conto delle perplessità dei giuristi e della stessa Corte costituzionale sulla opportunità che si stabilisse un nesso tra la norma di favore e la concreta situazione socioeconomica dell’istante, e tali perplessità alla fine trovarono sponda nell’intervento del legislatore, che con l’art. 4 del d.l. n. 384 del 1992, abrogò l’art. 152 disp. att. c.p.c. La ragione di tale intervento fu, naturalmente, legata alla necessità di disincentivare un contenzioso proliferante, di aggiornare la normativa alla realtà sociologica (che esprimeva un miglioramento delle condizioni di vita dei richiedenti) e di alleggerire la spesa degli enti .
L’abrogazione, tuttavia, quale mezzo eccessivo non resistette al giudizio di costituzionalità e Corte cost. n. 134 del 1994 dichiarò l’incostituzionalità della disposizione.
Il successivo intervento fu operato dall'art. 42, comma 11, D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, L. 24 novembre 2003, n. 326; si dispose che, salvo quanto disposto dall'art. 96 c.p.c. (responsabilità processuale aggravata per lite temeraria), la parte soccombente nei giudizi di contenzioso previdenziale od assistenziale non può essere condannata al pagamento delle spese, competenze ed onorari laddove risulti titolare, nell'anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini Irpef, risultante dall'ultima dichiarazione, pari od inferiore a due volte l'importo del reddito stabilito ai sensi degli artt. 76, commi da 1 a 3, e 77 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al D.P.R. n. 115/2002 .
Tale testo fu poi modificato (dall’art. 52, comma 6, L. 18 giugno 2009, n. 69, con i limiti di applicabilità previsti dalle disposizioni transitorie di cui all'art. 58 della stessa legge e successivamente, dal numero 2) della lettera b) del comma 1 dell'art. 38, D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 luglio 2011, n. 111); il testo attuale, nella sostanza, prevede che, nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali o assistenziali la parte soccombente, salvo comunque quanto previsto dall'articolo 96, primo comma, del codice di procedura civile, non può essere condannata al pagamento delle spese, competenze ed onorari quando risulti titolare, nell'anno precedente a quello della pronuncia, di un limite di reddito imponibile ai fini IRPEF, meglio definito dalla disposizione. Affinché l’esonero operi è pure necessario che l'interessato formuli apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell'atto introduttivo e si impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito verificatesi nell'anno precedente.
La giurisprudenza formatasi su tale disposizione, ancora una volta, ha filtrato e tradotto le pulsioni interpretative che la materia, ad altissimo rilievo sociale, suscita.
Può dirsi che gli orientamenti emersi hanno dato forma ad un sistema equilibrato nel rispetto delle previsioni formali imposte, che rispondono alla esigenza indicata dalla Corte costituzionale di limitare il beneficio alle parti che versano in situazione di limitata disponibilità economica, senza per questo indulgere in interpretazioni formalistiche del testo di legge.
Pertanto, da una parte, la dichiarazione sostitutiva di certificazione reddituale, ai fini dell’esonero, è inefficace se non è sottoscritta dalla parte, poiché a tale dichiarazione la norma connette un'assunzione di responsabilità non delegabile al difensore, stabilendo che l'interessato si impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito; dall’altra, da ciò consegue l'efficacia della dichiarazione sostitutiva, sottoscritta dalla parte, anche se redatta su foglio separato, purché materialmente congiunta al ricorso, così da formarne parte integrante, e richiamata nelle conclusioni del ricorso medesimo, mentre non è prescritta, come requisito di efficacia, l'autentica del difensore ( Cass. n. 30594 del 2022).
Una corretta applicazione della disposizione, inoltre, (Cass. n. 16676 del 2020) impone di considerare l’operatività dell’esonero previsto dall'art. 152 disp. att. c.p.c. quando il diritto alla prestazione sia l'oggetto diretto della domanda introdotta in giudizio e non solo la conseguenza indiretta ed eventuale di un diverso accertamento.
Inoltre, (Cass. n. 26738 del 2019) l'art. 152 disp. att. c.p.c., che esenta la parte soccombente in possesso di determinati requisiti dal pagamento delle spese processuali nelle controversie relative a prestazioni previdenziali o assistenziali, trova applicazione anche in caso di gravame che concerna il solo capo delle spese di lite di una pronuncia resa nell'ambito di un giudizio volto al riconoscimento di tali prestazioni, poiché il regolamento di dette spese costituisce un aspetto consequenziale ed accessorio rispetto alla definizione del procedimento di accertamento della spettanza del beneficio richiesto
Quanto, poi, al limite esterno dell’ambito applicativo della disposizione, costituito dal principio di responsabilità processuale (Cass. n. 12454 del 2022), va escluso che alla parte soccombente non abbiente sia applicabile la previsione di cui all'art. 96, comma 3, c.p.c., sia in ragione di un argomento di carattere letterale, visto che l'art. 152 disp. att. c.p.c. fa salva l'applicazione alle controversie in esame del solo comma 1 del citato art. 96, sia di una interpretazione logico-sistematica che tenga conto della diversa "ratio" dei due commi, configurando il comma 1 una forma speciale di responsabilità extracontrattuale, derivante da un illecito processuale, mentre il comma 3, nel perseguire le finalità pubblicistiche correlate all'esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, commina una sanzione per la violazione dei doveri di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c

 

 

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