TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Introduzione.
Con la sentenza relativa al procedimento C-477/21, la Corte di Giustizia dell’UE si è pronunciata per la prima volta sul rapporto tra riposo giornaliero e riposo settimanale e, più in particolare, sulla necessaria cumulabilità e non sovrapponibilità del primo rispetto al secondo. Tuttavia, il carattere di originalità perde vigore se si proiettano le conclusioni del giudice dell’UE nell’ambito dell’ordinamento italiano, considerato che i principi enunciati nella sentenza in commento, come vedremo, replicano regole consolidate da diverso tempo in territorio nazionale.
La fattispecie che dà impulso al rinvio ex art. 267 TFUE si inquadra nell’ambito del diritto ungherese e muove dalle rivendicazioni di un lavoratore (con mansioni di macchinista) che lamenta il mancato riconoscimento del riposo giornaliero (chiedendo, su tale presupposto, il versamento di differenze retributive non percepite).
Invero, in ossequio alla normativa di riferimento , il lavoratore godeva di norma sia del diritto al riposo giornaliero di dodici ore consecutive sia del riposo settimanale ininterrotto di almeno quarantotto ore. Quando ciò non era possibile la società concedeva un riposo settimanale di almeno quarantadue ore consecutive, come previsto dal codice del lavoro e dal contratto collettivo applicato . In tali casi però – ed è questo il punctum dolens della vicenda – non veniva riconosciuto il riposo giornaliero (né il tempo di spostamento).
Si innesca dunque un contenzioso giudiziario nell’ambito del quale il datore difende la propria posizione obiettando che il diritto al riposo giornaliero sorge soltanto quando si succedono nel corso di ventiquattro ore periodi di lavoro, e non anche quando siano concessi periodi di riposo settimanale o annuale; in ogni caso, la previsione di un riposo settimanale più lungo varrebbe a sostituire il riposo giornaliero.
Il giudice sospende il giudizio e rimette alla Corte di Giustizia cinque questioni pregiudiziali, sintetizzate nei seguenti quesiti: 1) se il riposo giornaliero previsto dall’art. 3 della direttiva fa parte del riposo settimanale di cui all’art. 5 o se la norma da ultimo richiamata si limiti a stabilire la durata minima del periodo di riposo settimanale; 2) se, qualora una normativa nazionale stabilisca un riposo settimanale di durata superiore a trentacinque ore consecutive, si debba concedere al lavoratore, in aggiunta, il riposo giornaliero pari ad almeno undici ore garantito dall’art. 3 della direttiva 2003/88/CE; 3) se, ai sensi dell’articolo 3 della direttiva, quando a un lavoratore è concesso un periodo di riposo settimanale, esso ha altresì il diritto di beneficiare di un periodo di riposo giornaliero e se questo debba precedere quello settimanale.
2. Il rapporto tra riposo giornaliero e riposo settimanale alla stregua della direttiva 2003/88/CE e le argomentazioni della Corte di Giustizia.
La direttiva 2003/88/CE, come noto, definisce il periodo di riposo “per sottrazione” rispetto alla nozione di orario di lavoro, accogliendo una visione rigidamente dicotomica tra tempi di lavoro e di non lavoro, foriera di non poche criticità interpretative .
Rientra nella nozione di riposo, dunque, tutto ciò che non è riconducibile all’orario di lavoro (art. 2, comma 1, n. 2 della citata direttiva). La funzione del riposo – pur nella sua tripartizione tra riposo giornaliero, settimanale e annuale – è quella di garantire il recupero delle energie psico-fisiche nonché di tutelare la sfera personale e familiare del lavoratore. Come rilevato in dottrina , l’istituto sottende alle medesime esigenze presidiate dalla disciplina limitativa dell’orario di lavoro, manifestando una duplice anima: da un lato, rappresenta il «limite esterno (…) alla possibilità di lecita utilizzazione delle energie lavorative e, quindi, all’orario di lavoro»; dall’altro si atteggia come «un vero e proprio diritto assoluto, ossia un diritto inerente alla sfera della tutela della personalità del lavoratore in quanto essere umano».
La disciplina in materia di riposi è stata adeguatamente recepita dagli Stati membri nella maggior parte dei settori e, benché non manchino precedenti arresti della Corte di Giustizia in merito ad alcuni profili , non si registrano altre pronunce sul rapporto tra riposo giornaliero e settimanale; ciò probabilmente anche a fronte di un dettato normativo che non sembra lasciare spazio a letture eterogenee. A ben vedere, infatti, nessun paese membro, ad eccezione della Ungheria, ha presentato osservazioni nell’ambito del procedimento principale, segno, questo, dell’ampia conformazione della legislazione degli altri stati alla direttiva 2003/88/CE come interpretata sinora dalla Corte .
Il riposo giornaliero e il riposo settimanale sono regolati rispettivamente dagli artt. 3 e 5 della direttiva 2003/88/CE che fissano una rete di protezione minima per il lavoratore e si iscrivono tra le norme di diritto sociale dell’UE . Tali disposizioni inoltre attuano e precisano quanto sancito dall’art. 31, par. 2, della Carta di Nizza sulle «condizioni di lavoro giuste ed eque» , norma che deve fungere da filtro ermeneutico dei menzionati articoli della direttiva .
Entrando nel dettaglio, l’art. 3 vincola gli Stati membri all’adozione delle misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici, nel corso di ciascun periodo di ventiquattro ore, di un riposo minimo di undici ore consecutive.
L’art. 5 impone invece l’obbligo di garantire, per ogni periodo di sette giorni, un riposo minimo ininterrotto di ventiquattro ore. Replicando le previsioni contenute nella precedente direttiva 93/104/CE, si precisa altresì che ad esso si sommano le undici ore di riposo giornaliero. Il dato letterale – come anticipato – non parrebbe, dunque, sollevare dubbi circa la necessità di cumulare le due forme di riposo che, come ribadito a più riprese nella pronuncia in esame, rappresentano diritti distinti e autonomi.
Invero, riposo giornaliero e riposo settimanale sono destinatari di separate discipline, contenute in due diverse disposizioni; inoltre, ciascuno di essi è collegato ad un proprio obiettivo: quello giornaliero consente al lavoratore di riposarsi per un determinato numero di ore durante un periodo di ventiquattro ore; quello settimanale permette il riposo nell’arco di ogni periodo di sette giorni.
Di entrambi questi diritti, sottolinea il Collegio, si deve garantire il pieno ed effettivo godimento, risultato che non sarebbe conseguibile ove si accogliesse la tesi, caldeggiata dal giudice del rinvio, che considera il riposo giornaliero incluso nel riposo settimanale. Una simile lettura frustrerebbe le finalità di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e svuoterebbe di contenuto quanto sancito dalla direttiva 2003/88/CE, in contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale .
La tesi sostenuta dalla Corte è suffragata altresì dalla lettera dell’art. 5 che non si limita a fissare complessivamente un periodo minimo di riposo settimanale, ma ha cura di precisare che ad esso si deve sommare il riposo giornaliero. Se ne inferisce che il riposo giornaliero di cui all’art. 3 non può essere ritenuto parte del riposo settimanale, ma si aggiunge ad esso .
L’autonomia dei due diritti e, dunque, l’effettivo godimento dei due tipi di riposo, precisa la Corte, deve essere garantita a prescindere dalla durata del riposo settimanale stabilita dal diritto interno e, dunque, anche in presenza di una normativa nazionale (quale quella ungherese) che contenga disposizioni più favorevoli assicurando un periodo di riposo settimanale superiore alla durata di trentacinque ore consecutive indicata dalla direttiva.
Infine, sull’esatta collocazione del riposo giornaliero , si specifica che «per potersi effettivamente riposare, il lavoratore deve beneficiare della possibilità di sottrarsi al suo ambiente di lavoro per un certo numero di ore che non solo devono essere consecutive, ma anche venire subito dopo un periodo di lavoro, per consentire all'interessato di rilassarsi e smaltire la fatica connessa all’esercizio delle proprie funzioni (sentenza del 14 ottobre 2010, Union syndicale Solidaires Isère, C-428/09, EU:C:2010:612, punto 51 e giurisprudenza ivi citata)».
Sicché, chiosa il giudice dell’UE, dopo un periodo di lavoro deve essere sempre concesso il riposo giornaliero, indipendentemente dal fatto che questo sarà seguito da un nuovo periodo di lavoro o da un ulteriore periodo di riposo. E quando il riposo giornaliero e settimanale sono contigui, il riposo settimanale può iniziare a decorrere solo dopo che il lavoratore abbia beneficiato del riposo giornaliero .
3. Quali ricadute sull’ordinamento italiano? La giurisprudenza nazionale in anticipo sul giudice dell’Unione Europea.
La regola della necessaria cumulabilità e non sovrapponibilità tra riposo settimanale e giornaliero è stata accolta nel nostro ordinamento da molti anni. Essa è frutto dell’elaborazione di una giurisprudenza risalente e, segnatamente, dell’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 102/1976 .
Nell’ambito di un quadro normativo che non fissava una durata minima del riposo giornaliero, la questione di legittimità costituzionale aveva riguardato la disciplina sul diritto al riposo settimanale, qualificato dall’art. 36, comma 3, Cost. quale diritto irrinunciabile e regolato anche dalla l. n. 370/1934, oltre che dall’art. 2109 c.c., comma 1 .
La supposta incostituzionalità aveva ad oggetto, in particolare, l’art. 3, comma 3, l. n. 370/1934 che, con riferimento ai lavori a squadre, fissava eccezionalmente la decorrenza del riposo settimanale dall’ora di sostituzione di ciascuna squadra. Questo meccanismo, a parere del giudice a quo, avrebbe comportato l’intersecazione e l’unificazione tra riposo giornaliero e settimanale, con conseguente assorbimento e snaturamento del secondo, in palese contrasto con il precetto costituzionale. L’art. 36, comma 3 Cost., secondo il giudice rimettente imponeva infatti «la concessione di un riposo settimanale aggiuntivo a tutti quelli giornalieri e comprendente un intero periodo di 24 ore consecutive oltre tutti i periodi di pausa giornaliera, da non cumulare né inserire nel medesimo riposo settimanale» .
Partendo dalla premessa che nel nostro ordinamento il prestatore di lavoro ha diritto a godere delle tre forme di riposo (giornaliero, settimanale e annuale ), inderogabili e infungibili , il Collegio ha affermato che «anche in conformità con le convenzioni internazionali recepite nel nostro ordinamento (r.d. 20 marzo 1924, n. 580 ; d.P.R. 23 ottobre 1961, n. 1660 ) il riposo settimanale può anche essere usufruito in giorno non festivo e con decorrenza diversa da quella “da una mezzanotte all’altra” (…) ma a condizione che sia, nel contempo, mantenuta integra la durata del riposo giornaliero (al quale quello settimanale si aggiunge e non si sostituisce) sia nel giorno che precede sia in quello che segue le 24 ore di riposo settimanale» .
Pertanto, pur preservando opportunamente la legittimità della disposizione censurata , la Corte costituzionale ha il merito di affermare per la prima volta la regola della non sovrapponibilità e della necessaria cumulabilità delle due forme di riposo considerate . Questa interpretazione permette altresì di «attuare ragionevolmente le conseguenze giuridiche della distinzione tra il secondo ed il terzo comma dell’art. 36 della Costituzione – già sottolineata dalla sentenza n. 150 del 1967 – e ribadire l’assoluta inderogabilità del diritto del lavoratore a godere di un riposo settimanale che sia effettivo e non una artificiosa combinazione di ore di pausa originate da fattori propri del sistema di organizzazione aziendale» .
La sentenza n. 102/1976 ha segnato quindi il passaggio dal concetto di infungibilità intesa come «non sostituibilità» a quello di infungibilità intesa come «non sovrapponibilità» : non solo «una pausa lavorativa determinata non può essere sostituita tout court da una pausa di altro tipo» ma «il riposo settimanale non può sostituirsi in nessuna sua parte al riposo giornaliero, rectius: non può sovrapporsi ad esso nemmeno parzialmente» .
La giurisprudenza successiva si è uniformata all’arresto della Corte costituzionale . In taluni casi i giudici hanno precisato che «Il risultato dell’autonomo godimento di entrambe le forme di riposo può quindi ritenersi conseguito solo allorché il totale complessivo delle ore di pausa della prestazione coincida con la somma di quelle destinate rispettivamente all’uno e all’altro» ; e, pronunciandosi anche sul profilo della collocazione temporale, hanno anticipato le conclusioni della Corte di Giustizia affermando che «in caso di concorrenza di riposo settimanale e di riposo ordinario devono essere conteggiate prima le ore di riposo giornaliero e poi quelle di riposo settimanale» .
3.1 (Segue) La regola della necessaria cumulabilità e infungibilità alla stregua del diritto interno.
I principi enunciati dalla Corte Costituzionale non sono stati scardinati dal mutare del quadro legislativo. Come noto, la disciplina sull’orario di lavoro è attualmente contenuta nel d.lgs. n. 66/2003, emanato in attuazione (tardiva ) della direttiva 93/104/Ce nonché della direttiva 2000/34/CE.
Il decreto, che ha sostituito la precedente (e frammentata) normativa , detta, tra l’altro, le regole in materia di riposi e, per quel che qui rileva, la disciplina sul riposo giornaliero e settimanale uniformandosi pienamente alle prescrizioni della direttiva europea . In particolare, l’art. 7 introduce il periodo di riposo giornaliero minimo, fissato in undici ore, da godere consecutivamente , salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità. Come rilevato in dottrina , la disposizione ha una portata polifunzionale in quanto permette di calcolare anche la durata massima della giornata lavorativa, colmando il vuoto lasciato dal legislatore del 2003.
Il diritto al riposo settimanale è regolato invece dall’art. 9, d.lgs. n. 66/2003 che va ad aggiungersi alle previsioni contenute nella Carta Costituzionale e nel codice civile . Più precisamente, ogni sette giorni spetta un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da calcolare come media di un periodo non superiore a quattordici giorni. Inoltre, riproponendo pedissequamente quanto previsto dalla direttiva europea, si prevede espressamente che debba essere cumulato con le ore di riposo giornaliero .
Il carattere precettivo delle previsioni di cui al comma 1 è in parte stemperato da quanto stabilito al successivo comma 2 che contiene un elenco di ipotesi derogatorie. Tuttavia, anche in caso di deviazione dalla regola del cumulo, la somma tra riposo settimanale e giornaliero deve sempre garantire al lavoratore, complessivamente, un periodo di riposo pari almeno a trentacinque ore. In altri termini, riposo settimanale e giornaliero possono eccezionalmente non essere consecutivi ma in nessun caso possono sovrapporsi, pena la violazione del principio di elaborazione giurisprudenziale, dotato di piena attualità e pacificamente consolidato .
Questo limite deve essere osservato anche dalla contrattazione collettiva e negli altri casi in cui è ammesso introdurre deroghe . Ciò vale, quindi, anche in presenza delle attività prestate nell’ambito del comparto ferroviario, settore coinvolto nella fattispecie concreta da cui è scaturito il rinvio pregiudiziale .
4. Osservazioni conclusive.
L’orientamento della Corte di Giustizia conferma un filone interpretativo elaborato già da tempo dalla giurisprudenza italiana. Al giudice europeo, tuttavia, può attribuirsi il merito di aver esplicitamente ribadito che la regola dell’infungibilità (da intendersi nel più ampio senso di non sovrapponibilità, neppure parziale) vige anche laddove la normativa interna quantifichi il periodo di riposo settimanale in modo tale da superare la soglia minima che la direttiva indica quale somma dei due tipi di riposo .
La sentenza in commento inoltre interviene su un tema, quello della salvaguardia del tempo di non lavoro che, anche a seguito delle vicende pandemiche, ha acquisito nuova linfa vitale: è crescente il bisogno (e la richiesta) di tempo libero dal lavoro a scapito del tempo assorbito dallo svolgimento dell’attività lavorativa .
Questa tendenza, peraltro, è strettamente connessa all’impatto delle nuove tecnologie nell’organizzazione del lavoro e alla diffusione di particolari modalità di svolgimento della prestazione che, se da un lato si prestano a migliorare la conciliazione tra sfera professionale e vita privata, dall’altro espongono i lavoratori al rischio della c.d. timeporosity, inteso in termini di sconfinamento dell’orario di lavoro nel tempo che dovrebbe essere dedicato a soddisfare le esigenze personali e familiari .
Infine, giova ricordare che la tutela dei tempi di riposo rappresenta un’esigenza presidiata anche dalle recenti riforme legislative: il d.lgs. n. 104/2022 (art. 8, comma 2, lett. a), attuativo della direttiva (UE) 2019/1152, stabilisce che il cumulo di impieghi, generalmente consentito, trova un limite, tra l’altro, nella sussistenza di «un pregiudizio per la salute e la sicurezza, ivi compreso il rispetto della normativa in materia di durata dei riposi». Al riguardo è stato chiarito che le condizioni ostative al cumulo di impieghi devono essere concretamente sussistenti e dimostrabili e non possono essere rimesse a mere valutazioni soggettive del datore di lavoro , benché residui ancora qualche dubbio sulle concrete modalità di applicazione della disposizione .
Infine, sul cumulo di impieghi e fruizione del riposo minimo giornaliero si è espressa la Corte di Giustizia con sentenza del 17 marzo 2021 . Pronunciandosi sulla portata della direttiva 2003/88/CE in caso di concomitanza di contratti stipulati con uno stesso datore di lavoro, il giudice ha chiarito che il riposo minimo giornaliero previsto dall’art. 3 si applica a tali contratti considerati nel loro insieme e non a ciascuno separatamente. Aderendo all’orientamento contrario infatti le ore che si considerano costituire periodi di riposo nell’ambito di un contratto potrebbero rappresentare orario di lavoro nell’ambito di un altro contratto.