testo integrale con note e bibliografia
1.- Saluti e introduzione.
Ringrazio molto gli organizzatori di questo interessante incontro – a partire dalla cara Collega Valeria Piccone – per avermi voluto coinvolgere attivamente.
Tra le varie figure di danno nel rapporto di lavoro – oggetto di approfondito esame nell’interessante studio del Prof. Marco Blasi – penso di soffermarmi sinteticamente sul danno alla salute nel rapporto di lavoro nelle più recenti applicazioni dell’art. 2087 cod. civ. e sul danno c.d. comunitario, che pur essendo fattispecie molto diverse tra loro si collegano entrambe a comportamenti dei datori di lavoro − pubblici e privati − che, nella rispettiva applicazione, si discostano dai principi affermati in ambito UE, nel sistema del Consiglio d’Europa e in Convenzioni internazionali, ratificate e rese esecutive dall’Italia.
Inoltre, spesso entrambe queste due figure di danno hanno la loro fonte fattuale nella massiccia diffusione di rapporti di lavoro flessibili sia in ambito privatistico sia nel lavoro alle dipendenze delle P.A.
2.- Art. 2087 cod. civ.: nuovi orizzonti.
Secondo il pensiero del grande Valerio Onida, quando viene in gioco la violazione di diritti fondamentali il ruolo della giurisprudenza è essenziale, a condizione che i giudici siano aperti al sopranazionale e all’internazionale e, cioè, ad instaurare un dialogo tra loro, non solo all’interno dei singoli ordinamenti di appartenenza, ma anche con le Corti sopranazionali, come la Corte EDU e la Corte di giustizia UE.
La Corte di cassazione da sempre ha dimostrato di uniformarsi al suddetto modello rimodulando, via via, nel corso del tempo le tutele del lavoro e della salute dei lavoratori onde garantire la sicurezza e la dignità del lavoro affinché nessuno sia lasciato indietro, in coerenza con gli ideali e gli obiettivi della nostra Costituzione e delle Carte europee.
Ciò è stato fatto muovendo dalla premessa secondo cui nel nostro ordinamento la norma di base del sistema di prevenzione in ambito lavorativo è l’art. 2087 cod. civ., la cui duttilità ha consentito, nel tempo, di garantire una protezione contenutisticamente avanzata già prima dell’emanazione del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, poi abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, via via integrato e modificato e anche di ovviare alla mancanza di una regolazione specifica in materia di rischi psico-sociali.
Grazie al carattere di “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico pacificamente riconosciuta all’art. 2087 cod. civ. ‒ nonché in base alla pacifica ammissibilità della interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi fondamentali di cui agli artt. 2 e 3 Cost., sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.), ai quali deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro ‒ nella giurisprudenza di legittimità la tutela delle condizioni di lavoro è concepita come uno degli obblighi essenziali del datore di lavoro discendente dall’art. 41 Cost. (secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana) che, come tale, include anche l’obbligo della adozione di ogni misura “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (nel senso che il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte quelle cautele che, benché non dettate dalla legge, siano consigliate dalle conoscenze sperimentali e tecniche o dagli standard di sicurezza normalmente osservati e a fornire in giudizio la relativa prova; indirizzo consolidato, vedi, di recente: Cass. 10 novembre 2022, n. 33239).
Sulla base della suindicata impostazione, nel corso del tempo, la tutela della salute si è intrecciata con quella delle discriminazioni e delle molestie sul lavoro, nei confronti delle persone aventi problemi di salute (fisica o psichica) o affette da vere e proprie disabilità nonché delle persone vulnerabili in genere (a partire dalle donne).
Nella stessa ottica fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate − cui si applica l’obbligo del datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost. − sono stati inclusi anche il “mobbing” e “straining” e situazioni analoghe (es: burn-out etc.), sul presupposto che quelle indicate sono nozioni di tipo medico-legale, che non hanno autonoma rilevanza ai fini giuridici e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, 3291; Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977; Cass. 2 marzo 2021, n. 5639).
Tale impostazione trova riscontro negli studi statistici dai quali risulta che, con sempre maggiore frequenza, le imprese si trovano ad affrontare casi di molestie psicologiche, mobbing, bullismo, molestie sessuali e altre forme di violenza, mentre i lavoratori, nel tentativo di far fronte allo stress, sono portati, a volte, ad adottare comportamenti non salubri, quali abuso di alcol e0 di stupefacenti.
Quanto agli infortuni sul lavoro − premesso che la “ratio” di ogni normativa antinfortunistica è quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori destinatari della tutela – è stato, fra l’altro, stabilito che il cd. rischio elettivo che comporta la responsabilità esclusiva del lavoratore sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere. In assenza di tale contegno, l’eventuale coefficiente colposo del lavoratore nel determinare l’evento è irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell’entità del risarcimento dovuto (Cass. 13 gennaio 2017, n. 798).
Inoltre, per il regime dell’onere probatorio, è stato precisato che, in caso di infortunio sul lavoro, la responsabilità ex art. 2087 cod. civ. è di carattere contrattuale, sicché grava sul datore di lavoro l’onere di fornire la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento dannoso e che questo sia stato determinato da fattori imprevisti ed imprevedibili. A tal fine la sentenza penale anche ex art. 444 cod. proc. pen. presupponendo una ammissione di colpevolezza, costituisce un importante elemento di prova da cui il giudice di merito può desumere la responsabilità del datore di lavoro (Cass. 12 ottobre 2022, n. 29769).
In sintesi, può dirsi che si tratta di una vastissima giurisprudenza sempre ispirata all’idea che sul datore di lavoro – privato e pubblico − incombe innanzi tutto un obbligo di prevenzione come stabilito dalla normativa UE cui il nostro Stato ha dato attuazione.
Del resto non va dimenticato che la Commissione UE in più occasioni ha dichiarato che l’obiettivo della strategia comunitaria per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro deve essere “il continuo miglioramento del benessere, sia esso fisico, morale e sociale, sul luogo di lavoro”, che va perseguito, fra l’altro, mediante azioni di prevenzione dei rischi legati all’ambiente globale di lavoro, quali i rischi psicologici e sociali ed in particolare lo stress, le molestie sul luogo di lavoro, la depressione e l’ansia.
E l’Unione europea (all’epoca CEE) a partire dalla Convenzione OIL n. 155 del 1981, sulla salute e la sicurezza dei lavoratori, a partire dalla Convenzione OIL n. 155 del 1981, sulla salute e la sicurezza dei lavoratori, a elaborato tutta la propria consistente normativa in materia, a partire dall’Atto Unico Europeo del 1987 e dalla direttiva quadro europea 89/391/CEE del 12 giugno 1989, poi seguita da varie direttive settoriali, mentre, parallelamente, il monitoraggio e l’aggiornamento della disciplina sono divenuti parte importante dell’attività di dialogo tra le “parti sociali” nel campo della politica sociale che fa capo alla Commissione europea.
In tutti questi atti, nel prevedere misure minime di obbligatoria adozione da parte degli Stati membri, è stata perseguita, in modo incisivo, la “logica della prevenzione”, con l’obiettivo di diffondere una cultura della sicurezza e, grazie soprattutto alla suindicata Convenzione OIL, si è cominciato lo studio dell’ampia problematica del c.d. “benessere nel luogo di lavoro”.
Per quanto si è detto, in questo ambito la Corte di cassazione ha svolto anche il suo ruolo di giudice europeo, come è dimostrato dal fatto che:
a) la definizione di salute alla quale ha fatto riferimento non è quella di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, ma quella di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia − a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità − e che è stata espressamente riprodotta nell’art. 2, comma 1, lettera o) del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81;
b) si è conformata tempestivamente alla innovazione di maggiore impatto – sia per la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, sia per quella delle Corti europee centrali – per la tutela della disabilità che è la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18) la quale rappresenta di fatto una pietra miliare nel percorso di accettazione, partecipazione e inserimento alla vita sociale e lavorativa dei disabili perché, senza introdurre nuovi diritti, è finalizzata a promuovere, proteggere e assicurare alle persone con disabilità il pieno ed eguale godimento del diritto alla vita, alla salute, all’istruzione, al lavoro, ad una vita indipendente, alla mobilità, alla libertà di espressione e in generale alla partecipazione alla vita politica e sociale;
c) ha anche tenuto conto del profondo cambiamento, al livello di normativa primaria UE, determinato dall’adozione della Carta dei diritti fondamentali della UE (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), i cui artt. da 20 a 23 e 26 riconoscono rispettivamente in linea generale l’uguaglianza davanti alla legge, il rispetto da parte della UE della diversità culturale, religiosa e linguistica, il principio non discriminazione, il principio di parità tra uomini e donne e la necessità di adottare azioni positive soprattutto in particolare in favore dei disabili.
In altri termini, la Corte di cassazione, collegando l’art. 2087 cod. civ. agli artt. 2, 3, 32 e 41 Cost. ha fatto riferimento – a volte esplicito e a volte implicito − al disegno dei nostri Costituenti secondo cui il fondamentale principio della pari dignità di tutte le persone umane poggia sulle due imponenti colonne, rappresentate dal diritto al lavoro dignitoso e alla tutela della salute. Tanto che a questi due diritti nella Carta è stata data una configurazione similare, essendo stati entrambi delineati in una duplice dimensione sia individuale – cioè come diritti fondamentali delle singole persone ‒ sia anche sociale.
Dal suddetto modello di lavoro ci siamo, nei fatti, allontanati da tempo e ciò è avvenuto a partire dagli anni novanta per effetto di una serie di fattori, il primo dei quali, può essere individuato nel famoso rapporto (Job Study) dell’OCSE sull’occupazione del 1994 − le cui conclusioni sono state ribadite dalla stessa organizzazione nel 1996 anche se poi modificate – ove si sosteneva che per tutta l’Unione europea la politica della “flessibilizzazione” estrema era lo strumento giusto per affrontare la crisi occupazionale e imprenditoriale del momento che acquisivano peculiare rilevanza al cospetto delle migliori prestazioni di economie extraeuropee come quelle di USA e Giappone.
Secondo le direttive dell’OCSE, in sintesi, l’auspicato miglioramento nelle dinamiche occupazionali sarebbe potuto derivare solo da un “mercato del lavoro più libero, affetto in minor misura da distorsioni (pressioni sindacali, normative a protezione del lavoro, costi di turnover, rigidità salariali e di orario, benefici di disoccupazione e salario minimo)”.
È questo il clima in cui in Italia − il cui mercato del lavoro all’epoca risultava tra i più rigidi in Europa, ma al contempo era caratterizzato da problemi di scarsa occupazione, specialmente per i giovani e nel Mezzogiorno − la promozione della flessibilità viene considerata come uno strumento per incrementare i livelli occupazionali e non più soltanto come un mezzo per fronteggiare le sfide del cambiamento tecnologico e produttivo delle aziende, nell’idea che l’apertura verso forme più flessibili potesse servire a porre un freno alla dilagante disoccupazione, concentrata soprattutto al Sud e, in generale, tra i giovani e le donne, nonché a fare emergere l’ampio settore della economia sommersa e del lavoro in nero.
Nel corso del tempo, gli auspicati effetti benefici non si sono registrati – come dimostra l’attuale situazione nella quale nel mercato del lavoro nazionale si riscontrano ancora tutte le suddette problematiche − mentre è divenuta sempre più evidente la criticità della condizione di “stabilità precaria” dei lavoratori non standard , diffusasi anche nel pubblico impiego dopo la privatizzazione del lavoro pubblico contrattualizzato disposta con il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29.
Così in quella che il compianto Zygmunt Bauman ha definito “società liquida”, il lavoro è diventato “liquido” e cioè è diventato “occupazione” ‒ termine che si collega ad un’attività che consente di procurarsi un reddito e di vivere o anche solo sopravvivere nel presente e che, a differenza del “lavoro”, non è proiettata verso il futuro ‒ e, nel corso del tempo, dall’occupazione siamo arrivati addirittura a situazioni di lavoro schiavistiche, spesso veicolate dal caporalato ‒ favorito anche dal cattivo funzionamento del collocamento pubblico, come riformato ‒ che, purtroppo, sono tuttora presenti in tutto il territorio nazionale e anzi si sono espanse, dai settori “tradizionali”, dell’agricoltura e dell’edilizia, a molti altri settori come quelli del commercio e dei servizi alla persona.
In questa situazione non deve stupire se l’apparizione la c.d. “economia delle piattaforme digitali” − nel cui ambito sono comprese realtà variegate e a volte molto diverse tra loro come: l’economia collaborativa, l’economy on demand tramite app, la rental economy, la digital economy, la crowd-economy, la gig-economy (economia dei lavoretti), la sharing economy (economia della condivisione) – avvenuta sulla scia della quarta rivoluzione industriale, sia stata accompagnata da grande incertezza sui diritti e sugli obblighi di coloro che vi partecipano, con una conseguente riduzione delle tutele dei lavoratori, analoga a quella già presente nell’economia tradizionale se non più incisiva, date le potenzialità degli algoritmi.
Di conseguenza, la “gestione algoritmica del lavoro” piuttosto che evocare il futuro, in realtà si è manifestata come un utile strumento per la perpetrazione di condotte di sfruttamento che affondano le proprie radici nel passato e che sono diventate attuali.
Infatti, i complessi problemi giuridici che ha posto −e tuttora pone, anche se le principali questioni sono state risolte dalla sentenza della Corte di cassazione 24 gennaio 2020, n. 1663 − il lavoro nell’economia delle piattaforme digitali e, in particolare, nella gig-economy riguardano la tutela della pari dignità di tutti gli esseri umani, siano essi comuni cittadini deprivati dalla dimensione delle relazioni sociali – sostituite dalla “connessione” – siano essi lavoratori i cui diritti fondamentali possono risultare calpestati.
Del resto, pur se gli strumenti sono diversi, anche nell’economia tradizionale si pongono analoghe questioni, come si è detto, perché esistono uomini che possono essere peggiori degli algoritmi come datori di lavoro e comunque gli algoritmi sono programmati da uomini.
Va aggiunto che la scorrettezza dei datori di lavoro nell’adottare le misure di protezione dei lavoratori, normativamente previste, spesso si collega ai fenomeni di lavoro in nero e irregolare in espansione nel nostro Paese.
Ed è proprio in questo ambito che possono rinvenirsi forme di caporalato – anche digitale – che può diventare “vero e proprio schiavismo del terzo millennio” gestito a volte dalle mafie, a volte dalle piattaforme digitali.
Sono queste le situazioni nelle quali, in alcuni casi, i lavoratori muoiono sul lavoro. Come, ad esempio, può accadere nell’ambito del lavoro agricolo dove molti braccianti extracomunitari sono del tutto “trasparenti” perché migranti irregolari e privi di familiari in Italia che possano denunciarne la scomparsa sicché la loro morte neppure viene denunciata come accade, invece, per i lavoratori italiani che peraltro possono fare la stessa fine.
Ma non va dimenticato che il lavoro in nero e irregolare – che affligge da tempo il nostro Paese e che da recenti rilevazioni riguarderebbe una percentuale molto alta di lavoratori pari circa 12% del totale dei lavoratori in Italia – si collega anche all’evasione fiscale e contributiva, fenomeno che tradizionalmente è molto presente nel nostro Paese e che ha una negativa ricaduta oltre che sulla vita dei lavoratori anche su tutto il sistema economico, determinandone un generale grado di arretratezza. Perché come più volte rilevato da Enrico Giovannini, se le imprese riescono ad andare avanti semplicemente attraverso l’evasione è evidente che non si risolve il problema di crescita della produttività di cui l’Italia soffre da molti anni, in quanto le imprese che evadono hanno molti meno incentivi a trovare una struttura più efficiente, ad investire e innovare, come rilevano molti studiosi del settore.
Oggi è possibile sperare in un incisivo miglioramento in materia di evasione perché tra gli obiettivi prefissati dal PNRR vi è quello della prosecuzione di una stabile e coerente politica di contrasto all’evasione fiscale e contributiva, attraverso il rafforzamento delle azioni finalizzate a ridurre l’evasione fiscale e a incentivare l’adempimento degli obblighi fiscali.
Comunque a causa di queste complessive situazioni – sinteticamente delineate − nel mondo del lavoro di oggi in molti casi si riscontra una violazione in concreto della pari dignità delle persone che spesso incide anche sulla tutela della salute del lavoratore e che non è conforme alla logica della prevenzione, cui da sempre fa riferimento la UE − fin dall’emanazione della direttiva-quadro in materia di salute e sicurezza sul lavoro 89/391/CEE − aggiungendo che un’organizzazione e un ambiente di lavoro sani e sicuri sono fattori che migliorano anche le performances del sistema economico e delle imprese, e di riflesso l’efficienza, l’immagine e quindi la competitività in un’ottica di responsabilità sociale.
In questa ottica da appositi studi – a partire dalla “Ricerca sullo Stress correlato al Lavoro” del 15 giugno 2000 di EU-OSHA (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro-European Agency for Safety and Health at Work) − è stato accertato che la flessibilità del lavoro di per sé è una delle cause dell’aumento della domanda di tutela della salute perché tale situazione determina nel lavoratore una perenne incertezza economica ed esistenziale la quale di per sé può essere causa di una serie di malattie. Si parla al riguardo di un vero e proprio “mal da precariato”, che si manifesta in insicurezza psicologica e stress eccessivo, tanto da causare malessere spesso somatizzato, gastriti, disturbi cardiocircolatori, problemi nervosi, emicrania, dolori muscolari, stanchezza cronica, inappetenza e debolezza, attacchi di panico .
Si aggiunge che al lavoro precario e temporaneo si collega pure una maggiore incidenza di infortuni sul lavoro, in quanto spesso ne è vittima chi viene chiamato a svolgere le mansioni più rischiose senza adeguata formazione o tutoraggio, in condizioni fisiche di lavoro peggiori delle normali e con carichi di impiego pesanti che, quindi, causano incidenti più frequenti.
Nelle suddette evenienze spesso si riscontra anche il mancato rispetto della normativa antinfortunistica da parte datoriale.
Per l’insieme delle suddette ragioni − pur in presenza di molteplici regole nazionali, UE e internazionali e di diverse Convenzioni OIL a partire dalla Convenzione OIL n. 155 del 1981 − si registrano, purtroppo, frequenti infortuni sul lavoro con esito letale, non solo nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia, ma in tutti i settori lavorativi (come è emblematicamente confermato dal recente terribile incidente ferroviario di Brandizzo).
E dalle recenti rilevazioni nazionali si desume una preoccupante tendenza all’aumento delle morti sul lavoro nel nostro Paese, con una tragica media di 12 decessi alla settimana.
Sono anche in aumento le tecnopatie da costrittività organizzativa, oltre alle molestie e alle violenze, tanto che l’OIL di recente ha emanato l’importante Convenzione n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, ratificata e resa esecutiva con la legge 15 gennaio 2021, n. 4 che è il primo trattato internazionale specificamente diretto a combattere la violenza e le molestie nel mondo del lavoro e che, infatti, contiene una normativa dettagliata che potrà essere molto utile per definire le diverse plurime fattispecie, come ritenuto anche dall’INAIL.
La giurisprudenza della Corte di cassazione ha esaminato molte delle suindicate situazioni, facendo, ad esempio, rientrare nell’obbligo datoriale di protezione della salute del lavoratore nell’ambiente di lavoro di cui all’art. 2087 cod. civ. anche la tutela contro le tecnopatie da costrittività organizzativa, con la precisazione che essa si può configurare sia in presenza di comportamenti stressogeni scientemente attuati dal datore di lavoro nei confronti di un dipendente, sia in caso di una condotta datoriale che colposamente consenta il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute (Cass. 11 novembre 2022, n, 33428).
In sintesi, la normativa nazionale, UE e internazionale in materia di tutela della salute nei luoghi di lavoro è molto abbondante e lo è anche la giurisprudenza a partire da quella della Corte di cassazione.
Purtroppo, però non può negarsi che continui a registrarsi un aumento delle violazioni e degli infortuni anche con esito letale.
Questo viene amaramente rilevato anche nel libro del Prof. Marco Biasi.
Eppure, come si è osservato, l’OIL, da molti anni, ha sottolineato che per accedere alla logica della prevenzione e del benessere lavorativo è necessario – in particolare per il nostro Paese − un mutamento di mentalità e di approccio al lavoro, per i datori di lavoro e anche per i lavoratori, pure nell’ambito del lavoro pubblico dove si deve puntare ad un profondo cambiamento nei comportamenti delle Amministrazioni e dei suoi dirigenti, ma anche dei dipendenti.
A ciò va aggiunto che, nel corso del tempo, la nozione di “benessere organizzativo” sia divenuta comprensiva della tutela sia della salute e della sicurezza dei lavoratori sia della “salus” di tutto il contesto lavorativo e quindi della legalità di tale contesto e, per il tramite del lavoro pubblico, della legalità dello Stato.
Tuttora, però, non si registra nel mondo del lavoro nazionale un prevalente orientamento al “benessere nel luogo di lavoro”, inteso nel suddetto modo, che risulta conforme alle conclusioni di accreditati studi e ricerche sulle organizzazioni degli ambienti di lavoro secondo cui le strutture più efficienti sono quelle con dipendenti soddisfatti e un “clima interno” sereno e partecipativo, arrivando ad includervi pure trasparenza ed anticorruzione nel pubblico impiego, come si è detto .
In particolare, per il lavoro privato, questo risulta confermato dall’esperienza di alcuni imprenditori avveduti, i cui fatturati sono in crescita anche grazie alla creazione di ambienti di lavoro inclusivi pure per le donne e i disabili
E, per il lavoro pubblico, da alcune realtà virtuose nelle quali all’efficienza si accompagna la tutela dell’immagine della Pubblica Amministrazione di appartenenza.
Poiché le suddette prevalenti resistenze alla logica del “benessere nel luogo di lavoro” derivano da importanti criticità del sistema nel suo complesso, è evidente che la relativa soluzione non compete ai giudici.
3.- Il c.d. danno comunitario.
Ancora più evidente è il ruolo di giudice europeo svolto dalla Corte di cassazione nella vicenda del c.d. danno comunitario, che ha avuto inizio proprio grazie ad una proficua interlocuzione tra CGUE e Corte di cassazione, sulle conseguenze dell’abusiva reiterazione dei contratti flessibili e, in particolare, a termine nel lavoro pubblico contrattualizzato.
È noto che in base all’art. 97 Cost. “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”, si tratta di una norma di carattere inderogabile che trova risconto nell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, ove si precisa che nel pubblico impiego privatizzato, alla violazione di disposizioni imperative che riguardino l’assunzione mediante pubblico concorso (ovvero attingendo alle liste di collocamento) non può mai far seguito la costituzione di un rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato.
Come più volte affermato dalla Corte costituzionale (vedi, per tutte: Corte cost., sentenza n. 293 del 2009), la suddetta disposizione comporta che la «forma generale e ordinaria di reclutamento per le pubbliche amministrazioni» (Corte cost., sentenza n. 363 del 2006) è rappresentata da una selezione trasparente, comparativa, basata esclusivamente sul merito e aperta a tutti i cittadini in possesso di requisiti previamente e obiettivamente definiti. Il rispetto di tale criterio è condizione necessaria per assicurare che l’amministrazione pubblica risponda ai principi della democrazia, dell’efficienza e dell’imparzialità, in quanto il concorso pubblico è, innanzitutto, condizione per la piena realizzazione del diritto di partecipazione all’esercizio delle funzioni pubbliche da parte di tutti i cittadini, fra i quali oggi sono da includere, per la maggior parte degli impieghi, anche quelli di altri Stati membri dell’Unione europea (sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, del 2 luglio 1996, in cause 473/93, 173/94 e 290/94). Il pubblico concorso, inoltre, è «meccanismo strumentale al canone di efficienza dell’amministrazione» (Corte cost., sentenza n. 205 del 2004), cioè al principio di buon andamento, sancito dall’art. 97, primo comma, Cost. e garantisce il rispetto del principio di imparzialità, enunciato dall’art. 97 e sviluppato dall’art. 98 Cost. e sotto tale profilo il concorso rappresenta «il metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità e al servizio esclusivo della Nazione» (sentenza n. 453 del 1990).
Inoltre, come precisato dalla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, la regola del pubblico concorso risponde anche, più in generale, nel rispetto del principio cardine del buon andamento della P.A., che comporta che l’immissione in ruolo debba avvenire nei limiti delle disponibilità finanziarie e nel rispetto delle disposizioni in tema di dotazioni organiche e di programmazione del fabbisogno di personale, indispensabili per garantire l’efficienza dell’amministrazione pubblica e il rispetto delle esigenze di contenimento, controllo e razionalizzazione della spesa pubblica (di recente: Cass. 30 dicembre 2021, n. 42004).
Però lo stesso art. 36 cit. prevede che il lavoratore pubblico che abbia subito il suindicato abuso – pur non potendo ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come accade invece per il lavoro privato ex art. 5 d.lgs. n. 368 del 2001 (vedi, di recente; Cass. 16 settembre 2022, n. 27331) − “ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”.
Al riguardo, per effetto di un orientamento della Corte di cassazione che si era consolidato, l’interessato non poteva ottenere dall’Amministrazione pubblica il risarcimento del danno sofferto per effetto di una successione abusiva di contratti a termine, se non avesse dedotto e dimostrato la concreta sussistenza di un danno.
Su questa specifica questione è intervenuta la nota ordinanza della CGUE 12 dicembre 2013, Papalia, C50/13, nella quale la Corte di Giustizia:
a) nel richiamare il proprio consolidato orientamento in tema di abusivo ricorso ad una successione di contratti a termine nel pubblico impiego , ha ricordato dapprima che dall’Accordo quadro allegato alla Direttiva n. 1999/70/CE, sul lavoro a tempo determinato non deriva un obbligo per gli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato;
b) pertanto, ha precisato che una normativa nazionale, come quella italiana, che vieti in modo assoluto la conversione dei contratti di lavoro a termine, stipulati da datori di lavoro pubblici, in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, può essere considerata conforme all’Accordo quadro;
c) ha aggiunto che una simile normativa deve però stabilire un’altra misura effettiva, idonea ad evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato ;
d) ha rammentato che il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche per il caso in cui siano accertati abusi nel ricorso ai contratti a termine e spetta quindi alle autorità nazionali “adottare misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro” ;
e) ha richiamato sul punto il principio di effettività, affermando che le modalità di adozione ed attuazione di misure finalizzate a scongiurare il ricorso abusivo ai contratti a termine ed a sanzionare l’eventuale violazione del relativo divieto, devono essere, negli ordinamenti degli Stati membri, concrete, ossia non devono rendere “praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”.
Fatte queste premesse, la Corte di Giustizia ha osservato che, nel nostro ordinamento, secondo l’interpretazione all’epoca dominante elaborata dalla Corte di Cassazione, un lavoratore assunto, nel settore pubblico, con una successione abusiva di contratti a termine, di fatto non era posto in condizione di ottenere neppure il risarcimento del danno derivante dall’illegittimo comportamento del datore di lavoro pubblico, perché era costretto a fornire la prova della perdita di altre opportunità di lavoro e del conseguente lucro cessante.
Al riguardo, la CGUE, dopo aver precisato che ai fini dell’accertamento dell’osservanza del principio di effettività è necessaria un’analisi del sistema delle norme nazionali , e che spetta al giudice nazionale stabilire se, ed in quale misura, le norme interne finalizzate a punire il ricorso abusivo ai contratti a termine, da parte della Pubblica Amministrazione, rispettino il principio di effettività ed equivalenza , ha tuttavia ritenuto di dover fornire precisazioni “dirette a guidare il giudice nazionale nella sua decisione”.
Di conseguenza, in concreto, con l’ordinanza Papalia la Corte ha stabilito che l’Accordo quadro citato osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale, che preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno derivato dall’abusivo ricorso ad una successione di contratti di lavoro a termine, quando il diritto al risarcimento è subordinato all’obbligo, per il lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di lavoro, “se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione”.
La Corte di cassazione è stata così posta nelle condizioni di dover prendere in considerazione la statuizione della CGUE e darne concreta applicazione a livello nazionale e lo ha fatto con una prima sentenza della Sezione Lavoro 30 dicembre 2014, n. 27481 che è stata seguita da altre sentenze (non collimanti per il criterio di quantificazione del danno da applicare, nel silenzio del legislatore) della stessa Sezione.
E, infine, intervenuta la famosa sentenza delle Sezioni Unite 15 marzo 2016, n. 5072 che ha risolto il suddetto contrasto di giurisprudenza con l’affermazione del seguente principio di diritto:
“in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso − siccome incongruo − il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria, qualificabile come ‘danno comunitario’, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito”.
Questo principio tuttora si può considerare una “pietra miliare” per il precariato pubblico, a partire da quello scolastico, con la precisazione che l’immissione in ruolo degli interessati (disposta per legge o all’esito di appositi concorsi) rappresenta una misura ben più satisfattiva di quella per equivalente dianzi indicata, spettante al personale assunto con una serie ripetuta e non consentita di contratti a termine.
Infatti, la immissione in ruolo rappresenta, per il beneficiario, una riparazione del danno subito in linea di principio più ragionevole e soddisfacente di quella risarcitoria perché gli attribuisce il bene della vita, la cui certezza di acquisizione era stata lesa dalla condotta inadempiente realizzata dalla Amministrazione e, al contempo, assicura alla P.A. datrice di lavoro la provvista di dipendenti stabili, indispensabile per garantirne il buon andamento.
Certo, come osserva il Prof. Biasi, resta una differenza di regime tra lavoro pubblico e privato per i casi di abusiva reiterazione dei contratti flessibili.
Però, in realtà si tratta di fattispecie non del tutto assimilabili e il modo di regolare la suindicata diversità di disciplina nel caso di abuso nei contratti flessibili indicato dalle SU nella sentenza n. 5072 del 2016 sembra adeguato.
Il Prof. Biasi auspica un intervento del legislatore al riguardo, ma forse si può osservare che la strada tracciata dalle Sezioni Unite nella sostanza appare conforme al principio di uguaglianza, che, come inteso dalla Corte costituzionale, vieta di trattare in modo irragionevolmente differente situazioni sostanzialmente identiche, mentre non è violato se alla diversità di disciplina corrispondono situazioni non sostanzialmente identiche.
Forse, per evitare liquidazioni “irrisorie” del c.d. danno comunitario e differenze di quantificazione del danno ex art. 32 del Collegato lavoro (legge n. 183 del 2010), di volta in volta, effettuate nei singoli processi si potrebbe auspicare un intervento legislativo “leggero” solo per rivedere il limite massimo delle 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto oggi previsto, da affiancare ad eventuali linee guida per gli uffici di merito, deliberate dagli uffici stessi, con un eventuale coordinamento del CSM, come è avvenuto per altre questioni.
Ma si tratta di interventi che comunque non modificherebbero la costruzione di base indicata dalle SU.
Va aggiunto, inoltre, che per la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione la determinazione, operata dal giudice di merito, tra il minimo ed il massimo della misura dell’indennità di cui all’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (per il caso di illegittima opposizione del termine al contratto di lavoro) − al pari dell’analoga valutazione per la determinazione dell’indennità di cui all’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604 – è censurabile in sede di merito con deduzioni difensive specifiche tale da giustificare una liquidazione superiore o inferiore, mentre può essere impugnata in cassazione solo in caso di motivazione assente, illogica o contraddittoria, nei limiti previsti dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
Ma, spesso non risulta che nel giudizio di merito siano state avanzate le suindicate deduzioni difensive specifiche e che, in cassazione, sia stata proposta una corretta censura ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
Ciò comporta che non emergano vizi della quantificazione effettuata dal giudice del merito, la quale diviene definitiva (vedi. per tutte: Cass. 22 gennaio 2014, n. 1320; Cass. 10 ottobre 2019, n. 25484).
Comunque, poiché anche in questo caso sono in gioco diritti fondamentali, seguendo il pensiero di Valerio Onida, la loro tutela può essere assicurata meglio in sede giudiziaria perché la velocità e l’imprevedibilità dei cambiamenti delle diverse fattispecie rendono difficile la tempestiva emanazione di norme legislative che anzi potrebbero anche avere l’effetto contrario di creare delle barriere per l’esame delle diverse vicende.
4.- Conclusioni.
In conclusione, il danno ex art. 2087 cod. civ. e il c.d. danno comunitario – figure di danno attentamente analizzate nello Studio del Prof. Marco Biasi – nella loro rispettiva diversità sono stati entrambi interpretati in senso garantista dalla giurisprudenza della Corte di cassazione.
Questa impostazione è conforme all’idea di fondo secondo cui il lavoro deve essere diretto al benessere – materiale e spirituale − del singolo e della società e deve consentire a ciascuno di coltivare le proprie aspettative personali – anche affettive – programmando, con sacrifici ma con serenità, il proprio futuro, in una condizione in cui vi sia armonia tra lo sviluppo della personalità individuale, che ha bisogno di certezze e di stabilità, e l’esperienza di vita e lavorativa.
Un lavoro che è veicolo primario di promozione della pari dignità sociale delle persone e che in tale configurazione è un valore fondante per il nostro ordinamento, secondo la solenne proclamazione, di cui al primo comma dell’art. 1 Cost., secondo cui: «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».