testo integrale con note e bibliografia
ordinanza di rinvio corte di giustizia europea
1. La disciplina codicistica e del CCNL.
Ai sensi dell’articolo 2110 del codice civile, in caso d'infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto di lavoro, a norma dell'art. 2118, decorso il periodo (c.d. periodo di comporto) stabilito dalla legge, dalle norme corporative (attualmente dai contratti collettivi), dagli usi o secondo equità.
Il predetto articolo, risalente al 1942, pur essendo rimasto immutato nella formulazione letterale, ha assunto, a seguito della promulgazione della Costituzione, natura e funzione diverse da quelle originarie.
Esso è divenuto, infatti, la disposizione di legge ordinaria che dà attuazione al precetto dell’articolo 32 della Costituzione, che definisce la salute come diritto fondamentale dell’individuo e come interesse della collettività.
La tutela del diritto alla salute è, appunto, garantita nel rapporto di lavoro dal divieto di licenziamento del lavoratore malato che si assenti dal lavoro per poter prendersi cura del proprio stato di salute.
Questa tutela, peraltro, non può essere assoluta e illimitata, dovendo essere contemperata con l’interesse dell’impresa alla continuità della prestazione lavorativa.
Il legislatore, pertanto, dettando la disciplina del periodo di comporto, ha individuato “un punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale” .
Il periodo di comporto, infatti, è il totale delle assenze per malattia in un determinato arco temporale, definito e dalla legge o dai contratti collettivi con indicazione del tetto massimo di dette assenze; al superamento di detto tetto massimo consegue ile venir meno del diritto alla conservazione del posto di lavoro e l’imprenditore è legittimato a comminare il licenziamento.
La disciplina dettata dalla legge e dai contratti collettivi non opera alcuna distinzione tra le diverse patologie che comportano le assenze dal lavoro né tra le diverse cause di detta patologie, salvo limitate eccezioni, come, a esempio, nel caso delle patologie oncologiche.
2. La direttiva 2000/78/CE e la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte di Cassazione.
Questa uniforme disciplina delle assenze dal lavoro per malattia prevista dall’ordinamento interno, senza tenere conto della natura dello stato patologico dei soggetti coinvolti, si pone in contrasto, però, con il diritto dell’Unione Europea in materia di protezione dei lavoratori disabili, in quanto portatori di potenziali fattori di discriminazione, diretta o indiretta.
La direttiva 2000/78/CE, recante il “quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, declina espressamente l’obiettivo di combattere la discriminazione basata sull’handicap e di promuovere il mantenimento o l’adozione di misure volte a prevenire o compensare gli svantaggi incontrati da un gruppo di persone avente determinati handicap.
In particolare, l’articolo 2, lettera b, della sopra citata direttiva specifica che “sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio” le persone portatrici di handicap.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha, quindi, affermato che si pone in contrasto con il divieto di discriminazione diretta ed indiretta basata sull’handicap una normativa nazionale che consente al datore di lavoro di licenziare un lavoratore in ragione di assenze dal lavoro imputabili alla disabilità di cui lo stesso soffre .
Quanto alla nozione di handicap e al rapporto tra disabilità e malattia la Corte di Giustizia ha puntualizzato che per handicap deve intendersi qualsiasi limitazione di capacità derivante da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale, su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori .
In coerenza con i sopra richiamati dettami della Corte di Giustizia, la Corte di Cassazione, considerato l'obbligo del giudice nazionale di offrire una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi di una direttiva comunitaria, ha, a propria volta, affermato che “la nozione di disabilità, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere costruita in conformità al contenuto della Direttiva n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000, sulla parità di trattamento in materia di occupazione, come interpretata dalla CGUE, quindi quale limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori .
I giudici di legittimità hanno altresì rammentato, con riguardo al carattere duraturo di una limitazione, che la Corte di Giustizia ha precisato l’importanza accordata dal legislatore dell’Unione all’ipotesi in cui la partecipazione alla vita professionale è ostacolata per un lungo periodo e che l’espressione «disabili» utilizzata nell’articolo 5 della direttiva deve essere interpretata nel senso che essa comprende tutte le persone affette da un «handicap», secondo la definizione rilevante nell’ambito della direttiva. Ne consegue, perciò, la netta distinzione tra la malattia comune, che ha una durata breve e comunque limitata nel tempo, e la condizione di handicap conseguente a patologie inabilitanti di lunga durata e che incidano sull’integrazione socio-lavorativa del soggetto.
La ineludibile conclusione in materia di computo del periodo dii comporto è stata tratta dal Tribunale di Milano con argomentata sentenza resa il 18 maggio 2022, nella causa n.180/22 R. G..
Il giudicante ha, tra l’altro, rammentato che al punto 39 della sentenza del 18.1.2018, resa nella causa C-270/16, la Corte di Giustizia si è così espressa: “rispetto a un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità. Egli è quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e, quindi, di raggiungere i limiti … Risulta, dunque, che la norma di cui a tale disposizione è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78”.
L’ineccepibile decisum del Tribunale di Milano è stato il seguente: “In sintesi, quindi, il computo indistinto di malattie ordinarie e di malattie occasionate dalla condizione invalidante determinerebbe una discriminazione indiretta, in quanto il criterio – apparentemente neutro – comporterebbe un trattamento deteriore per il soggetto disabile inevitabilmente destinato, proprio in ragione della disabilità, ad accumulare un numero di assenze superiori agli altri lavoratori ……Ed, invero, non potendo trattare la situazione del ricorrente come quella di altro lavoratore non affetto da malattia inabilitante, il periodo di assenza per tale ragione non può essere validamente computato nel comporto.”.
La decisione del Tribunale di Milano è stata sostanzialmente confermata in appello e sul ricorso proposto da datore di lavoro si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza n. 9095, pubblicata il 31 marzo 2023.
I giudici di legittimità hanno, innanzi tutto, evidenziato che la tutela contro la discriminazione basata sulla disabilità si fonda, oltre che sulla direttiva 2000/78 CE, sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, rarificata dall’Italia con legge n. 18/2009.
La Corte di Cassazione ha, poi, confermato che “il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata”.
Sulla base di una dettagliata e completa disamina della giurisprudenza comunitaria, i giudici di legittimità hanno sottolineato che gli stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politiche sociali e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo, senza tuttavia ignorare, nella valutazione della proporzionalità dei mezzi, il rischio cui sono soggette le persone disabili
E’ stato, pertanto, sottolineato che “quel che rileva è l’approdo interpretativo necessitato dalla normativa europea trasposta in quella domestica, secondo il quale il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata”.
Si può affermare, in sintesi, che, al fine di valutare se la normativa di uno Stato membro rispetti, o meno, i principi di cui alla direttiva 2000/78 CE, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea non opera alcun sindacato sulle scelte discrezionali del legislatore nazionale in punto di durata del periodo di comporto previsto per le assenze dal lavoro causate da malattia, scelte che sono molto diverse tra i vari Paesi dell’Unione, ma si limita a verificare se la normativa oggetto del giudizio rechi o meno disposizioni che garantiscano ai disabili una tutela maggiore e differenziata rispetto a quella apprestata per la generalità dei lavoratori. In caso di esito negativo di tale verifica la normativa de qua è giudicata non conforme alla direttiva 2000/78 CE, in quanto indirettamente discriminatoria.
3. L’ordinanza del Tribunale di Ravenna del 4 gennaio 2023
Con ordinanza del 4 gennaio 2013 il Tribunale di Ravenna ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il giudizio sulla legislazione italiana in punto di computabilità nel periodo di comporto delle assenze dal lavoro causate da patologie inabilitanti.
Il giudice rimettente, dopo aver richiamato la giurisprudenza della CGUE, ha esposto le motivazioni che lo hanno indotto ad adottare l’ordinanza, di cui si riportano di seguito i passaggi salienti.
Viene, innanzi tutto, sottolineato che “in caso licenziamento in violazione del diritto alla conservazione del posto di lavoro a causa di sospensione del rapporto per malattia, la normativa italiana prevede la massima sanzione possibile, ossia la nullità del licenziamento (Corte di Cassazione, Sezioni Unite n. 12568/2018), con diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro (rinunciabile dal lavoratore dietro il pagamento in suo favore di una somma pari a 15 mensilità) ed il risarcimento del danno (trattandosi di ipotesi potenzialmente riconducibile a discriminatorietà il risarcimento copre tutte le mensilità di retribuzione non corrisposte che vanno dalla risoluzione sino alla riassunzione).
Il giudice rimettente prosegue con il sottolineare le gravissime conseguenze che deriverebbero dal giudicare la disciplina de qua carente di adeguata tutela per i disabili perché tutta la contrattazione collettiva sarebbe discriminatoria e “i licenziamenti sarebbero tutti nulli, con gravissime conseguenze patrimoniali, anche per le piccole imprese …. ed anche per i datori di lavoro non imprenditori: per una piccola entità imprenditoriale con una condanna al pagamento di 25-30 mesi di retribuzioni a chi non ha lavorato, di regola si rischia la chiusura dell’attività)”.
Vengono espressi dubbi in ordine alla necessità di prevedere una durata specifica del periodo di comporto per i disabili, non ravvisandosi la necessità di differenziare la tutela per tali soggetti, dal momento che “la normativa italiana sulla malattia appare tutelare soprattutto il disabile, posto che garantisce una quantità di assenze per malattia che di regola solo il disabile può maturare, anche in prospettiva pluriennale”.
Ad avviso del giudice rimettente, inoltre, “Altri strumenti potrebbero invece apparire di problematica applicazione e quindi potenzialmente irragionevoli: il primo teoricamente utilizzabile (scomputo dei periodi riferiti ad assenze determinate da disabilità) si scontra frontalmente con il 17mo considerando della direttiva, posto che è idoneo ad impedire l’estinzione di un rapporto di lavoro di chi non è permanentemente in grado di lavorare, risultando a quel punto ammissibili assenze per un periodo di tempo potenzialmente infinito”.
Tra le ragioni che osterebbero alla introduzione di una tutela differenziata viene indicata l’impossibilita per il datore di lavoro di distinguere le assenze dal lavoro causate da malattia comune da quelle causate da patologia inabilitante, dal momento che, in forza della normativa a tutela della
privacy, il disabile non è tenuto a rivelare al datore di lavoro né il proprio stato di disabilità né la diagnosi della malattia alla base delle proprie assenze.
Per le ragioni sopra sinteticamente riassunte, il giudice rimettente ha chiesto alla CGUE di pronunciarsi sulle seguenti questioni:
1) se la direttiva 2000/78 sia di ostacolo ad una normativa nazionale che, prevedendo il diritto alla conservazione del posto di lavoro in caso di malattia per 180 giorni retribuiti, nel periodo dal 1.1 al 31.12 di ciascun anno, oltre ad ulteriori 120 giorni di aspettativa non retribuita (fruibili questi 1 sola volta) su richiesta del lavoratore, non preveda una disciplina differente tra lavoratori qualificabili come disabili e lavoratori che non lo sono;
2) laddove la normativa nazionale descritta in motivazione dovesse essere considerata astrattamente integrante una discriminazione indiretta, se la normativa stessa sia comunque oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e
necessari;
3) se un accomodamento ragionevole idoneo e sufficiente ad evitare la discriminazione possa essere rappresentato da un’aspettativa non retribuita, a richiesta del lavoratore, successiva allo scadere dei 120 giorni di malattia ed idonea ad impedire il licenziamento sino alla sua scadenza;
4) se possa ritenersi ragionevole un accomodamento consistente nel dovere del datore di lavoro di concedere alla scadenza del periodo di 180 giorni di malattia retribuita un ulteriore periodo retribuito integralmente a suo carico, senza ottenere una controprestazione lavorativa;
5) se, al fine di valutare il comportamento discriminatorio del datore di lavoro, possa valutarsi (ai fini dello stabilire la legittimità o meno del licenziamento) la circostanza che anche la concessione di un ulteriore periodo si stabilità del rapporto retribuita a carico del datore di lavoro non avrebbe consentito il rientro al lavoro del disabile, permanendo il suo stato di malattia.
Quanto ai primi due quesiti, si ritiene che la risposta della Corte di Giustizia sia scontata: come già sopra evidenziato, la CGUE non opera alcun sindacato sulle scelte discrezionali del legislatore nazionale in punto di durata del periodo di comporto, ma si limita a verificare se la normativa oggetto del giudizio rechi o meno disposizioni che garantiscano ai disabili una tutela maggiore e differenziata rispetto a quella apprestata per la generalità dei lavoratori. Vero è che la normativa italiana prevede un periodo di comporto di non breve durata, ma tale periodo trova generale applicazione a tutte le assenze dal lavoro e non si può annettere rilevanza alla considerazione meramente fattuale del giudice rimettente, secondo il quale di detta durata si avvalgono più di grequente i lavoratori disabili che gli altri lavoratori. Se venisse obliterato il correttivo interpretativo elaborato dalla Corte di Cassazione, di cui al precedente paragrafo, la predetta normativa sarebbe inevitabilmente ritenuta discriminatoria.
Con il terzo e il quarto quesito si chiede alla CGUE di pronunciarsi su degli accomodamenti ragionevoli ipotizzati nell’ordinanza di rimessione, così presupponendo che la Corte di Giustizia possa invadere il campo delle scelte discrezionali rimesse alla competenza esclusiva del legislatore nazionale.
Lo stesso è a dirsi con riguardo al quinto quesito, con il quale si prospetta una eventualità che, laddove verificatasi in concreto, sarebbe oggetto di accertamento e valutazione da parte del giudice nazionale.
In conclusione si rappresenta che due delle criticità evidenziate con l’ordinanza di rimessione hanno già trovato risposta in recenti sentenze della Corte di Cassazione.
Con la già citata sentenza n. 9095/2023 i giudici di legittimità hanno affermato l’irrilevanza della mancata conoscenza, da parte del datore di lavoro, del motivo delle assenze del lavoratore, non recando i certificati medici inoltratigli l’indicazione della specifica malattia, e hanno confermato che “la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro.”.
L’insussistenza del paventato pericolo che lo scomputo dei periodi riferiti ad assenze causate da disabilità possa determinare situazioni in contrasto con il 17mo considerando della direttiva 2000/78 CE, rendendo ammissibili assenze per un periodo di tempo potenzialmente infinito, è stata resa evidente, da ultimo, con l’ordinanza n. 31471 del 13.11.2023. La Cassazione afferma, con detta ordinanza, che vige un tendenziale principio di divieto di licenziamento del lavoratore divenuto disabile, dal momento che l’articolo 3, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 216/2003 pone in capo ai datori di lavoro l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.
Se, però, gli accomodamenti necessari non sono ragionevoli, perché sproporzionati rispetto alla struttura organizzativa o alla capacità economica del datore di lavoro, il lavoratore giudicato dal medico competente inidoneo alla mansione, ai sensi dell’articolo 41 del D.Lgs. n. 81/2008, potrà essere licenziato per giustificato motivo.
E’, perciò, evidente che nel nostro ordinamento, se correttamente e responsabilmente applicato, non può verificarsi che un datore di lavoro sia costretto a farsi carico all’infinito della conservazione del rapporto con un soggetto che permanentemente non sia in grado di lavorare.
Il lavoratore a questo punto sarà preso in carico direttamente dal Centro per l’impiego e avrà diritto di precedenza in caso di collocamento mirato presso un’altra azienda (senza doversi registrare alle liste speciali). Ovviamente dovrà rispettare le percentuali di invalidità: disabilità superiore al 33 per cento per gli invalidi sul lavoro e disabilità superiore al 45 per cento per i disabili senza lavoro.