testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione.
Nonostante un contesto francamente ostile alle associazioni professionali, gli accordi tra datori di lavoro e lavoratori fiorirono per tutto il XIX° secolo. Anche prima che questi accordi producessero effetti giuridici, una disciplina collettiva ne ha consentito il rispetto. Osservando questa pratica degli attori sociali in ambito professionale di produrre regole e di assicurarne l’osservanza, al di fuori della legge dello Stato, e a volte anche contro la stessa, si può ipotizzare un’attitudine all’autoregolamentazione di una comunità lavorativa, una facoltà di contrattare liberamente senza alcuna interferenza da parte dello Stato , o addirittura nonostante il divieto da parte dello Stato.
Il pensiero di Gurvitch, esposto nel suo capolavoro pubblicato nel 1931, Le temps présent et l’idée du droit social , è sul punto illuminante. Ancorate nel quadro concettuale di una pluralità di ordini giuridici distinti, le norme convenzionali sono viste da Gurvitch come procedenti da una capacità originaria di autoregolazione.
Rifiutando l’idea che il diritto sia necessariamente prodotto dallo Stato, che ne ha il monopolio, Gurvitch sviluppa l’ipotesi opposta di diversi centri generatori di diritto, di ordini giuridici che sorgono ed esistono al di fuori dello Stato, anche in competizione con il diritto statale o addirittura in contrasto con il diritto statale stesso. In questo senso, ci sarebbero diverse fonti autonome di diritto. In una rottura con lo “statalismo giuridico”, il contratto collettivo è per Gurvitch la manifestazione di un ordine giuridico autonomo. La prospettiva è quella dell’autonomia sociale, nel senso che il diritto non è solo il prodotto dello Stato, ma anche delle forze sociali. Avrebbe un carattere extra-statale, essendo il prodotto di associazioni e comunità al di fuori dello Stato. L’autonomia collettiva sarebbe il fondamento di questo ordine giuridico autonomo, e quindi non avrebbe bisogno di essere legittimata dall’ordine statale.
2. L’assenza di uno spazio riservato alla contrattazione collettiva.
La Costituzione francese riserva alla legge uno spazio di competenza sui principi fondamentali del diritto del lavoro, del diritto sindacale e della sicurezza sociale (art. 34) e rimanda al potere esecutivo le procedure per la loro applicazione (art. 37). Il potere regolamentare ha anche una competenza autonoma per quanto riguarda le materie non coperte dall’articolo 34 della Costituzione. Al contempo, invece, nessuna disposizione costituzionale riserva uno spazio specifico alla contrattazione collettiva; anche se il legislatore ha la possibilità di coinvolgere le organizzazioni professionali nella redazione della legge o nella sua applicazione, questa possibilità è solo un’opzione aperta al legislatore.
La capacità normativa delle organizzazioni professionali dipende dalla legge, per cui sembra difficile sostenere l’esistenza di uno spazio contrattuale autonomo e la contrattazione collettiva non può liberarsi dallo spazio che la Costituzione riserva alla legge.
Nel contesto della decisione del governo di imporre la settimana lavorativa di 35 ore senza negoziare preventivamente con le parti sociali, è emersa la richiesta di una sorta di consacrazione costituzionale di uno spazio riservato alla contrattazione collettiva, in concorrenza con quelli riservati alla legge e ai regolamenti. Questa richiesta si è concretizzata nella posizione comune del 16 luglio 2001 adottata dalle organizzazioni datoriali e sindacali rappresentative a livello nazionale, ad eccezione della CGT. Questa posizione comune mirava a «costruire una nuova costituzione sociale che ridefinisse congiuntamente i campi di responsabilità nei settori delle relazioni di lavoro e della protezione sociale, così come le nuove relazioni che potrebbero essere stabilite con i poteri pubblici», a delineare i «modi e i mezzi per ampliare, rispettare e dare autonomia al campo del dialogo sociale e della contrattazione collettiva» e, infine, a «chiarire e articolare i rispettivi campi di competenza e responsabilità dello Stato e delle parti sociali». Si sono distinti tre ambiti: 1°) il dominio riservato al legislatore, responsabile della definizione dei principi generali; 2°) il dominio condiviso delle autorità legislative e regolamentari, da un lato, e delle parti sociali, dall’altro: queste ultime negozierebbero le modalità di applicazione dei principi generali stabiliti dalla legge e il recepimento delle direttive, mentre la legge o il regolamento interverrebbero solo in via sussidiaria in caso di fallimento dei negoziati; 3°) il settore riservato alle parti sociali, quello del miglioramento delle disposizioni di ordine sociale pubblico e della creazione di nuovi diritti. Secondo questa posizione comune, il legislatore avrebbe dovuto fare spazio all’autonomia collettiva, «decolonizzando lo spazio aperto alla produzione convenzionale di norme».
Il diritto dell’Unione europea, che riserva uno spazio alla contrattazione collettiva, è al riguardo un modello. Il legislatore francese sembra aver intrapreso un percorso simile con la legge del 31 gennaio 2007. Qualsiasi progetto di riforma previsto dal governo in materia di relazioni individuali o collettive di lavoro, di occupazione o di formazione professionale, e che rientra nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale e interprofessionale, deve essere oggetto di una consultazione preliminare con i sindacati rappresentativi dei lavoratori e dei datori di lavoro a livello nazionale e interprofessionale, in vista dell’eventuale apertura di tali negoziati. Come per mostrare la sua importanza, questa regola è inclusa nell’alfa del Codice del Lavoro, nell’articolo L. 1. Tuttavia, la stessa ha matrice solo legale e non costituzionale.
Fino a poco tempo fa, il legislatore si è attenuto a questa regola. La maggior parte delle leggi sono state direttamente ispirate da negoziati nazionali intersettoriali, su temi diversi come la modernizzazione del mercato del lavoro, la formazione professionale, il contratto generazionale o la sicurezza del lavoro. Per la maggior parte, la legge ha riprodotto fedelmente i termini dei negoziati nazionali intersettoriali. Tuttavia, negli ultimi anni, le autorità pubbliche hanno fatto un passo indietro con riguardo al rispetto della regola in questione. In particolare la stessa non è stata seguita in modo ortodosso prima dell’adozione della legge n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016, con il legislatore che andava avanti sotto il diktat del governo, indifferente alla protesta delle parti sociali che in buona misura non erano state coinvolte.
Dopo l’elezione del presidente Emmanuel Macron, i nuovi poteri pubblici hanno aderito ad una lettura molto particolare, e francamente discutibile, dell’articolo L. 1 del Codice del lavoro, assimilando alla consultazione prevista da tale norma le riunioni sparse condotte durante l’estate con le organizzazioni sindacali e datoriali prima della redazione del testo, presentato a fine agosto 2017 e ripreso in gran parte nelle ordinanze del mese successivo. Un modo di procedere cha appare molto distante dal modello europeo che ha ispirato l’articolo L. 1 del Codice del Lavoro.
Allo stesso tempo, la legge dell’8 agosto 2016 e poi le ordinanze del 22 settembre 2017 hanno assegnato un posto più importante alla contrattazione collettiva, quasi a rievocare un desiderio espresso molto tempo fa da Georges Scelle, per il quale la legislazione dovrebbe limitarsi a dettare regole di portata estremamente generale, direttive, cornici, all’interno delle quali si inserisce la vera e propria legislazione del lavoro di origine convenzionale. Il codice del lavoro viene riordinato (come già avviene per l’orario di lavoro o anche per la parte principale del diritto di rappresentanza del personale) dando forma ad una sorta di trittico costituito dall’ordine pubblico, dalla possibilità di intervento ad opera della contrattazione collettiva e da disposizioni complementari.
Tuttavia, se si valutano questi sviluppi dal punto di vista dell’autonomia collettiva, occorre rilevare che anche se i rapporti di lavoro sono più ampiamente disciplinati dal diritto contrattuale, la possibilità di intervento delle parti sociali rimane subordinata alla legge: è quest’ultima infatti a delimitarne i confini, che può ridisegnare in qualsiasi momento senza essere vincolata atteso che la Costituzione non riserva uno spazio alla contrattazione collettiva.
Il peso della storia non può essere in questa sede ignorato per spiegare i motivi di tale resistenza all’autonomia collettiva. Da un lato, è stata sottolineata la tradizionale debolezza della società civile francese ed i progressi ispirati dalla ‘seconda sinistra’ lottano per rovesciare questa eredità, la cui origine, secondo Tocqueville , risiede nella società dell’Ancien Régime. In particolare, nel campo delle professioni, l’ispirazione liberale del XVIII° secolo ha inferto un duro colpo ai corpi intermedi che si pongono lo scopo di regolare la società.
Dall’altro, come sottolinea Le Goff, «ci sono molte indicazioni che dimostrano come l’immaginario sociale dipenda ancora in larga misura, anche all’interno dei sindacati cosiddetti ‘riformisti’, da una cultura ereditata dalla storia e centrata sul conflitto frontale come fatto fondante, come norma originaria. In questo inconscio sociale, lo scontro ha la precedenza, e la lotta rimane sullo sfondo del dibattito, se non il presupposto per un “vero” dialogo» . Questa «rappresentazione bellicosa della vita sociale» è difficile da conciliare con la prospettiva di riconoscere ai corpi intermedi un dominio riservato dalla Costituzione nella produzione del diritto del lavoro.
Prima della legge del 25 marzo 1919, i giudici ritenevano che i contratti collettivi non avessero valore legale. Poi, la giurisprudenza ha riconosciuto il valore giuridico dei contratti collettivi attraverso il ricorso alle categorie del diritto civile. In particolare gli accordi collettivi vengono analizzati sub specie di diversi istituti civilistici quali il mandato, la gestione degli affari o la stipulazione per terzi, e per tale via si riconosceva agli stessi effetti giuridici. Così, solo i membri dei gruppi firmatari erano vincolati dall’accordo, a meno che non fosse espresso diversamente nel contratto individuale di lavoro: non si arrivava quindi a sancire l’effetto automatico delle clausole del contratto collettivo e a sostituirle alle clausole contrarie del contratto di lavoro.
Pertanto, i gruppi firmatari non potevano agire contro il datore di lavoro se non applicava il contratto collettivo, anche se era obbligato a farlo.
Il contratto collettivo si è progressivamente liberato dalla camicia di forza del diritto civile per acquisire strumenti e metodi propri. In primo luogo, la legge del 25 marzo 1919 ha previsto che le regole del contratto collettivo sono vincolanti nonostante qualsiasi clausola contraria nel contratto individuale di lavoro. Inoltre, i sindacati avevano il diritto di sostituirsi ai dipendenti per intraprendere azioni individuali al loro posto in caso di violazione da parte del datore di lavoro delle clausole del contratto collettivo.
Tuttavia, i dipendenti sindacalizzati potevano sfuggire all’applicazione del contratto collettivo dimettendosi dal sindacato, così come i datori di lavoro che erano membri dei gruppi di datori di lavoro firmatari potevano sfuggire all’applicazione del contratto collettivo dimettendosi da tali gruppi. La legge del 24 giugno 1936 ha poi permesso all’autorità di regolamentazione, attraverso la procedura di estensione, di rendere obbligatorie le clausole di un contratto collettivo, in particolare sui salari, anche per le imprese che non erano membri delle organizzazioni firmatarie. La legge ha quindi riservato la possibilità di estendere i contratti collettivi a quelli firmati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative. Infine, la legge del 1950 ha fatto un passo decisivo verso la concezione normativa del contratto collettivo: quando il datore di lavoro è vincolato da un contratto collettivo, quest’ultimo si applica ai contratti di lavoro conclusi dal primo, indipendentemente dal fatto che i lavoratori interessati siano membri di un sindacato firmatario.
Dal momento che i contratti collettivi sono vincolanti per i dipendenti e talvolta anche per i datori di lavoro, indipendentemente dalla loro volontà, si poneva allora la questione della legittimità degli attori della contrattazione collettiva ovvero il nodo relativo a chi potesse validamente concludere un contratto collettivo. È su tale questione cardinale che si è concentrata l’attenzione.
Con la legge del 13 luglio 1971, il legislatore ha generalizzato il requisito della rappresentatività dei sindacati firmatari, un criterio per decidere quali agenti avevano diritto a partecipare all’elaborazione delle norme. E poiché la funzione della contrattazione collettiva è cambiata, e il suo scopo non era più semplicemente quello di aggiungere nuovi diritti ai dipendenti, la questione della legittimità delle organizzazioni sindacali che firmavano il contratto collettivo, anche se erano rappresentative, si poneva sotto una nuova luce. In risposta, il legislatore ha promosso, a partire dal 2004, e ancora di più dal 2018, il principio di maggioranza. Infine, per attribuire un ruolo più importante alla contrattazione collettiva a livello aziendale, liberandola dall’influenza delle regole negoziate a un livello contrattuale superiore, il legislatore ha adottato una serie di regole per disciplinare l’articolazione dei diversi livelli di contrattazione.
I testi che regolano la contrattazione collettiva, scaduti dal 1919, sono ora raggruppati in un unico libro del Codice del Lavoro riguardante la «determinazione delle relazioni collettive di lavoro tra datori di lavoro e dipendenti». Tale libro definisce le regole secondo le quali si esercita il diritto dei lavoratori alla contrattazione collettiva (articolo L. 2221-1 del Codice del Lavoro).
Certamente, le parti della contrattazione collettiva sono libere di scegliere l’oggetto delle trattative, a condizione che riguardi l’impiego, la formazione professionale e le condizioni di lavoro dei dipendenti e le loro garanzie sociali (articolo L. 2221-1 del Codice del Lavoro). L’unica restrizione è che le disposizioni di ordine pubblico di leggi e regolamenti devono essere rispettate, con la precisazione, fatta dal Consiglio di Stato nel suo famoso parere del 22 marzo 1973, che «le disposizioni legislative o regolamentari adottate in materia di diritto del lavoro hanno un carattere di ordine pubblico nella misura in cui garantiscono ai lavoratori delle prestazioni minime, che non possono in nessun caso essere abolite o ridotte» . Così, fatta salva questa riserva e quella di ordine pubblico assoluto, che non è soggetta ad alcuna deroga, anche in melius, le parti della contrattazione collettiva hanno campo libero.
Inoltre, c’è una miriade di disposizioni nel Codice del Lavoro, a volte di una complessità senza eguali, che definiscono in dettaglio le condizioni di validità del contratto collettivo, i suoi effetti, le sue condizioni di rinnovo, denuncia e contestazione. La legge stabilisce anche le regole per collegare i diversi livelli di negoziazione. Lo Stato altera così l’autolegittimazione degli attori professionali e impone le proprie condizioni per il riconoscimento della loro capacità normativa; la legge statale stabilisce il regime dei contratti collettivi, per quanto riguarda la portata, il rinnovo, la denuncia e la sopravvivenza delle norme collettive. L’ipotesi di un’autonomia originaria, di un ordine professionale che forma un sistema normativo autonomo e autosufficiente, in assenza della capacità degli attori di produrre, applicare e sviluppare regole al di fuori del diritto statale, sembra quindi essere smentita di fronte al diritto positivo. Ad un esame più attento, la teoria dell’autonomia “originaria” si scontra con il diritto positivo dei paesi con regolamentazione statale dei contratti collettivi di lavoro. Lo Stato incorpora i contratti collettivi nel proprio sistema di fonti per dar loro forza giuridica: «siamo allora fuori dall’autonomia originaria» . Nel migliore dei casi, è un’autonomia delegata dallo Stato.
3. L’ipotesi di un ordinamento giuridico convenzionale autonomo.
A sostegno dell’esistenza di un ordine professionale distinto dall’ordine statale, Aliprantis ha utilizzato la teoria della ricezione per giustificare la relazione tra i due ordinamenti, convenzionale e legale. Questa spiegazione è radicata nella terminologia del pluralismo giuridico e in particolare nel lavoro di Santi Romano .
Un ordinamento è “rilevante” per un altro quando l’esistenza, il contenuto o l’efficacia di uno è conforme alle condizioni stabilite da un altro ordinamento.
Il primo modello è quello della “irrilevanza giuridica”, quando i diversi ordinamenti mantengono una relazione di relativa indifferenza, in modo da coesistere in parallelo, senza incrociarsi. Il secondo modello è denominato “esclusione reciproca”, nel senso che gli ordini giuridici rifiutano di riconoscersi a vicenda, essendo le regole dell’uno percepite come illecite dall’altro. Il terzo modello è quello del¬l’ “inclusione”: la validità delle norme di un ordinamento si basa sulla circostanza che un altro ordinamento le riconosce per incorporazione, ricezione o riferimento.
Per Aliprantis, la ricezione di un ordinamento giuridico (convenzionale) da parte dell’altro (statale) non significa che quello recepito venga meno. Al contrario, i due ordinamenti giuridici, uno statale e l’altro convenzionale, coesistono autonomamente: «La ricezione suggerisce che il ‘ricevuto’ esiste prima e al di fuori dell’agente ricevente (un’idea che la teoria della delega non può esprimere). Il secondo fatto è che l’ordine ricevente (in questo caso lo Stato) non solo si accorge dell’istituto dei contratti collettivi, ma lo (ri)crea attraverso la ricezione, poiché lo integra nel proprio sistema giuridico. In effetti, il concetto di ricezione suggerisce che si tratta di un atto costitutivo (creativo) e non semplicemente dichiarativo (questa idea, e in particolare l’idea dell’integrazione dei contratti collettivi nell’ordinamento statale, è assente nella teoria dell’autono¬mia originaria). La ricezione presuppone l’esistenza di due ordini giuridici che entrano in contatto tra loro, l’ordine ‘ricevente’ (ricevitore) e l’ordine ‘ricevuto’» .
La prospettiva è stimolante in quanto, da un lato, non oscura l’esistenza di un ordinamento convenzionale capace di produrre norme indipendentemente dallo Stato e, dall’altro, evidenzia il fatto che la legge statale non altera le norme prodotte dalle forze sociali; infatti, l’ordinamento “ricevuto” non scompare. Tuttavia, si può davvero parlare di un ordinamento giuridico convenzionale autonomo quando le norme convenzionali diventano diritto solo dopo la loro ricezione da parte dell’or¬dinamento giuridico statale? Un confronto tra il diritto francese e il diritto italiano rivela un contrasto sorprendente, poiché l’autonomia collettiva è la regola in Italia, concepita come la capacità dei soggetti collettivi di regolare (autonomamente) i loro interessi e i loro rapporti reciproci, indipendentemente dal fatto che la legge prevista dal secondo comma dell’art. 39 Cost. non sia mai entrata in vigore. I contratti collettivi e gli usi nel loro insieme (prassi intersindacali) danno luogo a un c.d. ordinamento intersindacale.
I sostenitori del pluralismo giuridico richiamano la storia per evidenziare la comparsa di regole convenzionali prima del loro riconoscimento da parte dello Stato, e ciò “nonostante” l’ostilità del diritto statale. Così, ai margini dell’intervento statale e delle basi di un modello eteronomo, si è riconosciuto uno spazio normativo alle forze sociali, una facoltà di produrre norme imperative e generali. In senso forte, tuttavia, l’autonomia collettiva si riferisce al riconoscimento di un dominio riservato alla contrattazione collettiva. L’esistenza di uno spazio contrattuale autonomo manca nel diritto francese. Inoltre, di fronte al diritto positivo francese, si discute circa la possibilità di affermare la sussistenza di un ordinamento giuridico convenzionale autonomo.