In materia di lavoro, la norma di riferimento nella Convenzione è costituita dall’art. 4 che vieta la schiavitù ed il lavoro forzato. Proprio riferendosi a tale norma, nel caso J. e altri contro Austria la Corte ha precisato la portata degli obblighi positivi dello Stato che derivano dalla Convenzione: in particolare, si trattava dell’obbligo procedurale di indagare presunti reati di tratta di esseri umani commessi al di fuori del territorio della Parte contraente.
Nella specie, erano ricorrenti alcuni cittadini filippini, che avevano affermato di essere stati vittime della tratta di esseri umani e del lavoro forzato prima nelle Filippine e poi alle dipendenze di cittadini degli Emirati Arabi Uniti. La corte ha potuto occuparsi del caso in ragione della sua competenza (pur trattandosi di lavoratore e datore non appartenente a Stati firmatari della Convenzione) nel momento in cui i ricorrenti erano sfuggiti al controllo dei datori di lavoro mentre si trovavano a Vienna in vacanza con gli stessi ed avevano presentato denuncia alle autorità austriache.
Davanti alle autorità austriache, l'indagine non aveva avuto sviluppi perché, tra l'altro, i reati presunti erano stati commessi al di fuori dell'Austria e perché né i ricorrenti né i loro datori di lavoro erano cittadini austriaci.
La Corte ha escluso la violazione della Convenzione, rilevando che le autorità tedesche avevano rispettato il dovere di proteggere le (potenziali) vittime di tratta di esseri umani, non avendo l’obbligo di indagare su crimini che si presumevano esser stati commessi all'estero. Secondo la Corte (punto 114), infatti, l'Articolo 4 della Convenzione, nel suo volet procedurale, pur ammettendo una valutazione complessiva dei fatti indipendentemente dal luogo del loro accadimento, non richiede agli Stati di “provvedere all'universale giurisdizione sulla tratta di reati commessi all'estero”.
Sul medesimo articolo 4, si segnala il caso Chowdury e altri c. Grecia, riguardante quarantadue cittadini del Bangladesh che, dopo l'arrivo illegale in Grecia, erano stati assunti per lavorare nella raccolta delle fragole, lavorando sotto la supervisione di guardie armate e costrette ad accettare condizioni di vita miserabili, con salari, quando pagati, estremamente bassi.
Un numero considerevole di lavoratori, tra cui ventuno tra i ricorrenti, erano stati feriti quando una guardia aveva aperto il fuoco in risposta alle loro proteste per il mancato pagamento dei salari.
Davanti alle autorità nazionali i datori, accusati di tratta e sfruttamento di esseri umani, erano stati assolti, sul presupposto dell’esistenza del consenso delle presunte persone trafficate alle condizioni di lavoro e della perdurante libertà dei lavoratori di abbandonare il posto di lavoro.
La Corte EDU ha affermato l’applicabilità dei principi già espressi nei paragrafi da 283 a 289 della sentenza Rantsev v. Cipro e Russia, sentenza riguardante la tratta a fini di sfruttamento sessuale, anche al caso di tratta a scopo di lavoro. La Corte ha quindi ribadito che l’articolo 4§2 della Convenzione implica un obbligo positivo per gli Stati di combattere il traffico di esseri umani con un quadro giuridico e regolamentare che consente la prevenzione della tratta di esseri umani e dello sfruttamento lavorativo, che protegge le vittime, che assicura l’investigazione sui casi denunciati e l’efficace perseguimento di qualsiasi atto volto a mantenere una persona nella detta situazione. In secondo luogo, la Corte ha osservato che il fatto che un individuo avesse acconsentito a lavorare per un datore di lavoro non era decisivo, posto che nel caso di specie i fatti indicavano chiaramente che c'era stata tratta di esseri umani e lavoro forzato. In terzo luogo, la Corte ha osservato che se lo Stato convenuto aveva ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa contro la tratta, tuttavia non aveva rispettato nelle circostanze del caso i suoi altri obblighi positivi e procedurali, atteso, in particolare, che non aveva adottato misure adeguate per prevenire la tratta e proteggere i lavoratori e non aveva adeguatamente investigato sul ferimento de lavoratori (le cui denunce erano state archiviate per la loro tardività), non essendo stati puniti i responsabili.
In relazione all’art. 8 della Convenzione, particolarmente importante in materia di controllo del lavoratore è la sentenza Barbulescu contro Romania, resa dalla Grande Camera (in riforma del precedente di Camera dell’anno precedente). LA Corte ha affermato, tra l’altro:
- l’applicabilità della protezione della privacy anche nel caso in cui il datore di lavoro abbia approvato specifica policy recante espresso divieto di uso delle e-mail aziendali per scopi personali;
- l’affermazione dell’obbligo dello Stato, pur in presenza di un ampio margine di apprezzamento, di assicurare che siano predisposte misure protettive contro eventuali abusi da parte del datore di lavoro;
- l’affermazione che la compliance degli Stati con l’obbligazione positiva di protezione della privacy dei lavoratori è assicurata da vari fattori, tra i quali in particolare rilevano la previa informativa datoriale circa la facoltà di monitoraggio delle e-mail, la portata ed estensione del controllo, la giustificazione dello stesso, la configurabilità di misure alternative meno invasive, la gravità delle conseguenze del controllo, la previsione di garanzie in favore del dipendente. Tutti tali fattori, infatti, incidono sull’equo contemperamento degli interessi confliggenti, che gli Stati devono assicurare a garanzia della protezione del diritto di cui all’articolo 8 della Convenzione.
La sentenza è importante non solo per il cambio di rotta rispetto al precedente specifico, non solo in quanto si ritiene essenziale la predisposizione di una policy aziendale in difetto della quale nessun controllo datoriale appare legittimo (il relativo principio era già stato affermato dalla stessa Corte nella sentenza Copland v. Regno Unito di Gran Bretagna del 2007, su ricorso n. 62617/2000), ma perché si indica analiticamente quale debba essere il contenuto della policy e quali tutele spettino in ogni caso al lavoratore; in tal senso, degni di nota sono, in particolare, i punti 121 e 122 della sentenza, ove si elenca una sorta di decalogo che la policy aziendale deve rispettare a tutela del lavoratore, le cui garanzie devono necessariamente essere protette dalle autorità nazionali, pena l’illegittimità del controllo datoriale.
In riferimento all’Articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l'articolo 1 del Protocollo n. 1, degna di nota è la sentenza Fabian v. Ungheria.
Il caso riguardava la sospensione, dopo l'introduzione di modifiche legislative, dell’erogazione di pensione durante il periodo in cui il lavoratore era anche impiegato nel settore pubblico: il ricorrente, che era già in possesso di una pensione di vecchiaia, aveva quindi assunto un impiego pubblico e, a seguito dell'introduzione di una nuova legislazione che vietava il cumulo di pensione e stipendio, il pagamento della pensione era stato sospeso per il periodo corrispondente a quello lavorato.
Il divieto legislativo sul cumulo di pensione e stipendio non si applicava a coloro che lavoravano nel settore privato o a determinati gruppi di dipendenti del settore pubblico: da ciò la questione della disparità di trattamento, connessa con quella della lesione dell’interesse patrimoniale del pensionato.
La Grande Camera ha affermato che non vi era omogeneità delle situazioni in raffronto, essendo diverso il divieto di cumulo della pensione con il lavoro privato rispetto al cumulo con il lavoro pubblico (tanto più che solo quest’ultimo incide al pari della pensione sulle finanze pubbliche) (vedi pure i richiamati precedenti Panfile v. Romania e Valkov e altri v. Bulgaria).
In relazione all’art. 1 prot. 1 in Sé considerato, la Corte ha quindi esaminato nel merito il divieto di cumulo: in tale ambito, la Corte escluso la violazione della norma del protocollo ed ha osservato che lo Stato gode di "ampia libertà nell'organizzazione di funzioni e servizi pubblici" e che il ruolo dello Stato quando agisce in qualità di datore di lavoro non può essere paragonato ai datori di lavoro del settore privato, restando in tal modo legittimo un intervento –purché non sproporzionato- volto a salvaguardare le finanze pubbliche, tanto più considerata la libertà del privato di scegliere tra le diverse forme di reddito.
In P. Plaisier BV e a. v. Paesi Bassi, si è trattato di alcune misure di austerità di bilancio e della loro compatibilità con l'articolo 1 del protocollo n. 1 e l' articolo 14 della Convenzione.
Le società ricorrenti avevano contestato la compatibilità con le dette norme di un prelievo imposto sui datori di lavoro che avevano pagato ai loro dipendenti stipendi lordi di oltre 150.000 euro (EUR) durante l'anno fiscale precedente. Il prelievo era imposto dall’Accordo di bilancio approvato dal Parlamento a seguito della crisi del debito sovrano in Europa ed anche per la necessità di garantire il rispetto degli obblighi dell'UE da parte dello Stato in relazione al proprio deficit di bilancio; il prelievo era poi temporaneo, in quanto doveva essere applicato solo per il 2013 (peraltro, esso era stato rinnovato poi una sola volta per il 2014).
La Corte ha respinto le domande, in quanto ritenute manifestamente infondate (Articolo 35 §§ 3 (a) e 4 della Convenzione).
In particolare, la Corte, nel valutare se lo Stato avesse superato il proprio margine di apprezzamento nell'implementazione delle misure di austerità, ha osservato (paragrafo 82) che "Non c'è dubbio che lo Stato ha il diritto di adottare misure di ampia portata per riportare la propria economia in linea con i suoi obblighi internazionali, … ma tale diritto è comunque soggetto alla condizione che un onere eccessivo non sia imposto ai privati”. Nella specie, la Corte ha escluso che sui ricorrenti fosse stato imposto un onere sproporzionato (vedi i precedenti in relazione alla Grecia: Koufaki e Adedy c. Grecia e Mamatas e altri c. Grecia).
In Belane Nagy c. Ungheria, del dicembre dell’anno precedente, la Grande Camera ha valutato, anche nel contesto dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, la proporzionalità delle modifiche ai criteri di computo di un beneficio di invalidità (che ne avevano comportato nei fatti la perdita, anche se lo stato di salute del ricorrente non era cambiato).
La Corte qui, per valutare la proporzionalità dell’ingerenza statuale, ha indicato quali criteri utili il livello di riduzione delle prestazioni; la natura discriminatoria della perdita del diritto; l'uso di misure transitorie; la buona fede del pensionato; la menomazione dell'essenza dei diritti pensionistici.