testo integrale con note e bibliografia
1. Da Viking e Laval a KL.
Mi è capitato, in varie occasioni di studio e di confronto, di esser invitata ad occuparmi del tema sensibile ed ampiamente dibattuto, del bilanciamento fra libertà economiche e diritti sociali nella giurisprudenza della Corte di giustizia.
Soffermandomi a riflettere sul bilanciamento e sul tempo necessariamente limitato del mio intervento, non potei in quelle occasioni non rilevare, memore dell’insegnamento di Blaise Pascal, che, al contrario, sarebbe stato agevole esaurire rapidamente l’argomento arrestando il mio dire a quella che ormai è diventata quasi una vulgata e, cioè, la sostanziale immobilità della Corte - quanto meno sul piano dei diritti collettivi - rispetto alle note Viking e Laval .
Osservai, tuttavia, che se sicuramente c’è stato un prima e un dopo Viking e Laval , e allo stesso modo ci sarà, forse, un prima e un dopo KL , la sentenza sui contratti a termine del 20 febbraio 2024, sicuramente, dopo Lisbona qualcosa si è mosso. Non tanto in termini di espansione dei diritti sociali tout court quanto su un piano più generale di ampliato enforcement dei diritti fondamentali lato sensu intesi (due esempi fra tutti, la transizione ambientale e quella digitale).
Questo cambiamento ruota ancora, secondo il mio parere, intorno alla “cooperative conversation” richiamata dalla Presidente Silvana Sciarra, alla “shared jurisdiction” di Daniel Sarmiento, ma, per muovere da un’epoca assai più risalente, esso ruota intorno alla stessa “sentenza soggettivamente complessa” di un Piero Calamandrei ignaro delle implicazioni che quella definizione avrebbe avuto in futuro .
A me piace definirla “giurisdizione composita” per alludere all’esercizio di un’attività giurisdizionale cui contribuiscono diversi giudici in termini, appunto, cooperativi e non gerarchici.
Allo stato, questa conversazione dovrà fare i conti anche con la neoriforma della Corte di giustizia, che attribuisce competenze pregiudiziali al Tribunale.
Oggi, ribadendo tali considerazioni preliminari, vorrei prendere le mosse da una sorta di assessment all’anglosassone nell’affermare che la netta dicotomia economico - sociale si colloca in un angolo prospettico ridotto e non esaustivo quanto meno se ricostruita nei termini in cui noi studiosi di diritto del lavoro l’abbiamo ricostruita e, soprattutto, intesa sotto quella accezione, integra una visione senza dubbio parziale e poco accurata della nomofilachia europea che fa capo ai giudici di Lussemburgo.
Ma, come si avrà modo di vedere fra poco, le mie osservazioni non saranno tanto osservazioni di merito, quanto, piuttosto, osservazioni di metodo: è il metodo nella indagine circa l’impatto della giurisprudenza della Corte nel bilanciamento che deve essere a mio avviso, almeno in parte, modificato.
Il dibattito accademico sul contributo della Corte di Giustizia allo sviluppo del diritto del lavoro dell'UE non è certo nuovo.
È almeno dal caso Defrenne sulla parità di retribuzione fra uomini e donne, nel 1976, che l'attività di definizione delle politiche della Corte è stata discussa da una prospettiva disciplinare del diritto del lavoro. Il mio contributo tenta di confrontarsi con tale filone di studi, ma da un autonomo angolo prospettico - seppur sulla scia di illustri studiosi che hanno intrapreso il medesimo percorso - tenendo conto non solo dell'impatto delle sentenze della Corte sulla portata e la sostanza del diritto del lavoro, ma considerando anche il più ampio contesto di creazione del diritto giudiziario.
Per ottenere una comprensione più completa del ruolo della Corte di giustizia rispetto ai diritti sociali, a mio avviso, concentrarsi solo sull'orientamento normativo delle sue sentenze potrebbe non essere sufficiente. L'ipotesi specifica esplorata in questa mia indagine è che quando la giurisprudenza della Corte viene affrontata da un unico e specializzato punto di vista, come tendono a fare i giuristi del lavoro, rischiano di sfuggire elementi rilevanti dell’analisi.
Esiste infatti il pericolo di trascurare che l'attività interpretativa della Corte sia inserita in una molteplicità di processi dialettici, attraverso i quali la Corte interagisce con i legislatori nazionali, con le istituzioni politiche dell'UE e, soprattutto, con le corti nazionali. Come Weatherill ha giustamente sostenuto, “ogni tentativo di presentare resoconti unidimensionali dell'attività [della Corte] è destinato al fallimento” . Allo stesso modo, l’attuale Presidente della Corte EDU, Siofra O'Leary ha osservato che le critiche al lavoro della Corte spesso trascurano i fattori procedurali o strutturali che determinano il contesto in cui la Corte opera .
Non è sufficiente, pertanto, approcciare la giurisprudenza della Corte attraverso le sole lenti epistemologiche tipiche della prospettiva disciplinare del diritto del lavoro. Fermandosi ad esse, le domande da porsi sarebbero limitate: la Corte tende a valorizzare la componente economica o sociale del diritto del lavoro? Come si colloca il suo approccio interpretativo rispetto ai processi di trasformazione che i regolatori stanno imponendo al diritto del lavoro? L'approccio della Corte è coerente con quello promosso dalle istituzioni politiche, oppure è forse più protettivo dei lavoratori o, al contrario, più favorevole alle imprese? Questo percorso, utilizzato per sé, seguirebbe non solo un terreno già coperto dalla ricca letteratura accademica che, come abbiamo già accennato, ha pervaso il diritto del lavoro europeo in seguito a sentenze cruciali come Viking e Laval , ma porterebbe ad una visione a mio avviso parziale. Se Weatherill - ma, come vedremo, non solo lui - critica un atteggiamento monodimensionale è perchè si impone la necessità di un secondo livello analitico, consistente nell'approcciare la Corte di Giustizia non semplicemente come giudice del diritto del lavoro ma, prima di tutto, come autorità giudiziaria che opera in un quadro multilivello e complesso. La Corte dunque non viene più osservata in relazione agli esiti politici delle sue sentenze. Si adotta invece una prospettiva più ampia, che consideri le diverse dinamiche di creazione del diritto giudiziario che potrebbero sostenere la giurisprudenza della Corte. Al riguardo, per esempio, Vanhercke ed altri hanno illustrato che la stessa dimensione sociale delle politiche dell'UE dipende in gran parte dai processi in cui queste politiche sono definite e dagli attori coinvolti. Se gli sviluppi normativi dell'UE sono determinati anche da logiche non legate alla politica, è ragionevole supporre che ciò avvenga ancora più frequentemente nel contesto dell'attività interpretativa della Corte che, a differenza di altre istituzioni, è priva di un mandato politico e la cui attività non è orientata al raggiungimento degli obiettivi socioeconomici fissati dai Trattati.
E’ qui che subentra la lente soggettivamente complessa ed integratrice ben evidenziata da pronunzie come Thelen Tecnkopark (una vicenda - non riguardante il diritto del lavoro - in tema di tariffe concernenti gli architetti) e la già citata KL , relativa ai contratti a termine .
Questo metodo di ricerca non è nuovo: autorevoli studiosi hanno già condotto analisi della giurisprudenza della Corte sulle norme del lavoro considerando anche il contesto di creazione del diritto giudiziario. Tra gli esempi più importanti e completi, c'è il volume collettivo “Labour law in the Courts” a cura di Silvana Sciarra , in cui gli autori hanno esaminato l'evoluzione della giurisprudenza dell'UE in relazione a una serie di direttive dell'UE in materia di diritto del lavoro dal punto di vista del dialogo transgiudiziario tra la Corte di Giustizia e le magistrature nazionali. Allo stesso modo, Siofra O'Leary, nel libro “Employment law at the European Court of Justice: judicial structures, policies and process” ha mostrato che il contesto e i processi decisionali in cui la Corte giudica hanno un impatto considerevole sul suo ragionamento .
Al centro di queste dissertazioni ci sono aspetti nodali come l'interazione tra le Corti o il rapporto tra le istituzioni.
L'importanza di collocare e interpretare la giurisprudenza della Corte di Giustizia in un contesto più ampio e di non osservarne gli esiti da un singolo angolo prospettico, emerge anche dai contributi di altri importanti studiosi, come Prassl, Davies, Bogg e Costello. Nel loro lavoro collettivo “Research Handbook on EU labour law” , essi hanno illustrato come la Corte non sia affatto immune alle sensibilità nazionali nell'approcciare il diritto del lavoro.
Alla fine, con un approccio assai vicino a quello che si tenta di sostenere, hanno identificato una predominante inclinazione integratrice nel ragionamento della Corte, coincidente con l'adozione di una lettura espansiva delle competenze dell'Unione (questo il punto nodale che val la pena sin d’ora porre in risalto) soprattutto quando inerente alle libertà economiche fondamentali.
L'intenzione di questa odierna piccola indagine è di fare un passo ulteriore in questo senso ed esplorare l'interazione tra le dinamiche di creazione del diritto giudiziario e il diritto del lavoro dell'UE in modo per quanto possibile, empirico e consapevole di quella ottica integrazionista che, a mio avviso, rappresenta il fulcro dell’attività interpretativa della Corte.
L’attività della Corte - indubitabilmente ormai distante dalle pronunzie Viking e Laval - deve essere allora riguardata sotto una diversa lente, che, ad avviso di chi scrive, non può che essere quella - strutturalmente integrazionista - della effettività ed uniformità del diritto dell’Unione, quale fulcrum e fundamentum del ruolo della Corte che, sin dalla sua creazione, nel 1952, ha il compito di assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati. Tale diversa lente, non è affatto nuova, ma già al cuore di Van Gend en Loos e Costa Enel , tuttavia, non è a mai stata valorizzata al giusto in ambito sociale.
L’indagine che tenterò di condurre vorrebbe dimostrare come la Corte non si trovi solo sulla linea del fronte in tema di rule of law, come evidenziano la saga polacca e i più recenti arresti sulla legislazione ungherese fino al caso Energotehnica del 26 settembre scorso - in cui la Corte ha escluso, con riguardo alla legislazione della Romania, l’obbligo dei giudici nazionali di applicare una decisione della Corte costituzionale che contrasti con il diritto dell’Unione - ma utilizzi un approccio progressivamente più incisivo e penetrante nel rafforzare il proprio ruolo nomofilattico e, con esso, la forza cogente ed espansiva del diritto dell’Unione, mediante la strada del riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, a tutto campo e, come si dirà, segnatamente in ambito sociale.
La Corte di giustizia ha indubbiamente dimostrato sin dall’inizio di essere in grado di svolgere un ruolo nodale nelle fasi più cruciali dell'integrazione europea. Esempi di manuale sono le già richiamate sentenze Van Gend en Loos e Costa contro Enel , in cui la Corte ha instillato l'idea che la Comunità europea fosse qualcosa di più di un sistema basato sul diritto internazionale. Oppure, un altro esempio è l'interpretazione espansiva di alcuni articoli dei Trattati e, in seguito, della Carta che ha reso la giurisprudenza dell'UE un punto di riferimento sia per l'ampliamento del mercato interno europeo che per le politiche di uguaglianza di genere.
Chiaramente, questa tendenza interpretativa della Corte si è manifestata anche nel campo del diritto del lavoro. La Corte non ha infatti esitato a influenzare i modelli regolatori del diritto del lavoro a livello nazionale e, in alcuni casi, ha fatto pressione per la sua trasformazione.
Abbiamo già più volte evocato le sentenze Viking e Laval , sulle quali è stato scritto molto sull'approccio discutibilmente parziale della Corte verso il bilanciamento degli interessi in gioco. Esempi più recenti sono le sentenze Alemo-Herron del 2013 e Aget Iraklis del 2016 . Lì, la Corte ha stabilito che le norme e le pratiche lavorative (protettive) dovevano essere eliminate in quanto restringevano eccessivamente la libertà degli imprenditori di condurre un'attività commerciale; nel primo caso, con riguardo alle c.d. clausole dinamiche nei trasferimenti d’azienda (che si è ritenuto non dovessero vincolare l’acquirente) nel secondo, con riferimento al potere – piuttosto ampio e poco definito dal legislatore greco – riconosciuto al Ministro del lavoro di bloccare i licenziamenti collettivi, là dove la Corte ha ritenuto quella vaghezza atta a frustrare l’effetto utile della direttiva. Ponendo l'accento sugli interessi economici del datore di lavoro, queste sentenze hanno avuto l'effetto di marginalizzare la razionalità emancipatrice del diritto del lavoro. È proprio a causa di questo effetto dirompente che molti osservatori e scrittori accademici hanno (di nuovo) rivolto un occhio molto critico alla Corte. La predominanza della libertà economica sui diritti dei lavoratori è stata ampiamente percepita come espressione della tendenza della Corte a intervenire intenzionalmente nel bilanciamento degli interessi che sottendono i sistemi di diritto del lavoro.
La ritenuta compressione dei diritti dei lavoratori ha condotto a molte critiche. Ancora Weatherill ha dichiarato pittorescamente che "a volte una decisione della Corte di giustizia dell'Unione europea è così assolutamente strana da meritare di essere rinchiusa in un contenitore sicuro, immersa nelle acque ghiacciate di un lago profondo e dimenticata” . È quasi superfluo notare che alla base della critica ad Alemo-Herron vi è soprattutto il fatto che la Corte abbia scelto di adottare una lettura della direttiva che ha enfatizzato la libertà economica dell'acquirente.
La tentazione di vedere in queste sentenze un approccio orientato alle politiche da parte della Corte è certamente comprensibile, ma l'assunzione che siano espressione delle preferenze socio-economiche e ideologiche della Corte rischia di distogliere l'attenzione dall'esplorazione di altre possibili logiche che guidano il ragionamento della Corte. Rischia inoltre di attribuire una caratterizzazione troppo semplicistica della Corte.
Vorrei al riguardo evidenziare come sia altamente improbabile che nello svolgimento della sua attività interpretativa la Corte sia guidata esclusivamente da un approccio finalistico in relazione a un modello normativo specifico dei diritti del lavoro.
Basti sottolineare che Viking e Laval hanno innescato un ricco dibattito accademico anche in discipline diverse dal diritto del lavoro. Conway, ad esempio, ha interpretato tali sentenze come espressione della tendenza al “creep” lo scivolamento della competenza della Corte, che ha portato ad ampliare la portata del diritto dell'UE a detrimento dei sistemi giuridici nazionali . Altri hanno sostenuto che Viking e Laval non solo fossero in contrasto con le aspettative dei giuristi del lavoro, ma anche con le aspettative dei giuristi del mercato interno.
È inoltre interessante notare che Miguel Pojares Maduro, che è stato avvocato generale nel caso Viking, era anche un accademico che, non solo prima della sua nomina alla Corte di Giustizia, ha elaborato un quadro teorico integrazionista insistendo molto sulla centralità della convivenza armoniosa degli ordinamenti costituzionali europeo e nazionale. Possiamo arrivare a dire che il ragionamento della Corte nella sentenza Viking possa essere stato influenzato anche da considerazioni che non sono necessariamente legate alla tensione “diritti del lavoro contro libertà economica”? Probabilmente si.
2. Il caso KL.
Nella recente causa KL , alla Corte di giustizia era stato posto un quesito pregiudiziale avente ad oggetto la compatibilità con l’art. 4 della normativa polacca con la clausola 4 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato.
Come noto agli studiosi di diritto del lavoro, la clausola 4 è frequentemente al centro di decisioni della Corte, da ultimo, nella sentenza del 19 settembre scorso, KV su rinvio pregiudiziale del Tribunale di Padova che ha ritenuto che essa vada interpretata nel senso che osta a che l’anzianità di servizio maturata da un lavoratore in forza di contratti a tempo determinato eseguiti prima della scadenza del termine per il recepimento della direttiva 1999/70 non venga presa in considerazione ai fini del calcolo della retribuzione al momento dell’assunzione a tempo indeterminato.
Nel caso Kl si trattava di una normativa nazionale che non impone ai datori di lavoro l’obbligo di indicare i motivi di recesso nel caso di contratti di lavoro conclusi a tempo determinato e, cioè, si chiede se tale previsione non sia discriminatoria rispetto a quella relativa ai contratti di lavoro a tempo indeterminato, ove, invece, l’obbligo sussiste .
La Corte chiarisce subito che sussiste una differenza di trattamento tra queste due categorie di lavoratori, resta da stabilire se la discriminazione risulti giustificata da ragioni oggettive.
Secondo il governo polacco, la distinzione operata si inserisce nel perseguimento dell’obiettivo legittimo di una «politica sociale nazionale volta alla piena e produttiva occupazione», che richiederebbe una grande flessibilità del mercato del lavoro.
A parere dei giudici di Lussemburgo, tuttavia, gli elementi invocati dal governo polacco al fine di giustificare la normativa in oggetto - ancora una volta, alla luce della loro genericità - non consentono di assicurarsi che la differenza di trattamento considerata rispondesse a un’esigenza reale, ai sensi della giurisprudenza della Corte.
E’ evidente, secondo la Corte, che ammettere che la mera natura temporanea di un rapporto di lavoro sia sufficiente a giustificare una differenza di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato svuoterebbe di ogni sostanza gli obiettivi dell’accordo quadro ed equivarrebbe a perpetuare una situazione svantaggiosa per i lavoratori a tempo determinato.
Orbene, secondo la Corte, la normativa di cui al procedimento principale non risulta necessaria alla luce dell’obiettivo invocato dal governo polacco. E torna allora l’effetto utile ma, soprattutto, ci troviamo di fronte ad una Corte che entra in maniera incisiva nelle scelte di politica economica dello Stato considerato con una impostazione apparentemente opposta rispetto a decisioni come Alemo Herron e Aget Iraklis .
E veniamo al punctum dolens… La Corte ha ripetutamente affermato che un giudice nazionale, cui venga sottoposta una controversia intercorrente esclusivamente tra privati, deve, applicando le norme del diritto interno adottate ai fini della trasposizione degli obblighi previsti da una direttiva, prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto nazionale ed interpretarle, per quanto possibile, alla luce del testo e della finalità di tale direttiva per giungere a una soluzione conforme all’obiettivo perseguito da quest’ultima (il richiamo che la stessa Corte fa è proprio alla sentenza del 18 gennaio 2022, Thelen Technopark Berlin, C-261/20, cit., punto 27 e giurisprudenza ivi citata).
Qualora non sia possibile procedere a un’interpretazione di una disposizione nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, il principio del primato di quest’ultimo esigerà che il giudice nazionale disapplichi qualsiasi disposizione del diritto nazionale contraria alle disposizioni del diritto dell’Unione aventi effetto diretto. La Corte ribadisce, a questo punto, che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti dinanzi a un giudice nazionale. Un giudice nazionale non è dunque tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del suo diritto interno contraria a una disposizione del diritto dell’Unione, qualora quest’ultima disposizione sia priva di efficacia diretta, ferma restando tuttavia la possibilità, per tale giudice, nonché per qualsiasi autorità amministrativa nazionale competente, di disapplicare, sulla base di tale diritto interno, qualsiasi disposizione di quest’ultimo contraria a una disposizione del diritto dell’Unione priva di tale efficacia.
Ora, due sono gli aspetti nodali di questo approdo. Innanzitutto, ciò che tanto aveva agitato la dottrina all’indomani di Thelen Teknopark al punto da indurre autorevoli Autori a chiedersi: “consistency, but at what cost?” e, cioè, consentire la disapplicazione anche fra privati in dispregio dell’effetto solo verticale delle direttive, diventa in KL acquis, un dato di fatto su cui neanche ci si interroga più.
Il secondo aspetto, invece, è che il principio di non discriminazione (previo accertamento da parte del giudice nazionale della comparabilità) supera ogni ostacolo e, soprattutto, orienta necessariamente l’interprete in favore, stavolta, di una visione non economicamente orientata alla flessicurezza ma, piuttosto, alla protezione dei lavoratori, consentendo alla Corte l’ingresso nelle stesse scelte di politica economica in ambito lavoristico del legislatore nazionale: tutto ciò è reso possibile, tuttavia, esclusivamente sotto l’egida dell’art. 47 della Carta.
Sembrerebbe doversi concludere per un radicale mutamento di prospettiva dei giudici di Lussemburgo, dato il vistoso revirement non solo rispetto a Viking e Laval ma anche rispetto a Alemo Herron e Aget Iraklis , con un netto spostamento dall’ottica economica ad una ampiamente protezionistica, impostazione che troverebbe altresì recente conferma nella decisione Plamaro dell’11 luglio scorso che ha imposto l’adozione delle misure previste in tema di licenziamenti collettivi anche al caso del pensionamento del datore di lavoro. E’ veramente ciò, quanto accaduto? Non sono di questo avviso.
A mio parere Herron e Iraklis da una parte e KL e Plamaro sul pensionamento del datore di lavoro dall’altra, unitamente alla decisione sul Pre pack olandese , sono figlie di un medesimo approccio, che non è un approccio schizofrenico, ora neoliberista ora protezionista a seconda dei casi, ma strutturalmente integrazionista, talché, è esclusivamente sotto la lente di ingrandimento della garanzia dell’effettività del diritto dell’Unione e della progressiva espansione delle sue competenze che tutte le decisioni della Corte non possono che essere lette.
Sotto questo profilo, KL , Protectus , (decisione del 29 luglio scorso su una vicenda slovacca assai complessa in tema di informazioni commerciali confidenziali) Plamaro non si discostano dalla vicenda polacco – ungherese in tema di rule of law che parte da AK e giunge a LG ed alle più recenti pronunce di condanna dell’Ungheria e della Romania per violazione del diritto dell’Unione.
La Corte è sempre più sulla linea del fronte nella progressiva espansione delle competenze del diritto dell’Unione e, soprattutto, nel costante perseguimento dell’effettività di tale sistema giuridico.
Ciò che c’è di nuovo è che quell’effetto utile della direttiva, rilevante in Aget Iraklis , che la Corte temeva potesse essere pregiudicato, si colora mediante il ricorso ad una disposizione che, in rapida successione rispetto all’art. 21 della Carta, si candida a diventare il nuovo grimaldello nelle mani della Corte di giustizia: l’art. 47 sulla tutela giurisdizionale effettiva.
La Corte chiarisce in KL che uno Stato membro, nell’adottare una normativa che precisa e concretizza le condizioni di impiego disciplinate in particolare dalla clausola 4 dell’accordo quadro, attua il diritto dell’Unione, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta, e deve pertanto garantire il rispetto, segnatamente, del diritto a un ricorso effettivo, sancito all’articolo 47 di quest’ultima.
E’ giocoforza allora per la Corte constatare che la differenza di trattamento introdotta dal diritto nazionale applicabile lede il diritto fondamentale a un ricorso effettivo sancito dall’articolo 47 della Carta, in quanto il lavoratore a tempo determinato si trova ad essere discriminato rispetto al lavoratore a tempo indeterminato, di valutare preliminarmente se sia opportuno agire in giudizio contro la decisione di recesso dal suo contratto di lavoro e, se del caso, di proporre un ricorso che contesti in modo preciso i motivi di tale recesso.
A questo punto, la Corte, facendo perno su quanto aveva già detto molto tempo prima in Egenberger , sottolinea che l’articolo 47 della Carta è sufficiente di per sé e non deve essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale. Ne consegue che il giudice nazionale sarebbe tenuto ad assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giurisdizionale derivante per i singoli dall’articolo 47 della Carta, in combinato disposto con la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, per quanto riguarda il diritto a un ricorso effettivo, che comprende l’accesso alla giustizia, e quindi a disapplicare l’articolo 30, paragrafo 4, del codice del lavoro nella misura necessaria a garantire la piena efficacia di tale disposizione della Carta.
Come è stato osservato , analogamente a quanto avviene nel campo delle scienze naturali, tuttavia, tali principi agiscono come veri e propri “reagenti chimici”: quando entrano in contatto tra loro nel ragionamento utilizzato dalla Grande Camera, innescando una reazione che li tradforma in qualcosa di diverso e aggiuntivo rispetto alla mera somma delle loro parti.
A guardar bene e come sottolineato anche dall’Avvocato Generale Pitruzzella in Egenberger l’obbligo di disapplicare il diritto nazionale non era fondato sull’art. 47 per sé solo considerato: piuttosto, il diritto fondamentale ad un ricorso effettivo era stato preso in esame in connessione con altro diritto fondamentale, quello sì dotato di efficacia diretta orizzontale tout court, il divieto di discriminazioni (nella specie, per motivi religiosi), consacrato nell’art. 21(1) della Carta.
In KL l’art. 47 diventa, invece, la norma in grado di scardinare tutte le competenze e di funzionare persino da stampella per assicurare in qualche modo l’effetto diretto tra privati a disposizioni, quali quelle delle direttive, che ne siano strutturalmente prive.
Come noto, nel 1992, Frank Emmert si espresse a favore del rovesciamento di Marshall perché il divieto di effetto diretto orizzontale delle direttive era destinato a rimanere “a fright without an ending” "uno spavento senza fine"; e quindi l'opzione migliore era quella di avere “a frightening ending” "un finale spaventoso" della regola Marshall. Mentre la Corte ha confermato il divieto due anni dopo in Faccini Dori, la previsione di Emmert ha resistito alla prova del tempo, poiché la giurisprudenza sugli effetti giuridici delle direttive è diventata sempre più complessa e, secondo molti commentatori, fondamentalmente incomprensibile. La Corte ha teso sempre ad aggirarla, come fece con Mangold ; tuttavia, già nelle quasi coeve Pfeiffer e Berlusconi , la Corte ha insistito, rispettivamente, sul divieto dell'effetto diretto orizzontale e verticale inverso delle direttive.
Con KL la diatriba assume una nuova colorazione: KL , come detto, si pone sulla scia di Thelen Technopark - facoltizzando l’interprete, che a ciò sia autorizzato dal diritto nazionale, a disapplicare in una controversia fra privati la norma interna contrastante con quella dell’Unione anche là dove quest’ultima sia priva di efficacia diretta orizzontale - ma aggiunge un tassello in più, richiamando in modo efficace Egenberger , superando qui la sua stessa tendenza ad entrare nella normativa nazionale per assicurare l’effettività del diritto dell’Unione perché non solo richiama l’effetto diretto che già aveva riconosciuto all’art. 47 ma andando oltre rispetto alla giurisprudenza Marshall e in qualche modo prendendo le distanze anche dalle conclusioni dell’allora Avvocato Generale Pitruzzella - che era stato più cauto sul punto - riconosce a quella norma effetto diretto nei rapporti giuridici tra privati, consentendole di diventare un “ponte” o meglio l’ombrello sotto il quale, potrebbe dirsi, qualunque norma di natura secondaria, non dotata di effetto diretto, pur in presenza del disposto di cui all’art. 288 TFUE, pare suscettibile di acquisire efficacia diretta orizzontale.
Tutto questo conduce ad una Corte che non è un attore politico imperscrutabilmente orientato ora a favore delle libertà economiche ora dei lavoratori.
L’approccio analitico che abbiamo tentato di intraprendere, in un’ottica il più possibile scevra da pregiudizi ideologici ci conduce allora ad un solo ed unico risultato.
La Corte, nella sua interrelazione con i giudici nazionali, è l’attore centrale della scena europea nella misura in cui persegue uno scopo fondamentale: assicurare l’effettività del diritto dell’Unione e, al suo interno, l’effettività della tutela giurisdizionale (già nodale in Factortame ) quale strumento cruciale del funzionamento del sistema; la stessa è e sarà sempre quel Giudice della nomofilachia europea le cui sentenze, per usare le parole del Presidente Koen Lenaerts rappresentano il glossario delle norme interpretate.