testo integrale con note e bibliografia

Per quanto riguarda la Corte europea dei diritti dell’uomo, la prima domanda che ci si dovrebbe porre è: cosa c’entra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) con il diritto del lavoro? In effetti si tratta di un documento che potremmo definire “liberale”, inteso alla tutela dei diritti umani cosiddetti “di prima generazione”, cioè quelli di natura civile e politica, e certamente non dedicato ai diritti sociali ed economici.
Le norme convenzionali che hanno a che fare con il lavoro sono molto poche. C’è l’art. 4 della Convenzione, che vieta la schiavitù, il lavoro forzato e il servaggio, c’è l’art. 11 che protegge la libertà di associazione, compreso il diritto di fondare un sindacato e quello di affiliarvisi, e potremmo includere in questa breve lista l’art. 14, che vieta le discriminazioni, una norma non del tutto autonoma, perché essa è accessoria rispetto agli altri diritti protetti, e può essere violata solo combinata con un'altra disposizione sostanziale della CEDU.
Difatti, anche a causa dell’orientamento assai restrittivo in materia di libertà sindacale che la giurisprudenza della Corte aveva assunto inizialmente, la dottrina lavoristica aveva preso a considerare con un certo scetticismo la capacità della Corte di Strasburgo di tutelare efficacemente i diritti della persona nell’ambito del rapporto di lavoro. Dopo, per esempio, dopo la sentenza del 1976 nel caso Sindacato svedese dei conduttori di locomotive c. Svezia , con la quale la Corte aveva detto che il diritto alla contrattazione collettiva non era necessariamente tutelata dall’art. 11 della Convenzione, si era giunti a dire che piuttosto che uno strumento a tutela del lavoro la Convenzione era impiegata come uno strumento per il controllo del lavoro .
Oggi la situazione è cambiata, ed è un fatto che attualmente la CEDU e la Corte europea dei diritti dell’uomo vengono trattate con maggior rispetto e considerazione da parte degli studiosi di diritto del lavoro.
Questo si deve principalmente a tre fattori.
Innanzitutto lo sviluppo della dottrina degli obblighi positivi, secondo cui la Convenzione non contiene solo obblighi “verticali” degli Stati contraenti verso gli individui, ma vincola gli stessi Stati ad assicurarsi che i diritti fondamentali non vengano violati neanche nell’ambito delle relazioni private, il che permette di non limitare la protezione della Convenzione ai rapporti di lavoro che vedono lo Stato come datore di lavoro, ma la allarga anche al lavoro privato. È la cosiddetta applicazione orizzontale della Convenzione, o Drittwirkung. Secondo la Corte, se il confine tra le obbligazioni positive e le obbligazioni negative dello Stato, i principi applicabili nelle due situazioni sono comparabili; nei due casi si deve prendere in considerazione il giusto equilibrio da assicurare tra l’interesse generale e gli interessi dell’individuo, mentre in un caso e nell’altro lo Stato gode di un margine di apprezzamento .
Secondo fattore, in qualche modo collegato al primo, è l’idea, che si è affermata nella giurisprudenza della Corte nei primi anni ’90, con la sentenza nel caso Niemietz c. Germania del 1992 , secondo la quale l’art. 8 della Convenzione, che protegge la vita privata e familiare, non si limita a tutelare l’individuo nella sua sfera domestica, ma copre anche quella dei rapporti professionali e di lavoro, dato che, ha detto la Corte, che è proprio nel corso della vita lavorativa che la maggioranza delle persone hanno una significativa, se non la più grande, opportunità di sviluppare relazioni con il mondo esterno. Questa apertura della Corte è stata di recente particolarmente sviluppata, come dirò tra un momento, in tema di licenziamenti.
Terzo, non meno importante, fattore è la scelta della Corte di interpretare la Convenzione non in isolamento, ma ponendola nel contesto degli altri strumenti internazionali pertinenti, una scelta fondamentale, che ha permesso alla Corte, almeno tendenzialmente (secondo alcuni con la sentenza Humpert , della quale credo parlerà la Prof. Schlater, ci sarebbe stata una battuta di arresto su questo fronte) di assicurare la massima espansione possibile ai diritti “lavoristici” protetti dalla Convenzione.
Detto questo, ci occupiamo oggi in particolare delle tecniche di bilanciamento delle varie corti in tema di diritti dei lavoratori. A questo proposito vorrei innanzitutto dire che nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, oltre alla dimensione classica del bilanciamento in questa materia, cioè quella del confronto tra i diritti dei lavoratori e quelli dell’impresa o più in generale del datore di lavoro dall’altra, ve ne può essere una più ampia, specie come quando, per esempio in tema di licenziamento, entrano in gioco particolari diritti protetti dalla Convenzione, come l’art. 10 sulla libertà di espressione, rilevante a proposito del licenziamento dei c.d. whistleblowers o lanciatori di allarme, nel cui contesto entra in gioco l’interesse pubblico all’informazione.
Il tempo a disposizione non è molto, ma cercherò di dare qualche indicazione telegrafica in relazione a tre punti: 1) il diritto di sciopero; 2) la riservatezza e i controlli; 3) il licenziamento.
1) il diritto di sciopero
Comincio dal diritto di sciopero, su cui sarò veramente brevissimo. Dicevo del terzo fattore di sviluppo della giurisprudenza della Corte in materia lavoristica, quello legato ad una tecnica di interpretazione della Convenzione “alla luce” degli altri strumenti pertinenti di diritto internazionale del lavoro, a partire da quello più vicino, cioè la Carta sociale europea, e comprendendo altri documenti come le Convenzioni internazionali del Lavoro dell’ILO, i due Patti delle Nazioni Unite del 1966 sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali e la Convenzione americana dei diritti dell’uomo con il Protocollo di San Salvador, tenendo conto, ed è questo un elemento di grande rilievo, della giurisprudenza dei rispettivi organi di controllo, cioè il Comitato europeo dei diritti sociali, il Comitato delle NU sui diritti umani, il Comitato delle NU sui diritti economici, sociali e culturali e la Corte interamericana dei diritti dell’uomo. Questa “apertura” della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si è manifestata proprio in relazione alla libertà sindacale, nel cui contesto si inquadra il diritto di sciopero, ed ha avuto una espressione particolarmente importante con la sentenza di Grande Camera nel caso Demir e Baykara c. Turchia del 2008 , una decisione con la quale, proprio in relazione alla libertà sindacale, la Corte europea, alla luce dello sviluppo del diritto internazionale del lavoro, oltre che della prassi degli Stati contraenti, ha ritenuto che il diritto alla contrattazione collettiva dovesse ritenersi incluso tra gli elementi essenziali della libertà di associazione protetta dall’art. 11 della Convenzione.
Sul diritto di sciopero vero e proprio, come dicevo la Prof. Schlater ci parlerà della sentenza Humpert c. Germania della fine dell’anno scorso. Io citerei due casi, RMT c. Regno Unito del 2014 e Ognevenko c. Russia del 2018 . Nel primo caso la Corte ha fatto pendere la bilancia in favore dei datori di lavoro. Considerazione decisiva, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, è stata quella della natura dello sciopero litigioso, che era una c.d. “azione secondaria”, cioè uno sciopero di solidarietà, per cui il divieto è stato ritenuto proporzionato. In Ognevenko si trattava di un ferroviere, categoria cui era precluso il diritto di sciopero, licenziato per aver partecipato ad uno sciopero. Qui la Corte ha trovato una violazione dell’art. 11 della Convenzione proprio perché le corti nazionali non avevano proceduto ad alcun bilanciamento tra l’interesse del lavoratore a scioperare e i contrapposti interessi datoriali e quelli pubblici, limitandosi ad un controllo formale sull’applicazione della legge. Anche in Ognevenko la Corte ha evocato lo stato del diritto internazionale del lavoro, che avrebbe dovuto indurre le autorità russe a giustificare adeguatamente la restrizione imposta al lavoratore. Qui c’è un chiaro invito della Corte di Strasburgo rivolto alle corti nazionali perché procedano al bilanciamento degli interessi alla luce della giurisprudenza europea per non incorrere nella violazione.
2) la riservatezza e i controlli
Sulla riservatezza e i controlli citerei due sentenze: Barbulescu c. Romania del 2017 e López Ribalda c. Spagna del 2019 . Entrambi riguardano rapporti di lavoro privato, sono stati perciò risolti nel quadro delle misure positive, e quindi del dovere statale di assicurare protezioni adeguate della riservatezza del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.
Il primo caso è particolarmente importante perché in quella occasione la Grande Camera ha sciolto definitivamente ogni dubbio, in senso positivo, sull’esistenza di un diritto alla tutela della vita privata sul luogo di lavoro. Qui la Corte ha ritenuto che lo Stato romeno non avesse protetto adeguatamente il diritto del ricorrente alla sua vita privata e alla riservatezza della corrispondenza, mancando di assicurare un equo bilanciamento degli interessi in gioco. Il ricorrente era stato licenziato in seguito all’accertamento da parte dell’impresa dell’utilizzo del computer aziendale per comunicazioni private. Le corti nazionali, secondo la Corte europea, non avevano accertato se il ricorrente fosse stato avvisato dal datore di lavoro della possibile sorveglianza delle sue comunicazioni, né avevano preso in considerazione il fatto che il lavoratore non fosse stato informato della natura e dell’estensione della sorveglianza, e del livello di intrusione nella sua vita privata. Inoltre, le stesse corti nazionali avevano mancato di verificare in primo luogo le ragioni specifiche che avevano motivato la sorveglianza; in secondo luogo, la possibilità per il datore di lavoro di utilizzare misure meno intrusive nella vita privata del lavoratore e, in terzo luogo, se le sue comunicazioni potevano essere state esaminate a sua insaputa. In questo modo la Corte ha fornito una specie di piano di lavoro per i giudici nazionali per procedere a un corretto bilanciamento nei casi di tutela della riservatezza delle comunicazioni del lavoratore.
Nel caso López Ribalda si trattava del licenziamento di cinque lavoratori, operatori alle casse di un supermercato, accusati di furto in base a comportamenti che erano stati rivelati da video-sorveglianza. La Grande Camera ha ritenuto che le corti spagnole, che avevano concluso in favore del datore di lavoro, avessero correttamente bilanciato i diritti dei ricorrenti e quelli del datore di lavoro, compiendo un completo esame della giustificazione della video-sorveglianza. In particolare la Corte ha ritenuto che vi fosse una chiara ragione per questa misura, data l’esistenza di un ragionevole sospetto di una condotta gravemente illecita e tenuto conto delle perdite che ne derivavano, per cui le autorità spagnole non avevano ecceduto il loro margine di apprezzamento. È interessante notare come la Corte sia pervenuta a fare proprio il bilanciamento di interessi operati dalle giurisdizioni spagnole nonostante l’argomento, certamente di peso, fatto valere dai ricorrenti, secondo cui essi non erano stati avvertiti della video-sorveglianza sebbene la legge lo richiedesse. Se il caso fosse stato esaminato dal punto di vista degli obblighi negativi, e quindi dell’ingerenza dello Stato nel diritto alla riservatezza dei lavoratori, l’esito sarebbe stato probabilmente diverso, perché in quel contesto, oltre ad un fine legittimo e alla proporzionalità della misura denunciata con il ricorso, occorre anche una adeguata base legale dell’ingerenza per evitare che la Corte si pronunci nel senso della violazione.
3) il licenziamento
Il licenziamento è ovviamente un terreno sul quale le tecniche di bilanciamento degli interessi dei lavoratori con quelli dei datori di lavoro, e a volte anche con altri interessi, possono atteggiarsi in modo molto diverso a seconda delle circostanze del caso e anche della norma convenzionale che di volta in volta viene in rilievo. In effetti un caso di licenziamento può arrivare alla Corte di Strasburgo attraverso varie disposizioni della Convenzione.
Citerei telegraficamente l’art. 8, l’art. 9 e l’art. 10 della Convenzione, senza dimenticare l’art. 14 che vieta le discriminazioni ed è ovviamente rilevante.
Per quanto riguarda l’art. 8 sono rilevanti, ad esempio, gli stessi casi Barbulescu e López Ribalda dei quali ho parlato nella prospettiva dei controlli datoriali e della tutela della riservatezza dei lavoratori. E qui le indicazioni per un corretto bilanciamento nella prospettiva convenzionale si trovano, come abbiamo visto, soprattutto nella sentenza Barbulescu. Questi sono casi che potremmo definire “classici”, nei quali il licenziamento può assumere una natura anticonvenzionale perché incide direttamente sui diritti protetti dall’art. 8 (reason based approach).
Va detto però che, specie negli ultimi tempi, la Corte ha sviluppato un’altra serie di tutele in base all’art. 8, derivandole dal quel principio, enunciato per la prima volta in Niemietz c. Germania del 1992 , per cui la sfera personale protetta dall’art. 8 abbraccia anche la dimensione professionale e lavorativa. Secondo questa giurisprudenza, che è stata sistematizzata nella sentenza Denisov c. Ucraina del 2018, l’art. 8 entra in gioco in tema di licenziamento quando vi è un impatto: i) sulla “cerchia ristretta” (inner circle) del lavoratore, in particolare quando vi sono gravi conseguenze materiali; ii) sulle opportunità individuali di stabilire e sviluppare relazioni con altri; iii) sulla reputazione del lavoratore (consequence-based approach). È una giurisprudenza i cui contorni non sono ancora sufficientemente chiari, soprattutto da una parte sulla necessità della concorrenza di tutti gli elementi e, dall’altra, della soglia di severità dell’impatto del licenziamento necessaria per far entrare in gioco l’art. 8 della Convenzione. Con riguardo a quest’ultimo punto, va detto che sembra veramente necessario che la Corte da una parte chiarisca che una soglia di severità dell’impatto del licenziamento nei tre ambiti indicati è necessaria, perché evidentemente questi elementi sono presenti praticamente in tutti i licenziamenti, e, d’altra parte, fornisca dei criteri affidabili per determinare la stessa soglia. Altrimenti la Corte potrebbe – senza un rigoroso affinamento di questi criteri – trasformarsi in una Corte europea dei licenziamenti.
Venendo all’art. 9, che tutela la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, è interessante la tecnica di bilanciamento usata dalla Corte nel caso Mc Farlane c. Regno Unito deciso nel 2013 insieme a quello celeberrimo Eweida, rilevante sul tema dell’ostensione dei simboli religiosi sul luogo di lavoro, ma che non riguardava un licenziamento .
Il sig. Mc Farlane era uno psicoterapeuta che operava in una struttura pubblica con il compito di consigliare le coppie, senza distinzione tra quelle eterosessuali e quelle omosessuali. Il ricorrente non svolgeva adeguatamente il suo compito rispetto alle coppie omosessuali perché secondo le sue convinzioni cristiane l’omosessualità è vietata dalla legge divina, ed era stato licenziato senza preavviso per questa ragione. La Corte ha fatto prevalere le ragioni datoriali, osservando che l’obbligo imposto ai dipendenti di evitare comportamenti discriminatori perseguiva lo scopo legittimo di proteggere i diritti altrui, in particolare quelli delle coppie omosessuali, diritti che sono pure protetti dalla Convenzione. Richiamando la sua giurisprudenza precedente la Corte ha concluso che ogni differenza di trattamento basata sull’orientamento sessuale si può giustificare solo con delle ragioni particolarmente solide e che la situazione delle coppie omosessuali è paragonabile a quella delle coppie eterosessuali per quanto riguarda il bisogno di un riconoscimento giuridico, ragione per cui il margine di apprezzamento delle autorità nazionali, che avevano fatto prevalere la tutela dei “diritti altrui”, cioè quelli delle coppie omosessuali, rispetto alla tutela delle convinzioni religiose del lavoratore, non era stato oltrepassato, per cui l’art. 9, da solo e combinato con l’art. 14, non era stato violato.
Infine, l’art. 10 sulla libertà di espressione. Questa disposizione entra in gioco in particolare nei casi di whistleblowing, cioè nelle ipotesi nelle quali il dipendente divulga informazioni aziendali la cui diffusione è ritenuta pregiudizievole dal datore di lavoro. Naturalmente il tema va al di là del licenziamento, visto in questo caso come misura disciplinare, giacché la protezione dell’art. 10 potrebbe essere invocata anche nel caso di misure disciplinari più lievi, ma le pronunce più significative si sono avute in casi nei quali il lavoratore era stato licenziato.
Anche qui la Corte ha elaborato una specie di guida per il bilanciamento degli interessi in gioco, quelli del datore di lavoro e quelli del lavoratore, ovviamente, ma anche quello della società in generale all’informazione su temi di pubblico interesse. Nella sentenza di Grande Camera Guja c. Moldova del 2008 la Corte ha indicato sei criteri:
– l'esistenza o la non presenza di altri mezzi per procedere alla divulgazione;
– l’interesse pubblico presentato dalle informazioni divulgate;
– l’autenticità delle informazioni divulgate;
– il pregiudizio causato al datore di lavoro;
– la buona fede del whistleblower;
– la severità della sanzione.
Questi criteri e le loro modalità di applicazione sono stati rivisitati di recente nella sentenza Halet c. Lussemburgo del 2023 .

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