testo integrale con note e bibliografia

1. Cenni introduttivi. Nel suo discorso sullo stato dell'Unione del settembre 2020 la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen affermava " la verità è che per troppe persone il lavoro non è più remunerativo: il dumping salariale distrugge la dignità del lavoro, penalizza l'imprenditore che paga salari dignitosi e falsa la concorrenza leale nel mercato unico. Per questo motivo la Commissione presenterà una proposta legislativa per sostenere gli Stati membri nella creazione di un quadro per i salari minimi. Tutti devono poter accedere a salari minimi, sia attraverso contratti collettivi sia con salari minimi legali”. Questa dichiarazione di guerra ai “salari” indecenti e di messa in mora degli stati che li tollerano si è oggi concretizzata in una direttiva ( la n. 2041 del 2022) che, nei suoi tratti costitutivi, raccoglie la proposta della Commissione con marginali modifiche (migliorative dal punto di vista dell’efficacia delle norme sovranazionali nel loro impatto nei sistemi nazionali ), approvata con un’ ampia maggioranza vicina ai due terzi dal PE, che l’Italia entro il 15 Novembre del 2024 dovrà recepire.
Scopo del mio intervento è sottolineare il carattere vorremmo dire “epocale” di questa scelta legislativa dal fortissimo timbro “simbolico” insperata anche perché, come diremo, in una certa tensione con una disposizione dei Trattati nel quadro dell’indubbio rafforzamento del capitolo sociale dell’Unione nei “ ruggenti favolosi anni 20” come li ha chiamati la Prof.ssa Claire Kilpatrick dell’IUE . L’archiviazione della teoria dell’ immunità degli stati e delle parti sociali dal controllo di equità “comunitaria” sui risultati (dal punto di vista retributivo) delle contrattazioni collettive retributive è un punto che connota qualitativamente il nuovo passo delle politiche sociali promosse all’insegna del Pilastro sociale europeo e ne dimostra il ruolo che questo è riuscito a raggiungere nel più recente sviluppo del processo di integrazione come Documento solenne della strategia complessiva della sostenibilità sociale nell’Unione, come sintesi e luogo di caduta condiviso e progettante di una tendenziale fusione di orizzonti tra l’ordinamento dell’Unione e quelli degli stati membri. L’importanza della direttiva suggerisce uno spirito di più impegnata collaborazione dello stato italiano con il progetto Ue di quella che attualmente sembra disponibile.
2. Salario minimo e Pilastro sociale. L’ “operazione” Pilastro sociale si incentra sull’elaborazione di un nuovo elenco di diritti e principi fondamentali in campo sociale in base ad una ricognizione delle pretese a carattere socio-economico in genere riconosciute nei paesi membri, sia pure con diversa intensità e vigore e talvolta desumibili anche dai loro testi costituzionali, nonché dall’acquis comunitario, dai Trattati, dalle Carte dei diritti UE e del Consiglio d’Europa. Come sottolinea anche il punto n. 14 del Preambolo del Pilastro, l’elenco alla fine ha comunque carattere innovativo non solo perché una mappa¬tura di questa natura necessariamente non può essere una mera cataloga¬zione dell’esistente, ma perché «per assicurare l’equità ed il buon funzio¬namento dei mercati del lavoro e dei sistemi di protezione sociale nell’Eu¬ropa del 21° secolo […] vanno aggiunti nuovi principi per affrontare le sfide derivanti dai cambiamenti sociali, tecnologici ed economici». Si tratta di un singolare Testo a metà tra una Carta dei diritti ed una raccoman¬dazione o addirittura un green paper nel definire alcuni obiettivi da raggiun¬gere; coniuga un linguaggio enfatico proprio dei Bill of rights con quello esortativo e promozionale degli atti di soft law (pur sviluppando principi ritenuti comuni per gli stati membri). E’ chiaramente per certi versi un duplicato della Carta dei diritti (che fuori dall’ambito di competenza dell’Unione vincola solo i suoi organi ex art. 51 della stessa Carta) ma in senso più analitico e più particolareg¬giato che spesso tiene conto anche della giurisprudenza della Corte di giustizia (ed anche di indicazioni che sono emerse nell’ambito del cosid¬detto metodo aperto di coordinamento) e soprattutto integra nel quadro complessivo quanto stabilito dalla Carta sociale (rivista a Torino) del Consiglio d’Europa , notoriamente più dettagliata di quella di Nizza. L’elenco infatti menziona anche diritti o meri principi relativi a settori che non sono di competenza dell’Unione, perché non ancora esercitata o perché tali settori rimangono in capo agli stati membri ed anche diritti per i quali la competenza non può essere proprio attivata (cfr. art. 153.5) per lo meno ai sensi del capitolo x del TFUE come l’equa ed adeguata retribuzione contemplata all’art. 6 del Pilastro, ma esclusa persino dalla storica codificazione della Carta di Nizza .
Il Social Pillar è articolato in tre capi: uno riguardante le pari oppor¬tunità e l’accesso al mercato del lavoro, un secondo le condizioni di lavoro eque (tra cui l’art. 6 che disciplina il tema dei salari), un terzo la protezione sociale e l’inclusione. Dove il Pillar incontra la competenza esercitata dell’Unione il suo rilievo appare alla fine marginale rispetto al potente ruolo che svolge la Corte di giustizia nel¬l’enforcement della Carta di Nizza ma laddove questa competenza non vi sia o non sia stata attivata la spinta del Pillar verso politiche convergenti tra Unione e stati membri è stata fortissima. Si è progressivamente alimentata la speranza e la richiesta che comunque l’Unione offra, lungo il sentiero delineato dal Pillar, atto intergovernativo votato all’unanimità tra gli stati membri ma condiviso anche dal PE, una forte capacità di indirizzo su tutti i settori a sensibilità sociale per realizzare quella «crescita nel progresso» di cui parlano i Trattati offrendo anche un saldo e visibile completamento e radicamento nelle politiche monetarie di salvaguardia dell’euro e di sorveglianza macro-economica dei bilanci nazionali, sì da orientarle anche alla salvaguardia della «sostenibilità sociale». Pertanto il Pilastro nasce per trovare una rinnovata sinergia tra azione dell’Ue nei campi di competenza e quella degli stati membri per realizzare l’ obiettivo strategico della sostenibilità sociale in connessione con gli altri due capisaldi dell’azione Ue (anche su scala globale) della transizione verde e digitale; una via originale per coniugare autonomia degli stati laddove questi la conservino e attuazione della mission (consacrata all’art. 3 del TUE sugli obiettivi primari del processo di integrazione) del perseguimento del suo modello sociale (secondo la formula dell’”economia sociale di mercato”).
E’ quindi evidente come l’art. 6 del Pilastro sia stato determinante con la sua formulazione piuttosto netta a spingere la Commissione ad infrangere il tabù dell’abstention regolativa riempiendo i margini per l’intervento di cui parleremo nella consapevolezza che una politica sociale europea, per essere credibile e per poter indirizzare 27 politiche sociali nazionali, non può disinteressarsi del tema retributivo.
3. Indietro non si torna. Nicola Countouris in un recente, brillante, saggio nel quale si cimenta in una sorta di bilancio sull’appena conclusa legislatura europea ha correttamente parlato di “una fase per certi versi eccezionale per l’integrazione europea e per quella sociale in particolare. Un periodo caratterizzato da crescenti aspirazioni ed ambizioni sociali incarnate al meglio da numerosi strumenti e politiche miranti a realizzare il Pilastro europeo dei diritti sociali” (PEDS) . Secondo Countouris sarebbe possibile individuare alcune caratteristiche comuni che hanno connotato questo insieme di interventi (di diversa natura) incorniciati dalla loro comune riferibilità al Pillar: un ampio margine di applicazione (con una forte tensione verso l’universalità e la copertura del lavoro autonomo), l’orientamento alla parità di genere, l’impegno a regolamentare le nuove tecnologie del lavoro, la propensione per il progresso sociale, il coinvolgimento delle parti sociali, l’ enfasi sull’attuazione delle politiche nazionali. Sulla base del Pillar sono state varate, in rigorosa attuazione del Social Pillar action plan (del Marzo del 2021), decine e decine di azioni dell’UE, da regolamenti a direttive, da raccomandazioni a piani di intervento di indirizzo e sostegno delle politiche nazionali sino ad iniziative molto atipiche dal punto di vista istituzionale come le Guidelines della Commissione europea di“impresetazione delle norme dei Trattati (art. 101 TFUE sul divieto di restrizioni alla concorrenza) come quelle dell’Ottobre 2022 sull’ammissibilità della contrattazione collettiva dei lavoratori autonomi, considerati in una discutibile decisione della Corte di giustizia alla stregua di “imprese”.
Questo massiccio intensificarsi della “voce europea” in campo sociale ha portato anche al ravvivarsi della discussione teorica sul “modello sociale europeo” , molto vivace negli anni 90 e durante le due Convenzioni del volgere del millennio ma poi spentasi nei bui anni dell’austerity. Il Pilastro ed il suo rilevante processo di implementazione, soprattutto sul lato delle regolazione diretta delle condizioni di lavoro, ha rafforzato, ci pare, la tesi della scuola cosidetta della “European Social Union”. Questa proposta, che ci sembra voler seguire una sorta di rilettura del federalismo solidaristico e coesivo ipotizzato anche nel Manifesto di Ventotene, molto generico tuttavia nelle soluzioni in concreto da adottare, verso un maggiore pragmatismo attento alle dinamiche istituzionali europee ed al contesto di irriducibile pluralismo dei modelli nazionali è particolarmente attento all’ormai imponente acquis comunitario (che, come detto, predeter¬mina ormai in modo egemone il rapporto di lavoro, nella sua genesi e nel suo svolgimento) e ritiene che per il lato del welfare occorrerebbe struttu-rare una Unione di welfare nazionali nei quali fosse assicurata una conver¬genza su alcuni obiettivi e strategie qualificanti comuni che dovrebbero essere finanziati con risorse proprie dell’Unione attraverso una tassazione ad hoc. I progetti dovrebbero anche coinvolgere altri aspetti del “lavoro” sinora non regolati: dall’assicurazione contro la disoccupazione ai processi formativi, dalle pensioni che riguardano attività discontinue o precarie (pensioni di garanzia) a schemi di reddito minimo “europeo” per soccorrere i paesi più in difficoltà. Una prospettiva non molto lontana, dunque, da quanto già realizzato dall’Unione in questi ultimi anni grazie alle misure d’emergenza per il Covid (quindi da rendere strutturali) e con le politiche di attuazione del Social Pillar in chiave di estensione universalistica delle tutele e delle protezioni sociali. Ci sembrano indicazioni interessanti per salvare, nella convergenza verso un welfare a “regia” paneuropea, alcune diversità nazionali molto difficili da rimuovere nel medio come nel lungo periodo in un contesto come quello del vecchio continente nel quale il progetto federalista incontro differenze, non solo di natura istituzionale, molto radicate nella struttura profonda delle società coinvolte . Anche il gruppo di esperti sul futuro del welfare europeo nominato dalla Commissione europea nel 2021, nel suo rapporto del Febbraio 2023, sembra optare per questa prospettiva valorizzando le politiche di social investment in settori determinanti per le strategie europee come il contrasto del rischio di esclusione sociale, l’alfabetizzazione digitale della popolazione, il rafforzamento dei processi di formazione connessi ai “nuovi lavori” ed alle nuove competenze per indirizzare le applicazioni dell’IA, le garanzie contro la disoccupazione, un sostegno alle pensioni per le attività precarie o discontinue (pensioni di garanzia) etc. Un progetto che non mira alla costruzione di un meta-sistema unico di sicurezza sociale ma ad orientare in modo determinante quelli nazionali e a mettere in campo l’utilizzo di risorse dell’Unione per promuovere quei settori che sembrano essenziali (beni pubblici europei) per il progresso economico e sociale del vecchio continente.
Difficile, quindi, che si torni indietro: il PEDS si è già insinuato nella governance socio-economica dell’Unione con il suo nucleo più ambizioso dello tensione verso un salario adeguato protetto dall’Unione. Le premesse della direttiva già recavano come premessa istituzionale le linee delle politiche di occupazione per gli anni 20 e 21 sull’aggiornamento dei salari minimi legali e di quelli contrattuali per garantirne l’equità; da Ottobre del 2023 è in vigore il cosiddetto “social convergence mechanism” che attribuisce alla Commissione il compito di vigilare ( e se necessario intervenire) in ordine al rispetto di alcuni obiettivi di carattere sociale come la riduzione del tasso di rischio di povertà, l’incremento del tasso di occupazione, la promozione dei lavori stabili etc. che trovano una cornice complessiva nel disegno garantista del Pilastro. L’Italia è già stata ammonita dalla Commissione per avere ignorato la Raccomandazione del 23.1.2023 sul reddito minimo garantito (che è uno dei diritti del Pilastro oggetto di monitoraggio) estromettendo dai sussidi un titolare su tre del reddito di cittadinanza, dopo la controriforma di fine 2023. Certamente non è ancora chiaro quali possano essere le conseguenze delle forme più gravi di “inadempimento” riscontrate in questo nuova procedura, ma l’allontanamento da obiettivi centrali per la crescita economica “nel progresso” dell’Unione potrebbe, crediamo, portare gli stati più refrattari ad essere esclusi dai Fondi di coesione. Nella proposta di modifica dei Trattati da ultimo votata il 22.11.2023 dal Parlamento europeo si chiede di richiamare il Pilastro e la Carta dei diritti unitariamente nel capitolo sociale dell’Unione e di elaborare un Protocollo di progresso sociale annesso ai Trattati per impedire che i diritti ed i principi del Pilastro siano messi a repentaglio o non adeguatamente valutati dalle politiche sovranazionali.
Il Consiglio sociale tenutosi nel Giugno 2024 a La Hulpe (Belgio) nelle sue conclusioni che cercano già di stabilire una continuità con la prossima legislatura dichiara solennemente che si andrà avanti con il Pilastro e la sua attuazione; la stessa direttiva è autoriflessiva e stabilisce al suo art. 15 che nel 2029 si trarrà un bilancio sull’adeguatezza degli strumenti attuali in vista di un’eventuale rafforzamento legislativo: gli stati che confidassero troppo su controlli affievoliti sulle dinamiche di recepimento e sull’ineffettività della direttiva rischiano di essere smentiti piuttosto seccamente visto la sua centralità nella costruzione di una complessa ed unitaria “ sostenibilità sociale” nel vecchio continente.
4. Direttiva e rispetto dei Trattati Alla luce di questa nuova attenzione alla dimensione sociale dell’Unione che presenta indubbi lati di ordine costituzionale va compresa e risolta la questione del rispetto delle competenze stabilite nei Trattati come noto sollevata dalla Danimarca alla Corte di giustizia che ha impugnato la direttiva. Le fonti internazionali ammettono un salario minimo legale (talune fonti ILO lo prevedono espressamente ) che rappresenta da tempo una politica ufficiale dell’ILO : su 186 aderenti ben 171 stati hanno salari minimi legali. La direttiva mira a realizzare l”adeguatezza” (come si dice persino nel titolo nella direttiva) vale a dire l’idoneità del salario corrisposto a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia una vita libera e dignitosa come precisa la Carta all’art. 34.3 per il reddito minimo garantito, privilegiando il punto 1) dell’art 4 della Carta sociale europea (in un contesto più ampio di attenzione al principio dell’equa retribuzione, per esempio sul lato degli straordinari) che obbliga le parti “a riconoscere il diritto dei lavoratori ad una retribuzione sufficiente tale da garantire ad essi e alle loro famiglie un livello di vita dignitoso”. La “sufficienza” della Carta sociale sembra corrispondere all’adeguatezza della direttiva. Molte delle previsioni generali dell’ordinamento Ue coprono questo obiettivo generale come l’art. 3 del TUE o l’art. 151 TFUE (menzionate nelle premesse) tuttavia il dubbio sulla base giuridica non appare del tutto peregrino perché da un lato la Carta dei diritti non incorpora esplicitamente un diritto all’equa retribuzione in sé, dall’altra l’art 153.5 TFUE esclude che le procedure di approvazione dell’art.153 per introdurre, spesso a maggioranza qualificata, minimi di trattamento non armonizzanti in vasti settori possano riguardare lo sciopero, la retribuzione e rappresentanza. Arcaica eredità del blairismo e di una irrazionale paura dei paesi scandinavi (e di una parte del sindacato europeo) di perdere la loro originalità welfaristica o di vedere ridimensionato il potere di contrattazione delle OOSS, in una forma di eterogenesi dei fini, grazie proprio a provvedimenti che cercano di generalizzare nel vecchio continente il felice modello scandinavo. Si è però scelta da parte della Commissione guidata dall’impavido Commissario lussemburghese alle politiche sociali e dell’occupazione Nicolas Schmit la strada dell’agire sulle “condizioni di lavoro” (il sindacato europeo dopo iniziali perplessità ha appoggiato la proposta, con la contrarietà dei sindacati scandinavi): non c’è alcuna norma, in effetti, che predetermini il livello del salario minimo legale o contrattuale o che indichi la necessità di una efficacia erga omnes dei contratti collettivi sul punto (che semmai sarebbe richiesta in via generale se si vuole che fiorisca il dialogo sociale interno nel processo di recepimento delle direttive); si offre un set di indicatori affidabili e coerenti con la direttiva che recepisce quelli internazionali così come quelli nazionali sempre che siano coerenti con l’obiettivo primario della direttiva che è di portare il lavoratore ad una retribuzione adeguata ai fini di una vita libera e dignitosa, compreso ( cfr. considerando 28) con un indicatore “di resistenza” circa la garanzia dell’accesso ad alcuni beni primari ivi compreso i primari beni di partecipazione culturale, educativa e sociale .
Il tabù del 153.5 del resto non ha natura generale: precisano le sentenze, molto discusse, Viking e Laval del 2007 che il tabù opera solo se si intende utilizzare la speciale procedura del 153 TFUE; il tema delle retribuzioni è entrato da un pezzo nella sfera interpretativa della Corte di giustizia quando la questione delle retribuzioni è correlata ad altri diritti protetti dell’Unione soprattutto in ambito antidiscriminatorio; l’art. 31 della Carta, come già accennato, al suo titoletto (richiamato dalla direttiva) sembrerebbe coprire ogni questione di equità, sia pure di natura essenziale nelle condizioni di lavoro (secondo quanto sostenuto anche da un suo “padre” come Stefano Rodotà): le più gravi violazioni del diritto ad un salario decente sono coerenti con l’uso dell’art. 31 che fa la Corte di giustizia come norma di sintesi delle protezioni della Carta (che ne ha anche predicato l’applicazione diretta), così come il tema dei salari minimi (nazionali) è già oggetto di ampia giurisprudenza in rapporto all’esercizio della libertà di stabilimento.
La Corte per questo ha tutti gli argomenti per ritenere che la direttiva si sia mantenuta nei confini dovuti senza intervenire direttamente a regolare il livello di salari .
5. Problemi italici di recepimento Si premette che l’obiettivo della direttiva, agendo indirettamente nell’ambito delle “condizioni di lavoro”, è certamente molto chiaro: quello di migliorare le condizioni di vita e in particolare l’adeguatezza dei salari minimi (art. 1 direttiva) . Per questo obiettivo si istituisce un quadro di riferimento per a) realizzare l’adeguatezza dei salari minimi legali al fine di conseguire condizioni di vita dignitose; b) la promozione della contrattazione collettiva nella determinazione dei salari, c) il miglioramento dell’accesso effettivo alla tutela del salario minimo ove previsto dal diritto nazionale e/o dal contratto collettivo. Sembra evidente che lo strumentario giuridico individuato nei casi a), b), c) sono funzionali al raggiungimento di retribuzioni “adeguate” che è l’obiettivo della direttiva la quale pone in essere un complesso di misure indirette per raggiungere questa primaria finalità, “pilastro” essenziale del Pilastro sociale, rispettando le tradizioni nazionali senza predeterminare in concreto il livello delle retribuzioni adeguate: l’effetto utile della direttiva va, quindi, valutato sulla base di questo obiettivo.
Se questo è l’intendimento del legislatore europeo appare logico che gli stati nazionali dovrebbero innanzitutto valutare l’idoneità dei loro sistemi nazionali nel produrre negoziazioni retributive coerenti con gli obiettivi della direttiva. Nel caso italiano non vi è dubbio che esista un macroscopico problema retributivo aggravatosi negli anni e segnalato, proprio nel momento in cui si completa questo contributo, dai dati dell’OCSE che evidenziano come l’Italia sia l’ultimo paese nel recupero dei livelli salariali pre-Covid ancora il 6,9% al di sotto contro lo 0,1% della Francia e lo 0,2 5 della Germania. In ogni caso l’OCSE ha da tempo evidenziato che il livello dei salari reali in Italia è decresciuto (unico tra i paesi dell’Organizzazione) negli ultimi trent’anni. Ci si sarebbe, quindi, potuto aspettare che si fosse individuato nel recepimento della direttiva una straordinaria “opportunità” per il restatement del sistema interno che consente di mantenere milioni di lavoratori (secondo alcuni sindacati confederali più di tre milioni) al di sotto del minimo vitale con conseguente espansione della extrema ratio della via giudiziaria attraverso l’efficacia precettiva dell’articolo 36 della Costituzionale . I casi recentemente esaminati dalla Corte di cassazione rendono palese la situazione d’emergenza con salari di 5 euro orari previsti anche da contratti firmati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Lo scandalo della situazione italiana peraltro conduce al paradosso per il quale anche un datore di lavoro che applica quest’ultimi contratti, che dovrebbero godere di un’affidabilità equitativa particolare, può essere condannato per il reato di caporalato di cui all’art. 603 bis c.p. come in un recente caso deciso dalla Corte di cassazione . Invece l’approvazione della direttiva ha provocato un ostinato e diffuso atteggiamento di chiusura ed arroccamento sul sistema in vigore, anche nelle sue più eclatanti anomie, non solo delle parti datoriali ma anche in taluni ambienti sindacali ed accademici pro-labour e, comunque, una generalizzata reazione scettica e seccata, poco incline ad interpretare in senso costruttivo l’impatto delle norme sovranazionali sul precario e caotico sistema italico di relazioni industriali. L’idea che la trasposizione della direttiva possa essere l’occasione per introdurre quelle correzioni necessarie per rendere il nostro sistema di contrattazione collettiva (che la direttiva non mette in crisi direttamente) in grado di rappresentare davvero il vettore per il raggiungimento del fine della direttiva ha, alla fine, ceduto il passo alla formalistica affermazione che, salvo qualche provvedimento per rendere praticabile il monitoraggio dei salari erogati nel “ bel paese”, l’Italia non dovrebbe fare altro perché già conformata in quanto ha un tasso di copertura superiore all’80% indicato dall’art. 4 della direttiva come soglia oltre la quale gli stati (che seguono lo strumento della contrattazione per garantire salari minimi ai lavoratori) non sono tenuti ad elaborare piani d’azione specifici con le parti sociali da comunicarsi alla Commissione .
Non vorrei soffermarmi per ragioni di spazio sul fatto che il primo comma dell’art. 4 della direttiva in ogni caso prescrive specifici comportamenti virtuosi e promozionali a tutti gli stati (quindi non solo quelli che superano la soglia dell’80%) per incrementare il tasso di copertura della contrattazione collettiva ed il ruolo di questa nella determinazione dei salari: si tratta di obblighi promozionali che non sembra l’Italia già preveda . Inoltre, tutt’altro che banale appare la conformazione dell’ordinamento italiano alla parte terza della direttiva sul monitoraggio, stante l’opaco sistema interno di rilevazione dei dati sull’applicazione de facto della contrattazione collettiva. Quest’ultimo aspetto in realtà è un punto molto controverso della discussione in corso nel nostro paese. Che cosa vuol dire copertura? Riassumendo quel che è stato osservato da parte della Dottrina in questi primi mesi di discussione ai fini del raggiungimento della soglia dell’80% non può avere alcun rilievo la giurisprudenza sul “salario costituzionale” perché chiaramente la direttiva presume che i lavoratori godano di un trattamento salariale adeguato solo nei casi in cui la copertura è effettiva e radicata nelle prassi sociali senza la necessità di dover adire un Giudice, per giunta in un sistema nazionale dove alti sono i costi giudiziari e certamente non brevi i tempi di attesa come il nostro. Per accertare il tasso di copertura appaiono non pertinenti i cosiddetti flussi Uniemens che si riferiscono alla sola retribuzione a fini previdenziali dichiarata dal datore mentre sembrerebbe evidente che il legislatore europeo ritenga in linea di principio che la solo diffusione della contrattazione collettiva in tutte le sue voci possa portare complessivamente a trattamenti equi. Questo favor con cui in sé si guarda positivamente all’estensione dei contratti non può riguardare il solo lato previdenziale posto che per il resto il datore di lavoro potrebbe anche non applicare il contratto indicato o anche nessun altro contratto in via di fatto. Ancora si è sottolineato che la copertura dell’80% dovrebbe riguardare in specifico i singoli settori non una media che riguarda la generalità dei lavoratori in quanto la genesi e lo sviluppo della contrattazione collettiva, soprattutto nel nostro paese, è di natura categoriale. Come conteggiare poi la copertura dei “precari” o dei falsi lavoratori autonomi che pur dovrebbero essere tenuti in considerazione?
Vi sono quindi diffusi dubbi su come potremo documentare il superamento della soglia di cui si è parlato ma anche se si convenisse che non abbiano particolari obblighi ex art. 4 rimane la questione se il nostro sistema di contrattazione collettiva, quantomeno per alcuni settori, sia idoneo a raggiungere l’obiettivo primario della direttiva che abbiamo già ricostruito (essendo la diffusione della contrattazione solo un mezzo per raggiungere tali fini). I paesi scandinavi che sono con noi accumunati nel gruppo che si avvale dello strumento della contrattazione collettiva per determinare salari adeguati non hanno il problema italiano dei salari contrattuali al di sotto della soglia vitale.
Se non si introducessero correttivi al sistema attuale certamente potrebbe sorgere la domanda se si stia violando l’effetto utile della direttiva che non può che consistere nel traghettare i paesi membri verso la garanzia di retribuzioni “adeguate”, tenuto conto degli standard indicativi dalla direttiva menzionati nel considerando n. 28 che peraltro si riferiscono a tutti gli stati, non solo a quelli che hanno salari minimi legali. Parte della dottrina riconosce questo aspetto ma sostiene che la direttiva non stabilirebbe comunque sanzioni di sorta, ma questa osservazione non mi pare assorbente perché quando la Corte di giustizia ricorre all’effetto utile spesso si limita ad un accertamento di violazione della direttiva che lo stato, a pena di sanzioni anche successive, dovrà poi rimuovere. È poi certamente configurabile un’azione di danno da parte del lavoratore per non avere lo stato disposto misure necessarie per correggere una dinamica della contrattazione interna incoerente con l’obiettivo della direttiva, sabotandone gli obiettivi de facto.
5.Conclusioni: accettare la sfida dell’innovazione
La “soluzione ponte” meno invasiva mi sembra proprio quella in questi mesi suggerita del limite etero fissato per legge invalicabile dei 9 euro minimi orari ammorbidito da qualche sgravio contributivo nei primi anni di applicazione (che comunque non costituirebbe un aiuto di stato essendo giustificato dal perseguimento di finalità sovranazionali) in modo da dare tempo al sistema di rinnovarsi davvero e di risolvere delicati problemi di misurazione della rappresentatività e di compatibilità con l’art. 39 della Costituzione .
Molto rischioso sarebbe per un paese in difficoltà con i conti pubblici affrontare un giudizio di non conformità piena con la legislazione sovranazionale non solo in sede di Corte di giustizia, ma nella sorveglianza macroeconomica Ue: il nuovo Patto di stabilità certamente offre una maggiore flessibilità agli stati e qualche margine temporale ma il peso del giudizio della Commissione europea sui “piano di risanamento nazionale”, se vogliamo, è persino aumentato. Possiamo permetterci questa sfida?
Un ampio fronte accademico ma anche sociale sta chiedendo da qualche mese che l’Unione, dopo la conclusione del Recovery Plan, accompagni la transizione verde e digitale con un piano di investimenti per realizzare beni pubblici europei attraverso risorse comuni (eurobond) che saranno realizzati- se mai si concretizzerà questa prospettiva- solo con il rispetto di salari minimi adeguati e sostenibili socialmente (già imposti per i progetti del PNRR). In questa prospettiva che si va rafforzando in Europa non può giustificarsi l’ostinazione italiana nel non voler emendare i propri meccanismi di trattamento salariale minimo che consente ancora un’accumulazione da rapina. Si tratta di scegliere per un’economia sociale di mercato che è la formula dei Trattati se si vuole partecipare a piani di sviluppo sovranazionale che sappiano sfruttare, a pieno ed in modo equilibrato, l’innovazione tecnologica. Come hanno scritto Leonardo e Claudio Becchetti in un articolo sul sole24ore del 28 maggio 2024 sulla rigenerazione del lavoro in base al salto tecnologico: “si parla moltissimo negli ultimi tempi nel nostro paese del problema dei salari reali stagnanti negli ultimi tempi a differenza di quanto avvenuto in Germania , Francia, Spagna. L’AI offre una straordinaria opportunità di crescita della produttività, un treno che non possiamo perdere se vogliamo recuperare le distanze”: è giunta, quindi, l’ora di revisionare radicalmente regole bizantine e poco trasparenti che consentono salari in alcuni settori da romanzi di Dickens.

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