testo integrale con note e bibliografia

sent. CGUE 19.12.2024   C-531/2023

1. La sentenza
Con sentenza del 19 dicembre 2024 , la Corte di Giustizia UE ha affermato che la durata dell’orario di lavoro svolto dai collaboratori domestici deve poter essere determinata in modo obiettivo e affidabile; una normativa nazionale ovvero la sua interpretazione da parte dei giudici nazionali ovvero una prassi amministrativa in forza delle quali i datori di lavoro domestico risultino esentati dall’obbligo di istituire un sistema che consenta di misurare la durata dell’orario di lavoro svolto dai collaboratori domestici, privando così questi ultimi della possibilità di determinare in modo obiettivo e affidabile il numero di ore di lavoro effettuate e la loro ripartizione nel tempo, è contraria alla direttiva 2003/88/CE concernente l’organizzazione dell’orario di lavoro , letta alla luce dell’art. 31, paragrafo 2 , della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

2. La questione pregiudiziale
La questione pregiudiziale, posta dal Tribunal Superior de Justicia del País Vasco, interrogava la Corte in ordine all’interpretazione di una serie di norme della direttiva 2003/88/CE sull’organizzazione dell’orario di lavoro, lette alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, della giurisprudenza UE (in particolare, le sentenze della CGUE del 14 maggio 2019, in causa C-55/18 e del 24 febbraio 2022, in causa C-389/2020), della direttiva 2010/41/UE sull’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, della direttiva 2006/54/CE riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, della direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, come ostative alla normativa nazionale che esonera il datore di lavoro dall’obbligo di rilevare l’orario di lavoro della lavoratrice domestica.
Il giudice spagnolo di primo grado (in controversia su licenziamento e differenze retributive) riteneva che la lavoratrice domestica non avesse dimostrato le ore di lavoro effettuate di cui chiedeva il pagamento a titolo di straordinario, non potendo la lavoratrice basarsi unicamente sulla mancata produzione, da parte dei suoi datori di lavoro, di registri giornalieri dell’orario di lavoro effettuato, in quanto la normativa spagnola esenta taluni datori di lavoro, tra i quali i nuclei familiari, dall’obbligo di registrazione dell’orario di lavoro effettivo svolto dai dipendenti.
In appello, veniva prospettato e sollevato il dubbio di compatibilità della normativa nazionale con il diritto dell'Unione.
Dunque, una questione di normativa nazionale (quella che esenta dall’obbligo di registrazione dell’orario di lavoro effettivo prestato i datori di lavoro domestici), inquadrata nei principi di politica sociale dell’Unione europea in materia di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, di organizzazione dell’orario di lavoro, di misurazione della durata dell’orario di lavoro svolto, nello specifico dai collaboratori domestici (in realtà soprattutto collaboratrici domestiche, come rilevato dalla Corte che esamina la questione anche in relazione al divieto di discriminazione tra uomini e donne).

3. Il ragionamento della Corte
Il ragionamento della Corte si muove lungo i seguenti snodi argomentativi:
• ricordate le definizioni della direttiva 2003/88 di orario di lavoro, riposo giornaliero, riposo settimanale, durata massima dell’orario di lavoro, la Corte richiama immediatamente la Direttiva 2006/54 riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, il suo scopo fissato dallì’art.1, consistente nell’ “assicurare l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, in particolare per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla promozione e alla formazione professionale, le condizioni di lavoro, compresa la retribuzione, i regimi professionali di sicurezza sociale”, il divieto di discriminazione diretta o indiretta basata sul sesso e concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, segnatamente per quanto attiene “all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione”;
• esaminate la normativa nazionale e la fattispecie concreta, la Corte osserva che i dubbi in ordine alla compatibilità della normativa nazionale relativa al regime speciale per i collaboratori domestici con il diritto dell’Unione derivano, per i lavoratori a domicilio, dalla situazione che rende difficile la prova dell’orario di lavoro;
• inoltre, in Spagna il gruppo dei collaboratori domestici è composto quasi esclusivamente da persone di sesso femminile;
• il diritto di ciascun lavoratore a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornaliero e settimanale non solo costituisce una norma del diritto sociale dell’Unione che riveste una particolare importanza, ma è anche espressamente sancito all’articolo 31, paragrafo 2, della Carta, cui l’articolo 6, paragrafo 1, TUE riconosce il medesimo valore giuridico dei Trattati;
• la direttiva 2003/88 ha per oggetto la fissazione di prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori mediante un ravvicinamento delle normative nazionali riguardanti, in particolare, la durata dell’orario di lavoro; tale armonizzazione a livello dell’Unione europea in materia di organizzazione dell’orario di lavoro è intesa a garantire una migliore protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori;
• al fine di garantire la piena efficacia della direttiva 2003/88, è pertanto necessario che gli Stati membri garantiscano il rispetto di tali periodi minimi di riposo ed impediscano ogni superamento della durata massima settimanale del lavoro;
• peraltro, gli Stati membri dispongono di un margine di discrezionalità ai fini dell’adozione delle modalità concrete per garantire l’attuazione dei diritti previsti dalla direttiva; tuttavia, tenuto conto dell’obiettivo essenziale perseguito dalla direttiva. consistente nel garantire una protezione efficace delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, e una migliore tutela della loro sicurezza e della loro salute, gli Stati membri sono tenuti a garantire che l’effetto utile di tali diritti sia integralmente assicurato in concreto, rispetto ai periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale e al limite massimo della durata media settimanale di lavoro come previsti dalla direttiva;
• dunque, se spetta agli Stati membri definire le modalità concrete di attuazione di un sistema che consenta di misurare la durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore, tenendo conto, se del caso, delle specificità proprie di ogni settore di attività interessato, queste modalità non devono, in nessun caso, essere tali da svuotare di contenuto i diritti alla limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite sanciti all’art. 31.2 della Carta;
• il lavoratore (lavoratrice) è la parte debole nel rapporto di lavoro; tale situazione di debolezza può dissuaderlo (dissuaderla) dal far valere espressamente i suoi diritti nei confronti del datore di lavoro, dal momento che la loro rivendicazione potrebbe esporre a misure adottate da quest’ultimo in grado di incidere in danno sul rapporto di lavoro;
• in assenza dell’istituzione di un sistema che consenta di misurare in modo obiettivo e affidabile sia il numero di ore di lavoro effettuate e la loro ripartizione nel tempo, sia il numero di ore di lavoro straordinario, per i lavoratori risulta eccessivamente difficile, se non impossibile in pratica, far rispettare i diritti previsti dall’art. 31.2 della Carta e dalla direttiva 2003/88;
• il fatto di consentire al lavoratore di ricorrere ad altri mezzi di prova al fine di fornire indizi di una violazione dei suoi diritti e di invertire l’onere della prova non è sufficiente per stabilire in modo obiettivo e affidabile il numero di ore di lavoro;
• per questo, la Corte aveva già dichiarato, nella sentenza del 14 maggio 2019 (C 55/18), che la direttiva 2003/88 ostava alla normativa spagnola allora in vigore e all’interpretazione di quest’ultima da parte degli organi giurisdizionali nazionali, secondo cui i datori di lavoro non erano obbligati ad istituire un sistema che consentisse di misurare la durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore;
• il legislatore spagnolo aveva proceduto, con il regio decreto-legge 8/2019, a una modifica dello Statuto dei lavoratori, introducendo un obbligo generale, a carico dei datori di lavoro, di istituire un sistema di registrazione dell’orario di lavoro effettivo svolto da ciascun lavoratore;
• per quanto riguarda i collaboratori domestici, anche considerate specifiche difficoltà interpretative e applicative della normativa come modificata, occorre procedere a un’interpretazione conforme alla luce del tenore letterale e della finalità della direttiva, onde conseguire il risultato fissato da quest’ultima;
• ne consegue che un sistema che obblighi i datori di lavoro a misurare la durata dell’orario di lavoro giornaliero di ciascun collaboratore domestico può prevedere, in ragione delle peculiarità del settore del lavoro domestico, talune deroghe per quanto riguarda le ore di straordinario e il lavoro a tempo parziale, purché queste ultime non svuotino di contenuto la normativa di cui trattasi, circostanza la cui verifica spetta al giudice del rinvio;
• spetta al giudice del rinvio anche verificare se la situazione in questione costituisca anche una discriminazione indiretta fondata sul sesso, ossia se ricorra differenza di trattamento nella categoria della manodopera femminile rientrante nell’ambito di applicazione della normativa scrutinata, dato che l’interpretazione giurisprudenziale di una disposizione nazionale o di una prassi amministrativa, in forza delle quali i datori di lavoro sono esonerati dall’obbligo di istituire un sistema che consenta di misurare la durata dell’orario di lavoro di ciascun collaboratore domestico, svantaggerebbe particolarmente i lavoratori di sesso femminile rispetto ai lavoratori di sesso maschile;

4. Il principale precedente
Nella causa C-55/18, decisa con sentenza del 14 maggio 2019 , il sindacato spagnolo Federación de Servicios de Comisiones Obreras (CC.OO.) aveva richiesto al giudice nazionale la pronuncia di una sentenza che dichiarasse l’obbligo a carico di una banca di istituire un sistema di registrazione dell’orario di lavoro giornaliero svolto dal suo personale, anche in relazione all’obbligo, previsto dalla normativa nazionale, di trasmettere ai rappresentanti sindacali le informazioni relative alle ore di lavoro straordinario effettuate mensilmente.
I dubbi sollevati in quella controversia sulla conformità al diritto dell’Unione riguardavano l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza nazionale, che non imponeva ai datori di lavoro l’obbligo di istituire un sistema che consentisse la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore con oggettività e affidabilità, rendendo eccessivamente difficile per i lavoratori (se non impossibile in pratica) far rispettare i loro diritti.
Secondo la Corte UE, dato che la determinazione oggettiva e affidabile del numero di ore di lavoro giornaliero e settimanale è essenziale per stabilire se la durata massima settimanale di lavoro comprendente le ore di lavoro straordinario e i periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale siano stati rispettati, una normativa nazionale che non prevede l’obbligo di ricorrere a uno strumento che consente tale determinazione non è idonea a garantire l’effetto utile dei diritti conferiti dalla Carta e dalla direttiva sull’orario di lavoro, poiché essa priva sia i datori di lavoro sia i lavoratori della possibilità di verificare se tali diritti sono rispettati, compromettendo l’obiettivo della direttiva consistente nel garantire una migliore protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori.
Proprio al fine di assicurare l’effetto utile dei diritti previsti dalla direttiva sull’orario di lavoro e dalla Carta, gli Stati membri devono imporre ai datori di lavoro l’obbligo di istituire un sistema oggettivo, affidabile e accessibile che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore, spettando agli Stati membri definire le modalità concrete di attuazione di un siffatto sistema.

5. Quale applicazione nel diritto italiano?

Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, la nozione di orario di lavoro è nettamente binaria; l’orario di lavoro si contrappone al riposo, non c’è un terzo genere.
Nella legislazione e giurisprudenza dell’Unione europea, recepita nella legislazione italiana, si è giunti a un approdo chiaramente binario, in termini di dicotomia tra orario di lavoro e periodo di riposo, senza nozioni intermedie; la direttiva 2003/88 ha come obiettivo quello di fissare prescrizioni minime destinate a migliorare la tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, obiettivo che viene raggiunto, tra l’altro, mediante il ravvicinamento delle disposizioni nazionali riguardanti l’orario di lavoro, quale elemento chiave nella costruzione del diritto sociale europeo e nell’attuazione dell’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali .
Le nozioni di «orario di lavoro» e di «periodo di riposo», ai sensi della direttiva 2003/88, costituiscono nozioni di diritto dell’Unione che occorre definire secondo criteri oggettivi .
Più articolate possono risultare le conseguenze sulla retribuzione, che non necessariamente si riflette in lavoro straordinario, potendo essere previste indennità o forme di retribuzione specifiche in relazione alle prestazioni richieste (ad esempio di attesa o di reperibilità) , e ferma restando la specialità del settore del trasporto.
In quest’ottica, ed in quella del principio di non discriminazione, si pone la necessità di valutare la prova dell’orario di lavoro domestico.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di lavoro straordinario è piuttosto stabile nell’ affermare che sul lavoratore che chieda in via giudiziale il compenso per lavoro straordinario grava un onere probatorio rigoroso, che esige il preliminare adempimento dell'onere di una specifica allegazione del fatto costitutivo, senza che al mancato assolvimento di entrambi possa supplire la valutazione equitativa del giudice .
D’altra parte, non compete al lavoratore l’allegazione e prova, ad esempio, del mancato godimento di riposi compensativi, quale fatto estintivo del diritto, il cui onere di allegazione e prova incombe su chi lo eccepisce .
Inoltre, in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, l'art. 40 del d.lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità) stabilisce un'attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, che è tenuta solo a dimostrare un'ingiustificata differenza di trattamento o una posizione di particolare svantaggio, dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge, competendo poi al datore la prova dell'assenza di discriminazione , in applicazione del generale principio di diritto processuale antidiscriminatorio secondo cui i criteri di riparto dell'onere probatorio sono quelli speciali di cui all'art. 4 del d.lgs. 216/2003, che non stabiliscono un'inversione dell'onere probatorio, ma comunque un'agevolazione del regime probatorio .
Quello che la giurisprudenza CGUE richiede è l’affidabilità della misurazione dell’orario e l’effetto utile della direttiva alla luce della Carta, cioè la protezione di salute e sicurezza dei lavoratori e la garanzia di condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose.

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.