Testo Integrale con note e bibliografia
SOMMARIO: 1.- Introduzione. 2.- La sentenza della Grande Sezione in data 6 novembre 2018 nella causa C-619/16. 3.- La sentenza della Grande Sezione in data 6 novembre 2018 nella causa C-684/16. 4.- La sentenza della Grande Sezione in data 6 novembre 2018 nelle cause riunite C-569/16 e C 570/16. 5.- La sentenza della Quarta Sezione del 13 dicembre 2018, nella causa C-385/17. 6.- La sentenza della Grande Sezione 4 ottobre 2018, nella causa C-12/17. 7.- sentenza della Grande Sezione 20 novembre 2018, nella causa C-147/07. 8.- sentenza della Prima Sezione 21 novembre 2018, nella causa C-245/17. 9.- Osservazioni. 9.1.- Il lavoratore è parte debole del rapporto di lavoro. 9.2.- Oneri del datore di lavoro e del lavoratore. 9.3.- Il diritto alle ferie retribuite come pilastro del diritto sociale dell’Unione europea. 9.4.- Il diritto alle ferie retribuite come diritto di ogni lavoratore dipendente sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 9.5.- Interpretazione conforme al diritto UE e disapplicazione della normativa nazionale contraria al diritto UE.
1.- Introduzione
Sul finire dell’anno 2018 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha emesso sette interessanti sentenze ‒ di cui cinque della Grande Sezione ‒ in materia di diritto di ogni lavoratore pubblico e privato alle ferie annuali retribuite.
Quattro di tali sentenze ‒ precisamente: le tre sentenze della Grande Sezione in data 6 novembre 2018, rispettivamente nella causa C-619/16, nella causa C-684/16, nelle cause riunite C-569/16 e C 570/16 nonché la sentenza della Quarta Sezione del 13 dicembre 2018, nella causa C-385/17 ‒ sono state originate da casi verificatisi in Germania e sono state incentrate sull’interpretazione, sotto differenti profili, dell’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro con l’affermazione di importanti principi in materia.
Con la sentenza della Grande Sezione 4 ottobre 2018, nella causa C-12/17 la Corte ha ritenuto compatibile con l’art. 7 della direttiva 2003/88/CE la normativa rumena che, nel determinare la durata delle ferie del lavoratore, non considera il periodo di congedo parentale per un figlio fino ai due anni di età come periodo di lavoro effettivo.
La sentenza della Grande Sezione 20 novembre 2018, nella causa C-147/07 si è occupata, in riferimento ad un altro caso rumeno, dell’interpretazione del combinato disposto dell’art. 1, paragrafo 3, della citata direttiva 2003/88/CE con l’art. 2, paragrafo 2, della direttiva 89/391/CEE, in riferimento al modo di atteggiarsi del diritto alle ferie annuali in favore della figura dell’assistente genitoriale, la cui attività consiste, nell’ambito di un rapporto di lavoro con un’autorità pubblica, nell’accogliere e integrare un minore nel proprio nucleo familiare e nel provvedere, continuativamente, allo sviluppo armonioso e all’educazione di tale minore.
Infine la sentenza della Prima Sezione 21 novembre 2018, nella causa C-245/17, con riferimento ad un caso spagnolo, si è fra l’altro pronunciata, sempre in riferimento al citato art. 7, paragrafo 2, sul diritto alle ferie dei docenti di scuola assunti con rapporto di lavoro a tempo determinato per un anno scolastico in qualità di funzionari ad interim.
Si tratta di sentenze di grande rilievo sia perché contengono importanti affermazioni sul diritto del lavoratore subordinato alle ferie annuali retribuite e sui conseguenti oneri a carico del datore di lavoro e del lavoratore (pubblico e/o privato) sia per il percorso argomentativo seguito che è di grande rilevanza, specialmente per i passaggi che riguardano l’effetto diretto da riconoscere all’art. 7, della direttiva 2003/88 cit. e il ruolo da attribuire, ai fini interpretativi, all’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali UE (d’ora in poi Carta UE).
In questa sede ci si propone di illustrare sinteticamente i principi che si considerano di maggiore importanza affermati in tali decisioni e di effettuare alcune osservazioni conclusive a proposito di alcuni di tali principi.
2.- La sentenza della Grande Sezione in data 6 novembre 2018 nella causa C-619/16.
Nella presente sentenza la Corte è stata chiamata ad esaminare due questioni pregiudiziali sottopostele dal Tribunale amministrativo superiore di Berlino Brandeburgo, in un procedimento avente ad oggetto il riconoscimento del diritto di un tirocinante in materie giuridiche presso il Land di Berlino ad ottenere un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute all’atto di cessazione del rapporto di formazione di diritto pubblico in argomento.
Queste le questioni pregiudiziali proposte:
«1) se l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva [2003/88] debba essere interpretato nel senso che osti a disposizioni o prassi nazionali in base alle quali il diritto al riconoscimento di un’indennità pecuniaria all’atto dell’interruzione del rapporto di lavoro sia escluso qualora il lavoratore, pur potendo, non abbia presentato alcuna domanda di concessione di ferie annuali retribuite;
2) se l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva [2003/88] debba essere interpretato nel senso che osti a disposizioni o prassi nazionali per effetto delle quali il diritto al riconoscimento di un’indennità pecuniaria all’atto dell’interruzione del rapporto di lavoro presupponga che il lavoratore non abbia potuto far valere, prima dell’interruzione, il proprio diritto alle ferie annuali retribuite per ragioni indipendenti dalla propria volontà».
La Corte ha risposto alla prima questione affermando che:
l’art. 7 della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, nei limiti in cui essa implichi che, se il lavoratore non ha chiesto, prima della data di cessazione del rapporto di lavoro, di poter esercitare il proprio diritto alle ferie annuali retribuite, l’interessato perde – automaticamente e senza previa verifica del fatto che egli sia stato effettivamente posto dal datore di lavoro in condizione di esercitare il proprio diritto alle ferie prima di tale cessazione, segnatamente con un’informazione adeguata da parte del datore di lavoro stesso – i giorni di ferie annuali retribuite cui aveva diritto ai sensi del diritto dell’Unione alla data di tale cessazione e, correlativamente, il proprio diritto a un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute.
Di conseguenza la Corte ha ritenuto non necessario rispondere alla seconda questione.
Alla suddetta conclusione la Corte è pervenuta principalmente sulla base delle seguenti argomentazioni:
a) il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88 (vedi, in tal senso, sentenza del 12 giugno 2014, C-118/13, punto 15 e giurisprudenza ivi citata);
b) il suddetto diritto non solo riveste, in qualità di principio del diritto sociale dell’Unione, una particolare importanza, ma è anche espressamente sancito all’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cui l’art. 6, paragrafo 1, TUE riconosce il medesimo valore giuridico dei Trattati (sentenza del 30 giugno 2016, C 178/15, punto 20 e giurisprudenza ivi citata);
c) l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, in particolare, riconosce al lavoratore il diritto a un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti e dalla giurisprudenza della Corte emerge che tale norma deve essere interpretata nel senso che essa osta a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in grado di fruire di tutti le ferie annuali cui aveva diritto prima della cessazione di tale rapporto di lavoro, in particolare perché era in congedo per malattia per l’intera durata o per una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto (sentenze del 20 gennaio 2009, C 350/06 e C 520/06, punto 62; del 12 giugno 2014, C 118/13, punto 17 e giurisprudenza ivi citata; del 20 luglio 2016, C 341/15, punto 31, nonché del 29 novembre 2017, C 214/16, punto 65);
d) la Corte ha inoltre dichiarato che l’art. 7 della direttiva 2003/88 non può essere interpretato nel senso che il diritto alle ferie annuali retribuite e, pertanto, quello all’indennità finanziaria di cui al paragrafo 2 di detto art. possano estinguersi a causa del decesso del lavoratore, in quanto se l’obbligo di pagamento di una simile indennità dovesse estinguersi a causa della fine del rapporto di lavoro dovuta a decesso del lavoratore, tale circostanza avrebbe la conseguenza che un avvenimento fortuito comporterebbe retroattivamente la perdita totale del diritto stesso alle ferie annuali retribuite, quale sancito dal suddetto art. 7 (vedi, in tal senso, sentenza del 12 giugno 2014 C 118/13, punti 25, 26 e 30);
e) infatti, secondo costante giurisprudenza, l’art. 7 della direttiva 2003/88 non può essere oggetto di interpretazione restrittiva a scapito dei diritti che il lavoratore trae da questa (vedi, in tal senso, sentenza del 12 giugno 2014, C 118/13, punto 22 e giurisprudenza ivi citata), rispondendo all’intento di garantire l’osservanza del diritto fondamentale del lavoratore alle ferie annuali retribuite sancito dal diritto dell’Unione;
f) è altresì importante ricordare che il pagamento delle ferie prescritto al paragrafo 1 di tale articolo è volto a consentire al lavoratore di fruire effettivamente delle ferie cui ha diritto (vedi, in tal senso, sentenza del 16 marzo 2006, C 131/04 e C 257/04, punto 49), per la duplice finalità sia di riposarsi rispetto all’esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo contratto di lavoro sia di beneficiare di un periodo di relax e svago (sentenza del 20 luglio 2016, C 341/15, punto 34 e giurisprudenza ivi citata);
g) di conseguenza, gli incentivi datoriali a rinunciare alle ferie come periodo di riposo ovvero a sollecitare i lavoratori a rinunciarvi sono incompatibili con gli obiettivi del diritto alle ferie annuali retribuite consistenti nella necessità di garantire al lavoratore il beneficio di un riposo effettivo, per assicurare una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute (vedi, in tal senso, sentenze del 6 aprile 2006, C-124/05, punto 32; del 29 novembre 2017, C-214/16, punto 39 e giurisprudenza ivi citata);
h) l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale recante modalità di esercizio del diritto alle ferie annuali retribuite espressamente accordato da tale direttiva, che comprenda finanche la perdita del diritto in questione allo scadere del periodo di riferimento o di un periodo di riporto, purché, però, il lavoratore che ha perso il diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare il diritto medesimo (sentenza del 20 gennaio 2009 C-350/06 e C-520/06, punto 43 e giurisprudenza ivi citata);
i) invece non è compatibile con il suddetto art. 7 una normativa nazionale che preveda una perdita automatica del diritto alle ferie annuali retribuite, non subordinata alla previa verifica che il lavoratore abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare tale diritto, infatti il lavoratore deve essere considerato la parte debole nel rapporto di lavoro, cosicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di imporgli una restrizione dei suoi diritti;
l) in considerazione di tale situazione di debolezza, il lavoratore può essere dissuaso dal far valere espressamente i suoi diritti nei confronti del suo datore di lavoro, dal momento, in particolare, che la loro rivendicazione potrebbe esporlo a misure adottate da quest’ultimo in grado di incidere sul rapporto di lavoro in danno di detto lavoratore (vedi, in tal senso, sentenza del 25 novembre 2010, C-429/09, punti 80 e 81 e giurisprudenza ivi citata);
m) benché il rispetto dell’obbligo derivante, per il datore di lavoro, dall’art. 7 della direttiva 2003/88 non possa estendersi fino al punto di costringere quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente il loro diritto a ferie annuali retribuite (vedi, in tal senso, sentenza del 7 settembre 2006, C-484/04, punto 43), comunque il datore di lavoro deve assicurarsi che il lavoratore sia messo in condizione di esercitare tale diritto (vedi, in tal senso, sentenza del 29 novembre 2017, C-214/16, punto 63);
n) a tal fine il datore di lavoro è soprattutto tenuto ‒ in considerazione del carattere imperativo del diritto alle ferie annuali retribuite e al fine di assicurare l’effetto utile dell’art. 7 della direttiva 2003/88 ‒ ad assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia posto effettivamente in grado di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo – in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e il relax cui esse sono volte a contribuire – del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato o, ancora, alla cessazione del rapporto di lavoro se quest’ultima si verifica nel corso di un simile periodo;
o) l’onere della prova, in proposito, incombe sul datore di lavoro (v., per analogia, sentenza del 16 marzo 2006, C-131/04 e C-257/04, punto 68);
p) pertanto se il datore di lavoro non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore fosse effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto, si deve ritenere che l’estinzione del diritto a tali ferie e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il correlato mancato versamento di un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute violino, rispettivamente, l’art. 7, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88. Se, invece, detto datore di lavoro è in grado di assolvere il suddetto onere probatorio e risulti quindi che il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle medesime, l’art. 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2003/88 non osta alla perdita di tale diritto né, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla correlata mancanza di un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute;
q) ciò in quanto un’interpretazione dell’art. 7 della direttiva 2003/88 che sia tale da incentivare il lavoratore ad astenersi deliberatamente dal fruire delle proprie ferie annuali retribuite durante i periodi di riferimento o di riposo autorizzato applicabili, al fine di incrementare la propria retribuzione all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, sarebbe incompatibile con gli obiettivi perseguiti con l’istituzione del diritto alle ferie annuali retribuite.
Nel caso di specie, dalla decisione di rinvio emergeva che la normativa nazionale applicabile alla controversia principale non contiene disposizioni che prevedano il versamento ai tirocinanti in materie giuridiche di un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute alla fine del loro rapporto di lavoro.
Pertanto, come rilevato dal giudice del rinvio, all’accoglimento della domanda del ricorrente nel procedimento principale, diretta alla concessione di una simile indennità, si sarebbe potuto pervenire solo nei limiti in cui all’interessato fosse consentito di proporla direttamente sulla base dell’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88.
Al riguardo, la Corte rileva che, per la propria costante giurisprudenza:
a) in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiono, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i privati possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato membro, vuoi qualora esso abbia omesso di trasporre la direttiva in diritto nazionale entro i termini, vuoi qualora l’abbia recepita in modo non corretto (sentenza del 24 gennaio 2012, C-282/10, punto 33 e giurisprudenza ivi citata);
b) i privati, qualora siano in grado di far valere una direttiva nei confronti di uno Stato, possono farlo indipendentemente dalla veste, di datore di lavoro o di pubblica autorità, nella quale esso agisce, in quanto in entrambi i casi è necessario evitare che lo Stato possa trarre vantaggio dalla sua inosservanza del diritto dell’Unione (sentenza del 24 gennaio 2012, C-282/10, cit. punto 38 e giurisprudenza ivi citata).
Per quanto riguarda l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, dalla giurisprudenza della Corte si desume che tale disposizione non assoggetta il diritto a un’indennità finanziaria ad alcuna condizione diversa da quella relativa, da un lato, alla cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, al mancato godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali a cui aveva diritto alla data in cui detto rapporto è cessato. Tale diritto è conferito direttamente dalla suddetta direttiva e non può dipendere da condizioni diverse da quelle che vi sono esplicitamente previste (v., in tal senso, sentenze del 12 giugno 2014, C-118/13, punti 23 e 28, e del 20 luglio 2016, C-341/15, punto 27).
Si afferma, pertanto che tale disposizione soddisfa i criteri di incondizionalità e di sufficiente precisione e rispetta quindi le condizioni richieste per produrre un effetto diretto, aggiungendosi che, con orientamento consolidato, la Corte ha ammesso che simili disposizioni di una direttiva possano essere invocate dai privati, in particolare, nei confronti di uno Stato membro e di tutti gli organi della sua amministrazione, ivi comprese autorità decentrate (vedi, in tal senso, sentenza del 7 agosto 2018, C-122/17, punto 45 e giurisprudenza ivi citata) .
Di qui la conclusione secondo cui, potendo il citato art. 7, paragrafo 2, produrre un effetto diretto, nel caso di specie il ricorrente può ottenere, sul fondamento diretto dell’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, l’indennità richiesta a carico del suo ex datore di lavoro, il Land di Berlino, nella sua veste di autorità pubblica, senza che rilevi in contrario che la normativa nazionale applicabile non preveda il versamento di una simile indennità. Pertanto, a condizione che sia accertato che il ricorrente soddisfa i requisiti stabiliti dall’indicata disposizione, i giudici nazionali saranno tenuti a disapplicare le normative o prassi nazionali che ostino al conseguimento di una simile indennità.
3.- La sentenza della Grande Sezione in data 6 novembre 2018 nella causa C-684/16.
I principi affermati nella precedente sentenza sono stati approfonditi in modo molto significativo nella sentenza C-684/16, nella quale la Corte ha esaminato due questioni sottopostele dalla Corte federale del lavoro tedesca, in un procedimento avente ad oggetto il riconoscimento del diritto ad ottenere un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute all’atto di cessazione del rapporto di lavoro a termine disciplinato dal contratto collettivo per il pubblico impiego di un dipendente della società Max Planck (ente tedesco di ricerca scientifica, che secondo il giudice del rinvio va configurato come organizzazione di diritto privato senza scopo di lucro, in quanto pur se finanziato, prevalentemente, con fondi pubblici, tuttavia non dispone di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra privati, di modo che essa dovrebbe essere considerata, ai fini che qui interessano, come un soggetto privato).
Queste le questioni pregiudiziali:
1) se l’art. 7, della direttiva [2003/88] o l’art. 31, paragrafo 2, della [Carta] ostino a una normativa nazionale, come quella di cui all’art. 7 del [BUrlG], che, nel disciplinare le modalità di esercizio del diritto alle ferie annuali, prevede che il lavoratore debba farne richiesta indicando le proprie preferenze quanto alla collocazione temporale delle stesse affinché il relativo diritto non si estingua, senza riconoscimento di alcuna indennità sostitutiva, al termine del periodo di riferimento, non ponendo a carico del datore di lavoro l’onere di fissare, unilateralmente e in maniera vincolante per il lavoratore, la collocazione temporale delle ferie nel periodo di riferimento;
2) in caso di risposta affermativa alla prima questione: se lo stesso principio valga nel caso di rapporto di lavoro tra soggetti privati.
In altri termini, muovendo dalla premessa che la società datrice di lavoro sia da considerare come un soggetto privato, la Corte federale ha chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire se l’art. 7 della direttiva 2003/88 o l’art. 31, paragrafo 2, della Carta producano un eventuale effetto diretto nei rapporti tra privati.
La Corte di Giustizia ha risposto alla prima questione affermando che:
l’art. 7 della direttiva 2003/88 e l’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali UE devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale, come quella discussa nel procedimento principale, in applicazione della quale, se il lavoratore non ha chiesto, nel corso del periodo di riferimento, di poter esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite, detto lavoratore perde, al termine di tale periodo – automaticamente e senza previa verifica del fatto che egli sia stato effettivamente posto dal datore di lavoro in condizione di esercitare questo diritto, segnatamente con un’informazione adeguata da parte del datore di lavoro stesso – i giorni di ferie annuali retribuite maturati per tale periodo ai sensi delle suddette disposizioni, e, correlativamente, il proprio diritto a un’indennità finanziaria per dette ferie annuali non godute in caso di cessazione del rapporto di lavoro. Il giudice del rinvio è, a tale riguardo, tenuto a verificare, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo complesso e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, se gli sia possibile pervenire a un’interpretazione di tale diritto che sia in grado di garantire la piena effettività del diritto dell’Unione.
Alla seconda questione la Corte ha risposto dichiarando che:
“qualora sia impossibile interpretare una normativa nazionale come quella discussa nel procedimento principale in modo da garantirne la conformità all’art. 7 della direttiva 2003/88 e all’art. 31, paragrafo 2, della Carta, deriva da quest’ultima disposizione che il giudice nazionale, investito di una controversia tra un lavoratore e il suo ex datore di lavoro avente qualità di privato, deve disapplicare tale normativa nazionale e assicurarsi che, ove detto datore di lavoro non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore fosse effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto ai sensi del diritto dell’Unione, il lavoratore medesimo non possa essere privato dei diritti da lui maturati a dette ferie annuali retribuite, né, correlativamente, e in caso di cessazione del rapporto di lavoro, essere privato dell’indennità finanziaria per le ferie non godute, il cui pagamento è direttamente a carico, in tal caso, del datore di lavoro interessato”.
Alla suddetta conclusione la Corte è pervenuta ribadendo, in primo luogo, i principi generali già enunciati nella sentenza C-619/16 a proposito: a) della duplice configurazione del diritto alle ferie annuali retribuite come diritto sociale dell’Unione ‒ al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88, che (vedi, in tal senso, sentenza del 12 giugno 2014, C-118/13, punto 15 e giurisprudenza ivi citata) ‒ ma anche come diritto fondamentale riconosciuto dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta UE; b) della previsione da parte dell’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 del diritto del lavoratore a un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti, diritto che è assoggettato esclusivamente alla duplice condizione, da un lato, della cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, del mancato godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali cui aveva diritto alla data in cui detto rapporto è cessato; c) della non estinguibilità a causa del decesso del lavoratore del diritto alle ferie annuali retribuite e, pertanto, quello all’indennità finanziaria di cui al paragrafo 2 dell’art. 7 cit.; d) della irrilevanza, ai fini dell’applicazione dell’art. 7 cit., delle circostanze all’origine della mancata fruizione delle ferie annuali retribuite da parte di un lavoratore; e) della possibilità per gli Stati membri, di definire nella loro normativa interna, le condizioni di esercizio e di attuazione di detto diritto alle ferie annuali retribuite, precisando le circostanze concrete in cui i lavoratori possono avvalersene (sentenza del 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punto 28 e giurisprudenza ivi citata), prevedendo eventualmente anche la perdita del diritto in questione allo scadere del periodo di riferimento o di un periodo di riporto, purché, però, il lavoratore che ha perso il diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare questo diritto conferito dalla menzionata direttiva (sentenza del 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punto 43); f) della violazione dei limiti imposti imperativamente agli Stati membri (quando essi precisano le modalità di esercizio del diritto in oggetto) costituita dalla previsione della perdita automatica del diritto alle ferie annuali retribuite, non subordinata alla previa verifica che il lavoratore abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare tale diritto, essendo necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di imporre al lavoratore ‒ parte debole del rapporto ‒ una restrizione dei propri diritti; g) del conseguente onere per il datore di lavoro di assicurarsi che il lavoratore sia messo in condizione di esercitare il diritto alle ferie annuali (vedi, in tal senso, sentenza del 29 novembre 2017, C-214/16, punto 63), pur non derivando dall’art. 7 della direttiva 2003/88 l’obbligo datoriale di imporre ai dipendenti di esercitare effettivamente il loro diritto a ferie annuali retribuite (vedi, in tal senso, sentenza del 7 settembre 2006, C-484/04, punto 43); h) dell’incompatibilità con gli obiettivi perseguiti dalla direttiva in oggetto di un’interpretazione dell’art. 7 cit. che sia tale da incentivare il lavoratore ad astenersi deliberatamente dal fruire delle proprie ferie annuali retribuite durante i periodi di riferimento o di riporto autorizzato applicabili, al fine di incrementare la propria retribuzione all’atto della cessazione del rapporto di lavoro.
Sulla base di queste premesse, la CGUE ha affermato importanti ‒ e innovativi ‒ principi per quanto riguarda l’efficacia da attribuire all’art. 31, paragrafo 2, della Carta UE.
Al riguardo la Corte ‒ sulla base della propria costante giurisprudenza secondo cui i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione sono applicabili in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione (vedi spec. sentenza del 15 gennaio 2014 C-176/12, punto 42 e giurisprudenza ivi citata) ‒ ha, in primo luogo, confermato l’applicabilità dell’art. 31, paragrafo 2, della Carta cit. al procedimento principale, visto che la normativa nazionale di cui si discuteva in tale procedimento è una normativa di attuazione della direttiva 2003/88.
Detto questo la Corte ‒ dopo aver sottolineato che dalla formulazione stessa dell’art. 31, paragrafo 2, della Carta UE si desume che esso sancisce il «diritto» di ogni lavoratore a «ferie annuali retribuite» ‒ afferma che, secondo le spiegazioni relative all’art. 31 della Carta ‒ che, conformemente all’art. 6, paragrafo 1, terzo comma, TUE e all’art. 52, paragrafo 7, di detta Carta, devono essere tenute in debito conto per l’interpretazione di quest’ultima ‒ l’art. 31, paragrafo 2, della Carta si ispira alla direttiva 93/104 nonché all’art. 2 della Carta sociale europea, firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e riveduta a Strasburgo il 3 maggio 1996, e al punto 8 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata nella riunione del Consiglio europeo che ha avuto luogo a Strasburgo il 9 dicembre 1989 (sentenza del 19 settembre 2013, C-579/12, punto 27).
Come risulta dal suo considerando 1 la direttiva 2003/88 ha codificato la direttiva 93/104 e l’art. 7 di tale direttiva, riguardante il diritto alle ferie annuali retribuite, riproduce esattamente il testo dell’art. 7 della direttiva 93/104 (sentenza del 19 settembre 2013, C-579/12, punto 28).
Ne deriva che il principio enunciato nell’art. 7 della direttiva 2003/88 ‒ secondo cui il diritto alle ferie annuali retribuite non può estinguersi alla fine del periodo di riferimento e/o del periodo di riporto fissato dal diritto nazionale, quando il lavoratore non è stato posto in condizione di beneficiare delle sue ferie (vedi, in tal senso, sentenza del 29 novembre 2017, C 214/16, punto 56) ‒ deve essere letto alla luce dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta. Pertanto gli Stati membri possono apportare eventuali limitazioni al diritto alle ferie annuali retribuite sancito come diritto fondamentale dall’art. 31, paragrafo 2 cit. solamente rispettando le rigorose condizioni previste all’art. 52, paragrafo 1, della Carta medesima e, in particolare, il contenuto essenziale del diritto in oggetto.
Tali considerazioni portano alla conclusione che sia l’art. 7 della direttiva 2003/88 sia, con riferimento alle situazioni che rientrano nell’ambito di applicazione della Carta, l’art. 31, paragrafo 2, della medesima devono essere interpretati nel senso che:
1) ostano a una normativa nazionale in applicazione della quale la circostanza che un lavoratore non abbia chiesto, durante il periodo di riferimento, di poter esercitare il proprio diritto alle ferie annuali retribuite maturato ai sensi di tali disposizioni comporta l’automatica conseguenza – senza, quindi, previa verifica del fatto che egli sia stato effettivamente posto in condizione di esercitare tale diritto – che detto lavoratore perde il beneficio del diritto in parola e, correlativamente, il proprio diritto a un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute in caso di cessazione del rapporto di lavoro;
2) non ostano a una normativa nazionale prevedente la perdita di tale diritto oppure, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, della correlata indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute nell’ipotesi in cui il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle medesime, non essendo il datore di lavoro tenuto a imporre al dipendente di esercitare effettivamente il diritto in oggetto.
Nella specie, la Corte afferma che è compito del giudice del rinvio verificare se la normativa nazionale di cui si tratta possa essere interpretata conformemente all’art. 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2003/88 e all’art. 31, paragrafo 2, della Carta.
A tale proposito la CGUE ricorda che, secondo la propria costante giurisprudenza, i giudici nazionali, nell’applicare il diritto interno, sono tenuti a interpretarlo per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva di cui si tratta, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288, terzo comma, TFUE (sentenza del 24 gennaio 2012, C-282/10, punto 24 e giurisprudenza ivi citata).
Il principio dell’interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti del loro potere, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva in oggetto e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima (sentenza del 24 gennaio 2012, C-282/10, punto 27 e giurisprudenza ivi citata) .
La suddetta esigenza dell’interpretazione conforme include in particolare l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva. Pertanto, un giudice nazionale non può validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata costantemente interpretata in un senso che è incompatibile con tale diritto (sentenza del 17 aprile 2018, C-414/16, punti 72 e 73 e giurisprudenza ivi citata).
Quanto alla seconda questione, la Corte rileva che con essa il giudice del rinvio, in sostanza, ha chiesto se, in caso di impossibilità di effettuare un’interpretazione della normativa nazionale in modo da garantirne la conformità all’art. 7 della direttiva 2003/88 e all’art. 31, paragrafo 2, della Carta, tali disposizioni del diritto dell’Unione comportino la disapplicazione della medesima normativa interna da parte del giudice nazionale, nell’ambito di una controversia tra un lavoratore e il suo ex datore di lavoro avente la qualità di privato, con il conseguente obbligo, a carico dell’ex datore di lavoro, di versare al lavoratore un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite maturate ai sensi di tali disposizioni e non godute alla data della cessazione del rapporto di lavoro.
La Corte, in primo luogo, esamina la questione relativa all’eventuale effetto diretto attribuibile, nella specie, all’art. 7 della direttiva 2003/88.
Al riguardo la Corte ricorda che secondo la propria costante giurisprudenza:
a) sia in caso di omessa tempestiva trasposizione di una direttiva nel diritto nazionale sia in caso di scorretto recepimento (sentenza del 24 gennaio 2012, C-282/10, punto 33 e giurisprudenza ivi citata) disposizioni incondizionate e sufficientemente precise di una direttiva possono essere invocate dai privati sia nei confronti di uno Stato membro e di tutti gli organi della sua amministrazione, comprese le autorità decentrate, sia nei confronti di organismi ed enti soggetti all’autorità o al controllo dello Stato o a cui sia stato demandato da uno Stato membro l’assolvimento di un compito di interesse pubblico, e che dispongono a tal fine di poteri che eccedono quelli risultanti dalle norme applicabili nei rapporti fra privati (sentenza del 7 agosto 2018, C-122/17, punto 45 e giurisprudenza ivi citata);
b) inoltre, i privati, qualora siano in grado di far valere una direttiva nei confronti di uno Stato, possono farlo indipendentemente dalla veste, di datore di lavoro o di pubblica autorità, nella quale esso agisce in quanto, in tutti i casi, è necessario evitare che lo Stato possa trarre vantaggio dalla propria inosservanza del diritto dell’Unione (sentenza del 24 gennaio 2012, C-282/10, , punto 38 e giurisprudenza ivi citata);
c) invece, anche se chiara, precisa ed incondizionata, una disposizione di una direttiva volta a conferire diritti o a imporre obblighi ai privati non può essere applicata in quanto tale nell’ambito di una controversia che ha luogo esclusivamente tra privati (sentenza del 7 agosto 2018, C-122/17, punto 43 e giurisprudenza ivi citata) perché estendere l’invocabilità di una disposizione di una direttiva non recepita, o recepita erroneamente, all’ambito dei rapporti tra privati equivarrebbe a riconoscere all’Unione il potere di istituire con effetto immediato obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti (sentenza del 7 agosto 2018, C-122/17, punto 42 e giurisprudenza ivi citata).
Di conseguenza, sebbene l’art. 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2003/88 soddisfi i criteri di incondizionalità e di sufficiente precisione richiesti per beneficiare di un effetto diretto (vedi, in tal senso, la coeva sentenza, cause riunite C-569/16 e C-570/16, punti da 71 a 73), tuttavia le disposizioni ivi previste non possono essere direttamente invocate in una controversia tra privati ‒ quale è quella oggetto del procedimento principale, visto che il giudice del rinvio ha affermato che la società datrice di lavoro deve essere qualificata come un soggetto privato ‒ allo scopo di garantire la piena efficacia del diritto del lavoratore alle ferie annuali retribuite e di disapplicare ogni disposizione di diritto nazionale contraria (sentenza del 26 marzo 2015, C-316/13, punto 48).
Ma la Corte ricorda che l’art. 7 della direttiva 93/104 e l’art. 7 della direttiva 2003/88, non hanno istituito direttamente il diritto alle ferie annuali retribuite, in quanto tale diritto trova origine in vari atti come, a livello di Unione, la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, menzionata all’art. 151 TFUE, nonché vari atti internazionali ai quali gli Stati membri hanno partecipato o aderito, come la Carta sociale europea (di cui tutti gli Stati membri sono parti in quanto vi hanno aderito nella sua versione originaria, nella sua versione riveduta o nelle due versioni) anch’essa menzionata all’art. 151 TFUE nonché la Convenzione n. 132 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, del 24 giugno 1970, relativa ai congedi annuali pagati, come riveduta, la quale indica alcuni principi elaborati da tale Organizzazione di cui occorre tenere conto, come risulta dal considerando 6 della direttiva 2003/88 (vedi, al riguardo: sentenza 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punti 37 e 38).
Si tratta quindi di un principio essenziale del diritto sociale dell’Unione in quanto tale dotato di natura imperativa (vedi, in tal senso, sentenza del 16 marzo 2006, C-131/04 e C-257/04, punti 48 e 68).
Tale principio essenziale comprende il diritto alle ferie annuali «retribuite» e il diritto, intrinsecamente collegato al primo, a un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro (vedi odierna sentenza C-569/16 e C-570/16, punto 83).
L’art. 31, paragrafo 2, della Carta UE – che è applicabile a una situazione come quella di cui al procedimento principale e che va interpretata nel senso che osta a una normativa come quella discussa nel procedimento principale – stabilisce, in termini imperativi, che «[o]gni lavoratore» ha «diritto» a «ferie annuali retribuite», senza segnatamente rinviare in proposito – come fatto, ad esempio, dall’art. 27 della Carta medesima, che ha dato luogo alla sentenza del 15 gennaio 2014, C-76/12 – ai «casi e alle condizioni previsti dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali». La suddetta disposizione, pertanto, riflette il principio essenziale del diritto sociale dell’Unione al quale non è possibile derogare se non nel rispetto delle rigorose condizioni di cui all’art. 52, paragrafo 1, della Carta e, in particolare, rispettando il contenuto essenziale del diritto fondamentale alle ferie annuali retribuite.
Quindi, il diritto a un periodo di ferie annuali retribuite, sancito per ogni lavoratore dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta, riveste, quanto alla sua stessa esistenza, carattere allo stesso tempo imperativo e incondizionato; quest’ultima non richiede infatti una concretizzazione ad opera delle disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale, le quali sono solo chiamate a precisare la durata esatta delle ferie annuali retribuite e, eventualmente, talune condizioni di esercizio di tale diritto.
Ne deriva che la suddetta disposizione è di per sé sufficiente a conferire ai lavoratori un diritto invocabile in quanto tale in una controversia contro il loro datore di lavoro, in una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione e, di conseguenza, rientrante nell’ambito di applicazione della Carta (vedi, per analogia, sentenza del 17 aprile 2018, C-414/16, punto 76).
Di conseguenza, in simili situazioni, il giudice nazionale sulla base dell’art. 31, paragrafo 2, della Carta deve disapplicare una normativa nazionale contrastante con il principio secondo cui il lavoratore non può essere privato di un diritto maturato alle ferie annuali retribuite allo scadere dell’anno di riferimento e/o di un periodo di riporto fissato dal diritto nazionale, senza essere stato in condizione di fruire delle proprie ferie, o, correlativamente, essere privato del beneficio dell’indennità finanziaria sostitutiva delle ferie al termine del rapporto di lavoro, in quanto diritto intrinsecamente collegato a detto diritto alle ferie annuali «retribuite». Ai sensi della medesima disposizione, non è neppure consentito ai datori di lavoro appellarsi all’esistenza di una normativa nazionale siffatta al fine di sottrarsi al pagamento di tale indennità finanziaria, pagamento al quale sono tenuti in forza del diritto fondamentale garantito dalla suddetta disposizione.
La Corte ‒ consapevole dell’assoluta novità e importanza della precedente affermazione ‒ precisa che, per quanto riguarda l’effetto così prodotto dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta nei confronti dei datori di lavoro che hanno la qualità di privati, sebbene l’art. 51, paragrafo 1, della Carta stabilisca che le sue disposizioni si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione, detto art. 51, paragrafo 1, non affronta, tuttavia, la questione relativa alla possibilità che tali soggetti privati si trovino, all’occorrenza, direttamente obbligati al rispetto di determinate disposizioni di tale Carta e non può, pertanto, essere interpretato nel senso che esso esclude sistematicamente una simile possibilità.
Infatti, il fatto che talune disposizioni di diritto primario si rivolgano, in primis, agli Stati membri non può, di per sé, portare ad escludere che esse possano applicarsi nei rapporti fra privati (vedi, in tal senso, sentenza del 17 aprile 2018, C-414/16, punto 77 nonché le richiamate conclusioni dell’avvocato generale nelle cause riunite C-569/16 e C-570/16, paragrafo 78).
Inoltre la Corte ricorda di avere già ammesso che il divieto sancito all’art. 21, paragrafo 1, della Carta è di per sé sufficiente a conferire ai soggetti privati un diritto invocabile in quanto tale in una controversia che li vede opposti a un altro soggetto privato (sentenza del 17 aprile 2018, C-414/16, punto 76 ), senza, quindi, che vi osti l’art. 51, paragrafo 1, della Carta.
Anche l’art. 31, paragrafo 2, della Carta, prevede che il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite implica, per sua stessa natura, un corrispondente obbligo in capo al datore di lavoro, ossia quello di concedere tali ferie retribuite o un’indennità per le ferie annuali retribuite non godute alla cessazione del rapporto di lavoro.
Pertanto, se non è possibile interpretare la normativa nazionale discussa in modo da garantirne la conformità all’art. 31, paragrafo 2, della Carta, il giudice del rinvio sarà allora tenuto, ad assicurare, nell’ambito delle proprie competenze, la tutela giuridica derivante dalla suddetta disposizione e a garantire la piena efficacia della medesima, disapplicando all’occorrenza tale normativa nazionale (vedi, per analogia, sentenza del 17 aprile 2018, C-414/16, punto 79).
4.- La sentenza della Grande Sezione in data 6 novembre 2018 nelle cause riunite C-569/16 e C 570/16.
Nella presente sentenza la Corte è stata chiamata ad esaminare due questioni pregiudiziali sottopostele dalla Corte federale del lavoro tedesca con riguardo a due procedimenti promossi dalle vedove, uniche eredi, di due lavoratori privati, per ottenere l’indennità sostitutiva dei giorni di ferie previsti dal contratto non godute dai rispettivi mariti prima del loro decesso.
Queste le questioni pregiudiziali proposte:
«1) se l’art. 7 della direttiva [2003/88/CE] o l’art. 31, paragrafo 2, della [Carta] riconosca all’erede di un lavoratore deceduto in pendenza del rapporto di lavoro un diritto a un’indennità pecuniaria per il periodo minimo di ferie annuali spettanti al lavoratore medesimo prima del decesso, contrariamente a quanto previsto nell’art. 7, paragrafo 4, del [BUrlG] in combinato disposto con l’art. 1922, paragrafo 1, del [BGB];
2) in caso di risposta affermativa alla prima questione, se ciò valga anche nel caso in cui il rapporto di lavoro intercorreva fra due privati».
La Corte ha, in primo luogo, escluso l’irricevibilità delle domande di pronuncia pregiudiziale in oggetto, sostenuta da una delle parti private sull’assunto secondo cui ‒ avendo la Corte già dichiarato (nella sentenza del 12 giugno 2014, C-118/13) che l’art. 7 della direttiva 2003/88 osta a normative o prassi nazionali, come la disciplina in discussione nei procedimenti principali, ai sensi della quale, in caso di decesso del lavoratore, il diritto alle ferie annuali retribuite si estingue senza far sorgere un diritto a un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute ‒ se nel presente giudizio fosse stato dichiarato il contrario la statuizione contenuta nella precedente sentenza sarebbe stata vanificata e gran parte dei giudici e della dottrina nazionali avrebbero ritenuto possibile interpretare la normativa nazionale discussa nei presenti procedimenti principali in un senso conforme a tale ultima decisione.
Al riguardo la Corte ha escluso che l’irricevibilità delle questioni possa derivare dal fatto che la Corte, nella sentenza richiamata, abbia già interpretato l’art. 7 della direttiva 2003/88 con riferimento alla medesima normativa nazionale discussa nei procedimenti principali perché, come più volte affermato dalla Corte, anche in presenza di una giurisprudenza della Corte che risolve il punto di diritto considerato, i giudici nazionali mantengono la completa libertà di adire la Corte qualora lo ritengano opportuno, senza che il fatto che le disposizioni di cui si chiede l’interpretazione siano già state interpretate dalla Corte abbia l’effetto di ostacolare una nuova pronuncia da parte della stessa (sentenza del 17 luglio 2014, C-58/13 e C-59/13, punto 32 e giurisprudenza ivi citata).
Inoltre la costante giurisprudenza della Corte afferma che, nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali istituita all’art. 267 TFUE, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolarità del caso, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria decisione, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte.
Pertanto, se le questioni sollevate riguardino l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire (sentenza del 6 marzo 2018, C-52/16 e C-113/16, punto 42 e giurisprudenza ivi citata). E il rigetto di una domanda presentata da un giudice nazionale è possibile solo quando appaia in modo manifesto che la richiesta interpretazione del diritto dell’Unione non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto del procedimento principale, qualora il problema sia di natura ipotetica oppure, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (sentenza del 6 marzo 2018, C-52/16 e C-113/16, punto 43 e giurisprudenza ivi citata). Evenienze che non ricorrono nella specie.
Quanto all’argomento secondo cui la normativa nazionale discussa nei procedimenti principali potrebbe essere interpretata in modo da garantirne la conformità all’art. 7 della direttiva 2003/88, come interpretato dalla Corte nella richiamata sentenza del 12 giugno 2014, C-118/13, la Corte ricorda che pur essendo esatto che la questione sulla necessità di disapplicare una disposizione nazionale contraria al diritto dell’Unione si pone solo se non risulta possibile alcuna interpretazione conforme di tale disposizione (vedi, in tal senso, sentenza del 24 gennaio 2012, C-282/10, punto 23), tuttavia il principio di interpretazione conforme del diritto nazionale è soggetto ad alcuni limiti visto che l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del diritto nazionale trova un limite nei principi generali del diritto e non può servire a fondare un’interpretazione in contrasto con il diritto nazionale (sentenza del 24 gennaio 2012, C 282/10, punto 25 e giurisprudenza ivi citata).
Nella specie, il giudice del rinvio afferma proprio di essere in presenza di un simile limite perché ritiene che la pertinente disciplina interna non si presti ad un’interpretazione conforme all’art. 7 della direttiva 2003/88, come interpretato dalla Corte nella citata sentenza del 12 giugno 2014, C-118/13.
In tali circostanze, la Corte rileva che è da escludere che le domande di pronuncia pregiudiziale possano essere considerate irricevibili nella parte in cui le questioni sollevate mirano a stabilire se dalle disposizioni del diritto dell’Unione cui esse fanno riferimento possa conseguire, in assenza di una tale possibilità di interpretazione conforme del diritto nazionale, che il giudice nazionale sia all’occorrenza tenuto a disapplicare detta normativa nazionale, in particolare nel contesto di una controversia tra due privati.
Quanto al merito delle questioni proposte la Corte, dopo averne dato un’interpretazione coordinata, ha risposto come segue.
1) L’art. 7 della direttiva 2003/88/CE e l’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale, come quella discussa nei procedimenti principali, ai sensi della quale, in caso di cessazione del rapporto di lavoro a causa del decesso del lavoratore, il diritto alle ferie annuali retribuite maturate ai sensi di tali disposizioni e non godute dal lavoratore prima del suo decesso si estingue, senza poter far sorgere un diritto a un’indennità finanziaria per dette ferie che sia trasmissibile agli aventi causa del lavoratore in via successoria.
2) Nel caso in cui sia impossibile interpretare una normativa nazionale come quella discussa nei procedimenti principali in modo da garantirne la conformità all’art. 7 della direttiva 2003/88 e all’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali, il giudice nazionale, investito di una controversia tra il successore di un lavoratore deceduto e l’ex datore di lavoro di detto lavoratore, deve disapplicare tale normativa nazionale e assicurarsi che al menzionato successore venga concesso, a carico del suddetto datore di lavoro, il beneficio di un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite maturate ai sensi delle citate disposizioni e non godute da tale lavoratore prima del suo decesso. Questo obbligo grava sul giudice nazionale sulla base dell’art. 7 della direttiva 2003/88 e dell’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali se detta controversia intercorre tra un tale successore e un datore di lavoro che riveste la qualità di autorità pubblica, e sulla base della seconda di queste disposizioni se la controversia ha luogo tra il successore e un datore di lavoro che ha la qualità di privato.
A tale conclusione la Corte è pervenuta ribadendo i principi affermati nelle precedenti sentenze qui illustrate sulla natura del diritto alle ferie annuali retribuite e aggiungendo, con riguardo alla specifica fattispecie esaminata che:
a) anche se il decesso del lavoratore determina indubbiamente, come rilevato dal giudice del rinvio, l’inevitabile conseguenza di privare detto lavoratore di qualsiasi possibilità effettiva di beneficiare del tempo di riposo e di svago correlato al diritto alle ferie annuali retribuite cui egli aveva diritto alla data del decesso, non si può ammettere che una tale circostanza comporti retroattivamente la perdita totale del diritto in tal modo acquisito, che comprende una seconda componente di pari importanza, ossia il diritto all’ottenimento di un corrispondente pagamento (vedi, in tal senso, la citata sentenza del 12 giugno 2014, C-118/13, punto 25);
b) peraltro la Corte ha già dichiarato che l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che un lavoratore ha diritto, al momento del pensionamento, a un’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute a causa, ad esempio, del fatto che non ha svolto le sue funzioni per malattia (sentenza del 20 luglio 2016, C-341/15, punti 31 e 32 e giurisprudenza ivi citata), situazione nella quale il lavoratore non è in grado di beneficiare di un periodo di ferie inteso come periodo destinato a consentirgli di riposarsi e rilassarsi in vista del futuro proseguimento della sua attività professionale, dal momento che egli, in linea di principio, è entrato in un periodo di inattività professionale e che, in sostanza, non beneficia quindi più concretamente di tali ferie annuali retribuite se non in forma pecuniaria;
c) del resto, considerato nel suo aspetto finanziario, il diritto alle ferie annuali retribuite maturato da un lavoratore ha natura prettamente patrimoniale e, in quanto tale, è dunque destinato a confluire nel patrimonio dell’interessato, ragion per cui il decesso di quest’ultimo non può privare retroattivamente tale patrimonio – e, di conseguenza, quelli cui esso è destinato a essere devoluto per via successoria – del godimento effettivo di detta componente patrimoniale del diritto alle ferie annuali retribuite;
d) l’estinzione del diritto maturato da un lavoratore alle ferie annuali retribuite o del suo correlato diritto al pagamento di un’indennità finanziaria per le ferie non godute in caso di cessazione del rapporto di lavoro, senza che l’interessato abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare il suddetto diritto, arrecherebbe pregiudizio alla sostanza stessa del diritto in oggetto (vedi, in tal senso, sentenza del 19 settembre 2013, C-579/12, punto 32);
e) pertanto, il beneficio di una compensazione pecuniaria nel caso in cui il rapporto di lavoro sia cessato per effetto del decesso del lavoratore risulta indispensabile per garantire l’effetto utile del diritto alle ferie annuali retribuite accordato al lavoratore (v., in tal senso, sentenza del 12 giugno 2014, C-118/13, punto 24);
f) il diritto alle ferie annuali costituisce solo una delle due componenti del diritto alle ferie annuali retribuite in quanto principio essenziale del diritto sociale dell’Unione che si riflette nell’art. 7 della direttiva 93/104 e nell’art. 7 della direttiva 2003/88, nel frattempo espressamente sancito come diritto fondamentale all’art. 31, paragrafo 2, della Carta UE. Tale diritto fondamentale include anche un diritto all’ottenimento di un pagamento nonché, in quanto diritto intrinsecamente collegato a detto diritto alle ferie annuali «retribuite», il diritto a un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro;
g) gli Stati membri possono apportare limitazioni a questo diritto solamente rispettando le rigorose condizioni previste all’art. 52, paragrafo 1, della Carta, e, in particolare, il contenuto essenziale del diritto medesimo, quindi è da escludere che essi possano decidere che la fine del rapporto di lavoro causata dal decesso del lavoratore determini retroattivamente la perdita totale del diritto alle ferie annuali retribuite acquisito dal lavoratore stesso, visto che il diritto in oggetto include oltre al diritto alle ferie in quanto tale, una seconda componente di pari importanza, vale a dire il diritto all’ottenimento di un pagamento che giustifica il versamento all’interessato o ai suoi successori di un’indennità finanziaria corrispondente alle ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro;
h) quindi non solo dall’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, ma anche dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta deriva che, al fine di impedire che il diritto fondamentale alle ferie annuali retribuite maturate dal lavoratore di cui si tratta sia retroattivamente perduto, anche nella sua componente patrimoniale, il diritto dell’interessato a un’indennità finanziaria per le ferie non godute è trasmissibile per via successoria ai suoi aventi causa.
Quanto alle ulteriori questioni riguardanti la facoltà per il giudice del rinvio di disapplicare la normativa interna se ne sia impossibile una interpretazione in modo da garantirne la conformità all’art. 7 della direttiva 2003/88 e all’art. 31, paragrafo 2, della Carta, la Corte sulla base dei principi affermati, in particolare nella coeva sentenza C-684/16 già illustrata, precisa che:
1) la questione della necessità di disapplicare una disposizione nazionale contraria al diritto dell’Unione si pone solo se non risulta possibile alcuna interpretazione di tale disposizione conforme a detto diritto;
2) in una delle due cause principali (in cui il lavoratore era un dipendente comunale) il quesito è stato risolto dichiarando la possibilità di fare ricorso all’efficacia diretta dell’art. 7 della direttiva 2003/88, in base alla quale il lavoratore o, tenuto conto del decesso di quest’ultimo, il suo successore, hanno il diritto di ottenere, a carico del Comune datore di lavoro, un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite maturate ai sensi della predetta disposizione e non godute dall’interessato; i giudici nazionali sono, al riguardo, tenuti a disapplicare una normativa nazionale che, come quella discussa nei procedimenti principali, osti all’ottenimento di una simile indennità;
3) nell’altra causa principale, nella quale il datore di lavoro era un privato cittadino, non potendo essere invocato direttamente l’art. 7 della direttiva 2003/88 allo scopo di garantire la piena efficacia del diritto alle ferie annuali retribuite e di disapplicare ogni disposizione di diritto nazionale contrari, tale effetto si può ottenere attraverso la disapplicazione della normativa nazionale in riferimento all’art. 31, paragrafo 2, della Carta UE, disposizione che è di per sé sufficiente a conferire ai lavoratori un diritto invocabile in quanto tale in una controversia contro il loro datore di lavoro privato, in una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione e, di conseguenza, rientrante nell’ambito di applicazione della Carta, come quella in oggetto (vedi, per analogia, sentenza del 17 aprile 2018, C-414/16, punto 76).
5.- La sentenza della Quarta Sezione del 13 dicembre 2018, nella causa C-385/17.
Nella presente sentenza la Corte è stata chiamata ad esaminare due questioni pregiudiziali sottopostele dal Tribunale del lavoro di Verden (Germania), in un procedimento nel quale un lavoratore edile, che nell’anno 2015 si era trovato in disoccupazione parziale per un periodo totale di 26 settimane, ed aveva ottenuto dalla datrice di lavoro un’indennità per ferie retribuite calcolata, in applicazione del contratto collettivo, sulla base di una retribuzione oraria lorda inferiore alla retribuzione oraria normale sicché, ritenendo che i periodi di disoccupazione parziale durante il periodo di riferimento non potessero produrre l’effetto di ridurre l’importo dell’indennità per ferie retribuite, aveva rivendicato il diritto ad una indennità di importo superiore.
Queste le questioni pregiudiziali proposte::
1) se l’art. 31 della [Carta] e l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva [2003/88] debbano essere interpretati nel senso che ostino ad una normativa nazionale, per effetto della quale i contratti collettivi possono prevedere che riduzioni retributive, conseguenti, nel periodo di riferimento, ad una riduzione dell’orario di lavoro, incidano sul calcolo della retribuzione delle ferie, con la conseguenza che il lavoratore riceverà, per la durata del periodo minimo di ferie annuali di quattro settimane, un’indennità per ferie inferiore – ovvero, a seguito della cessazione del rapporto di lavoro, un’indennità sostitutiva delle ferie inferiore – rispetto a quella altrimenti spettantegli qualora il calcolo dell’indennità per ferie venisse effettuato sulla scorta della retribuzione media che il lavoratore avrebbe percepito nel periodo di riferimento in assenza di dette riduzioni della retribuzione. A quale valore percentuale massimo, calcolato sulla retribuzione media integrale del lavoratore, possa ammontare una riduzione collettiva dell’indennità per ferie – consentita da disposizioni legislative nazionali – conseguente ad una riduzione dell’orario di lavoro nel periodo di riferimento, affinché possa ritenersi che tale disciplina nazionale sia interpretata in modo conforme al diritto dell’Unione;
2) in caso di risposta affermativa alla prima questione: se il principio generale della certezza del diritto, sancito dal diritto dell’Unione, e il divieto di retroattività, impongano di limitare nel tempo, con effetto per tutti gli interessati, la possibilità di ricorrere all’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia UE in relazione alle disposizioni di cui all’art. 31 della [Carta] e all’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, per mezzo dell’emananda decisione pregiudiziale nel presente procedimento, laddove la giurisprudenza nazionale di ultimo grado abbia già escluso la possibilità di un’interpretazione in senso conforme al diritto dell’Unione delle pertinenti normative legislative e collettive nazionali. Qualora la Corte dovesse risolvere la questione in senso negativo: se sia compatibile con il diritto dell’Unione il fatto che i giudici nazionali garantiscano, in base al diritto nazionale, la tutela del legittimo affidamento ai datori di lavoro che abbiano confidato nel mantenimento della giurisprudenza nazionale di ultimo grado, oppure se la garanzia della tutela del legittimo affidamento sia riservata alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
La Corte ha risposto alla prima questione affermando che:
l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/CE cit. nonché l’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che, ai fini del calcolo dell’indennità per ferie retribuite, consente di prevedere con contratto collettivo che siano prese in considerazione le riduzioni di retribuzione risultanti dall’esistenza, durante il periodo di riferimento, di giorni in cui, a causa di disoccupazione parziale, non sia prestato lavoro effettivo, circostanza che ha come conseguenza che il dipendente percepisce, per la durata delle ferie annuali minime di cui beneficia a titolo del medesimo art. 7, paragrafo 1, un’indennità per ferie retribuite inferiore alla retribuzione ordinaria che egli riceve durante i periodi di lavoro. Spetta al giudice del rinvio interpretare la normativa nazionale quanto più possibile, alla luce del testo nonché dello scopo della direttiva 2003/88, in modo tale che l’indennità per ferie retribuite versata ai lavoratori, a titolo delle ferie minime previste allo stesso art. 7, paragrafo 1, non sia inferiore alla media della retribuzione ordinaria percepita da questi ultimi durante i periodi di lavoro effettivo.
Alla seconda questione la CGUE ha risposto dichiarando che:
“non occorre limitare gli effetti nel tempo della presente sentenza e il diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che osta a che i giudici nazionali tutelino, sulla base del diritto interno, il legittimo affidamento dei datori di lavoro riguardo al mantenimento della giurisprudenza degli organi giurisdizionali nazionali di ultima istanza che confermava la legittimità delle disposizioni in materia di ferie retribuite del contratto collettivo dell’edilizia”.
Le principali argomentazioni riguardanti la prima questione in estrema sintesi sono le seguenti:
a) la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite, conferito a ciascun lavoratore dall’art. 7 della direttiva 2003/88, è quella di consentire al lavoratore, da un lato, di riposarsi rispetto all’esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo contratto di lavoro e, dall’altro, di beneficiare di un periodo di distensione e di ricreazione (vedi, in particolare, sentenze del 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punto 25, nonché del 4 ottobre 2018, C-12/17, punto 27);
b) tale finalità – che distingue il diritto alle ferie annuali retribuite da altri tipi di congedo aventi scopi differenti – è basata sulla premessa che il lavoratore abbia effettivamente svolto un’attività lavorativa durante il periodo di riferimento e comporta che i diritti alle ferie annuali retribuite devono, in linea di principio, essere determinati in funzione dei periodi di lavoro effettivo svolti in forza del contratto di lavoro (sentenza del 4 ottobre 2018, C-12/17, punto 28);
c) nel presente caso risulta che durante i periodi di disoccupazione parziale, il rapporto di lavoro tra il datore di lavoro e il lavoratore è continuato, ma il lavoratore non ha prestato lavoro effettivo per il suo datore di lavoro, sicché egli in base al citato art. 7, paragrafo 1, ha maturato il diritto alle ferie retribuite solo per i periodi in cui ha svolto attività lavorativa e non per i periodi di disoccupazione parziale durante i quali non ha prestato lavoro;
d) tuttavia la direttiva 2003/88 si limita a fissare prescrizioni minime di sicurezza e salute in materia di organizzazione dell’orario di lavoro facendo salva la facoltà degli Stati membri di applicare disposizioni nazionali più favorevoli alla tutela dei lavoratori (come risulta dall’art. 1, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera a, dell’art. 7, paragrafo 1, nonché dell’art. 15 della direttiva stessa) pertanto essa non osta a che una normativa nazionale o un contratto collettivo concedano ai dipendenti un diritto alle ferie annuali retribuite di durata superiore a quanto garantito dalla medesima direttiva, e ciò indipendentemente dal fatto che l’orario di lavoro dei dipendenti sia stato ridotto a causa di disoccupazione parziale (vedi, in tal senso, sentenza del 24 gennaio 2012, C-282/10, punti 47 e 48);
e) le modalità di applicazione di tali norme nazionali devono, tuttavia, rispettare i limiti derivanti dalla citata direttiva (vedi, in tal senso, sentenza del 16 marzo 2006, C-131/04 e C-257/04, punto 57) e questo comporta che, nelle disposizioni e prassi sulla struttura della retribuzione ordinaria dei lavoratori disciplinate dal diritto degli Stati membri non si possa incidere sul diritto del lavoratore di godere, nel corso del suo periodo di riposo e di distensione, di condizioni economiche paragonabili a quelle relative all’esercizio dell’attività lavorativa (sentenza del 15 settembre 2011, C-155/10, punto 23), visto che la Corte ha già avuto occasione di precisare che l’espressione «ferie annuali retribuite», di cui all’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, significa che, per la durata delle «ferie annuali», ai sensi di tale direttiva, la retribuzione deve essere mantenuta nel senso che il lavoratore deve percepire la retribuzione ordinaria per tale periodo di riposo (sentenze del 16 marzo 2006, C-131/04 e C-257/04, punti 50 e 58, nonché del 15 settembre 2011, C-155/10, punti 19 e 20);
f) però, in forza di detto art. 7, paragrafo 1, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere l’indicata retribuzione soltanto per la durata delle ferie annuali minime previste da tale disposizione, le quali vengono maturate dal dipendente soltanto per i periodi di lavoro effettivo, non si richiede quindi che la retribuzione ordinaria sia pagata per tutta la durata delle ferie annuali di cui il dipendente beneficia in forza del diritto nazionale;
g) un’estensione dei diritti alle ferie annuali retribuite oltre il minimo richiesto all’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 oppure la possibilità di ottenere un diritto a ferie annuali retribuite continuative sono misure favorevoli ai lavoratori che vanno oltre i requisiti minimi previsti a tale disposizione e, pertanto, non sono disciplinate da quest’ultima, ma occorre sottolineare che quando la retribuzione versata a titolo del diritto alle ferie annuali retribuite previsto all’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, è inferiore alla retribuzione ordinaria ricevuta dal lavoratore durante i periodi di lavoro effettivo – come accade nella specie – c’è il rischio che il lavoratore possa essere indotto a non prendere le sue ferie annuali retribuite, almeno non durante i periodi di lavoro effettivo, poiché ciò determinerebbe, durante tali periodi, una diminuzione della sua retribuzione e questa eventualità si porrebbe in contrasto con il principio secondo cui l’ottenimento della retribuzione ordinaria durante il periodo di ferie annuali retribuite è volto a consentire al lavoratore di prendere effettivamente i giorni di ferie cui ha diritto (vedi, in tal senso, sentenze del 16 marzo 2006, C-131/04 e C-257/04, punto 49, nonché del 22 maggio 2014, C-539/12, punto 20);
h) pertanto, in simile situazione, i giudici nazionali chiamati a interpretare il diritto interno sono tenuti a prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto e ad applicare i criteri ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di giungere ad una soluzione per quanto più possibile conforme alla lettera e allo scopo della direttiva di cui trattasi, onde conseguire il risultato fissato da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288, terzo comma, TFUE, senza violare il diritto nazionale, ma eventualmente anche modificando una giurisprudenza interna consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva (vedi, in tal senso, sentenza del 19 aprile 2016, C-441/14, punti 31-33 nonché giurisprudenza ivi citata);
i) di qui l’obbligo del giudice del rinvio, per il presente caso riguardante una controversia tra due privati, di interpretare la normativa nazionale in modo conforme all’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, nel senso che l’indennità per ferie retribuite versata ai lavoratori, a titolo delle ferie minime previste da tale disposizione, non deve essere inferiore alla media della retribuzione ordinaria percepita da questi ultimi durante i periodi di lavoro effettivo, con la precisazione che detta disposizione non obbliga a interpretare la normativa nazionale nel senso che essa conferisca una gratifica in via convenzionale che si aggiunga a tale media della retribuzione ordinaria, né nel senso che la retribuzione percepita per ore di straordinario sia presa in considerazione, a meno che si tratti di uno straordinario con carattere ampiamente prevedibile e abituale, e la cui retribuzione costituisce un elemento significativo della retribuzione complessiva che il lavoratore percepisce nell’ambito dell’esercizio della sua attività professionale.
Quanto alla seconda questione la Corte, in primo luogo, precisa che con essa nella sostanza il giudice del rinvio ha chiesto se sia possibile limitare gli effetti nel tempo della presente sentenza nell’ipotesi in cui la Corte ritenesse che l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 nonché l’art. 31 della Carta debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale e se, in caso contrario, il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che osta a che i giudici nazionali tutelino, sulla base del diritto interno, il legittimo affidamento dei datori di lavoro riguardo al mantenimento della giurisprudenza degli organi giurisdizionali nazionali di ultima istanza che confermava la legittimità delle disposizioni in materia di ferie retribuite del contratto collettivo dell’edilizia.
La Corte, quindi, precisa che:
a) in base alla propria costante giurisprudenza che la norma di diritto dell’Unione – interpretata dalla Corte nell’esercizio della competenza attribuitale dall’art. 267 TFUE – può e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza che statuisce sulla domanda d’interpretazione, purché, d’altro canto, sussistano i presupposti per sottoporre al giudice competente una lite relativa all’applicazione di detta norma, in quanto con una simile statuizione la CGUE chiarisce e precisa il significato e la portata della norma stessa, nel senso in cui deve o avrebbe dovuto essere intesa e applicata sin dal momento della sua entrata in vigore (sentenze del 6 marzo 2007, C-292/04, punto 34, nonché del 22 settembre 2016, C-110/15, punto 59);
b) soltanto in casi eccezionali – caratterizzati da due elementi: la buona fede degli ambienti interessati e il rischio di gravi inconvenienti – in applicazione di un principio generale di certezza del diritto intrinseco all’ordinamento giuridico dell’Unione, la Corte è stata indotta a limitare la possibilità per gli interessati di invocare una disposizione da essa interpretata al fine di rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede (sentenza del 22 settembre 2016, C-110/15, punto 60 nonché giurisprudenza ivi citata);
c) ciò, in particolare, si è verificato in circostanze ben precise nelle quali vi era un rischio di gravi ripercussioni economiche dovute, segnatamente, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa ritenuta validamente vigente e quando risultava che i singoli e le autorità nazionali erano stati indotti ad adottare un comportamento non conforme al diritto dell’Unione in ragione di un’oggettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni di diritto dell’Unione, incertezza alla quale avevano eventualmente contribuito gli stessi comportamenti tenuti da altri Stati membri o dalla Commissione europea (sentenze del 15 marzo 2005, C-209/03, punto 69; del 13 aprile 2010, C-73/08, punto 93, nonché del 22 settembre 2016, C-110/15, punto 61);
d) nel caso di specie non sono emersi elementi per ritenere che sussista la condizione relativa alle gravi ripercussioni economiche di cui si è detto, pertanto è da escludere che occorra limitare nel tempo gli effetti della presente sentenza;
e) quanto al merito della questione, la Corte rileva che l’applicazione del principio della tutela del legittimo affidamento – quale prospettata dal giudice del rinvio con riferimento all’affidamento riposto dai datori di lavoro con riguardo alla giurisprudenza degli organi giurisdizionali nazionali di ultima istanza che confermava la legittimità delle disposizioni del contratto collettivo dell’edilizia in materia di ferie retribuite – equivarrebbe, in realtà, a limitare gli effetti nel tempo dell’interpretazione accolta dalla Corte quanto alle disposizioni del diritto dell’Unione, poiché, tramite tale applicazione, detta interpretazione non sarebbe applicabile nel procedimento principale, nel quale sussistono i presupposti per sottoporre ai giudici competenti una controversia relativa all’applicazione del detto diritto UE (vedi, in tal senso, sentenza del 19 aprile 2016, C-441/14, punti 39 e 40 e giurisprudenza ivi citata).
6.- La sentenza della Grande Sezione 4 ottobre 2018, nella causa C-12/17.
Nella presente sentenza la Corte è stata chiamata ad esaminare una questione pregiudiziale sottopostale dalla la Curtea de Apel Cluj (Corte d’appello di Cluj, Romania) con riguardo ad procedimento promosso da un magistrato del Tribunalul Botoșani (Tribunale superiore di Botoșani), la quale nel 2014 aveva usufruito, anzitutto, di tutte le ferie annuali retribuite, poi, da ottobre 2014 fino al 3 febbraio 2015 aveva goduto di un congedo di maternità poi, dal 4 febbraio 2015 al 16 settembre 2015, aveva beneficiato di un congedo parentale (durante il quale il suo rapporto di lavoro era stato sospeso) e infine, dal 17 settembre al 17 ottobre 2015, aveva usufruito di 30 giorni di ferie annuali retribuite. La ricorrente aveva chiesto al Tribunale presso il quale prestava servizio di concederle i cinque giorni di ferie annuali retribuite residui per l’anno 2015, di cui aveva l’intenzione di beneficiare durante i giorni lavorativi situati tra le feste di fine anno, sulla base della normativa rumena, che riconosce il diritto alle ferie annuali retribuite di 35 giorni.
Il suddetto Tribunale aveva respinto la domanda principalmente perché, secondo il diritto rumeno, la durata delle ferie annuali retribuite è proporzionale al periodo di lavoro effettivo svolto durante l’anno in corso e, nella specie, la durata del congedo parentale di cui la ricorrente aveva beneficiato nel 2015 non poteva essere considerata come periodo di lavoro effettivo ai fini della determinazione dei diritti alle ferie annuali retribuite
In sede giudiziaria l’interessata aveva chiesto che venisse dichiarato che la durata del congedo parentale dovesse essere considerata come periodo di lavoro effettivo ai fini della determinazione dei suoi diritti alle ferie annuali retribuite per il periodo di riferimento.
In primo grado il ricorso era stato accolto, mentre la Corte d’appello ha sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di Giustizia UE la seguente questione pregiudiziale:
«se l’art. 7 della direttiva 2003/88/CE vada interpretato nel senso che osta ad una disposizione della normativa nazionale che, nel determinare la durata delle ferie del lavoratore, non considera il periodo di congedo parentale per un figlio fino ai due anni di età come periodo di lavoro effettivo».
La Corte ha risposto dichiarando che:
il suddetto art. 7 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una disposizione nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che, ai fini della determinazione dei diritti alle ferie annuali retribuite garantite da detto articolo a un lavoratore per un periodo di riferimento, non consideri la durata di un congedo parentale fruito da tale lavoratore nel corso del suddetto periodo come periodo di lavoro effettivo.
Con specifico riguardo alla fattispecie sub judice, la Corte ha sottolineato quanto segue:
a) la finalità peculiare del diritto alle ferie annuali retribuite previsto dalla norma richiamata è quella di consentire al lavoratore di godere di un periodo di riposo, di distensione e di ricreazione e quindi il relativo riconoscimento di norma presuppone che il lavoratore abbia svolto un’attività lavorativa;
b) ma, in base ad una giurisprudenza costante della Corte, il diritto alle ferie annuali retribuite non può essere subordinato da uno Stato membro all’obbligo di avere effettivamente lavorato in quanto vi sono talune situazioni specifiche nelle quali il diritto stesso va riconosciuto anche se il lavoratore non è in grado di svolgere le proprie mansioni;
c) ciò accade, in particolare, per i lavoratori in assenti per malattia debitamente giustificata (vedi, segnatamente, sentenza del 24 gennaio 2012, C-282/10, punto 20 e giurisprudenza ivi citata), il cui trattamento per le ferie è assimilato a quello di coloro che hanno effettivamente lavorato nel corso del periodo di riferimento (vedi, in particolare, sentenza del 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punto 40) e anche per le lavoratrici in congedo di maternità, i cui diritti alle ferie annuali retribuite devono essere assicurati nel caso di tale congedo di maternità e poter essere esercitati in un periodo diverso da quello di quest’ultimo congedo (vedi, in tal senso, sentenza del 18 marzo 2004, C-342/01, punti 34, 35 e 38);
d) la richiamata giurisprudenza non può essere applicata mutatis mutandis alla situazione di un lavoratore, come la ricorrente nel presente procedimento principale, che abbia beneficiato di un congedo parentale durante il periodo di riferimento, principalmente perché la fruizione di un congedo parentale non ha carattere imprevedibile e, nella maggioranza dei casi, ha origine nella scelta del lavoratore di aver cura del bambino (vedi, in tal senso, sentenza del 20 settembre 2007, C-116/06, punto 35);
e) invece come risulta anche dall’art. 5, paragrafo 4, della Convenzione n. 132 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, del 24 giugno 1970, relativa ai congedi annuali pagati, riveduta – i cui principi devono essere presi in considerazione, in forza del considerando 6 della direttiva 2003/88, ai fini dell’interpretazione di quest’ultima (sentenza del 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punto 38) – le assenze per malattia sono da includere tra le assenze dal lavoro «per motivi indipendenti dalla volontà dell’interessato», da calcolare nel periodo di servizio, del resto anche per la giurisprudenza della Corte la sopravvenienza di un’inabilità al lavoro per causa di malattia è, in linea di principio, imprevedibile (sentenza del 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punto 51) e indipendente dalla volontà del lavoratore (vedi, in tal senso, sentenza del 29 novembre 2017, C-214/16, punto 49);
f) il lavoratore in congedo parentale non accusa limitazioni fisiche e psichiche derivanti da una malattia quindi la sua situazione è diversa da quella che della persona inabile al lavoro per il proprio stato di salute (vedi, per analogia, sentenza dell’8 novembre 2012, C-229/11 e C-230/11, punto 29), ma è anche diversa da quella della lavoratrice che esercita il suo diritto al congedo di maternità, che è finalizzato, da un lato, alla protezione della condizione biologica della donna durante e dopo la gravidanza e, dall’altro, alla protezione delle particolari relazioni tra la donna e il bambino durante il periodo successivo alla gravidanza e al parto, onde evitare che queste relazioni siano turbate dal cumulo degli oneri derivanti dal contemporaneo svolgimento di un’attività lavorativa (vedi, in tal senso, sentenze del 18 marzo 2004, C-342/01, punto 32, e del 20 settembre 2007, C-116/06, punto 46);
g) né va omesso di rilevare che, pur rimanendo un lavoratore che beneficia di un congedo parentale un lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione, durante tale periodo (sentenza del 20 settembre 2007, C-116/06, punto 32), tuttavia, qualora, come nel caso di specie, il suo rapporto di lavoro sia stato sospeso sulla base del diritto nazionale, come consentito dalla clausola 5, punto 3, dell’accordo quadro sul congedo parentale, sono correlativamente sospesi, in via temporanea, gli obblighi di prestazione reciproci del datore di lavoro e del lavoratore, in particolare, l’obbligo per quest’ultimo di svolgere le mansioni ad esso incombenti nell’ambito di detto rapporto (vedi, per analogia, sentenza dell’8 novembre 2012, C-229/11 e C-230/11, punto 28);
h) pertanto, nella specie, il fruito periodo di congedo parentale non può essere assimilato a un periodo di lavoro effettivo ai fini della determinazione dei diritti alle ferie annuali retribuite ai sensi dell’art. 7 della direttiva 2003/88, né si può dedurre il contrario dalla costante giurisprudenza della Corte secondo cui un congedo garantito dal diritto dell’Unione non può pregiudicare il diritto di fruire di un altro congedo garantito da tale diritto e avente una finalità distinta dal primo (vedi, in tal senso, sentenza del 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punto 26 e giurisprudenza ivi citata), in quanto tale giurisprudenza è stata elaborata con riferimento a situazioni diverse da quella attuale, caratterizzate da una sovrapposizione o da una coincidenza tra i periodi relativi a detti due differenti congedi.
7.- La sentenza della Grande Sezione 20 novembre 2018, nella causa C-147/07.
Con la presente sentenza la Corte ha esaminato le numerose questioni pregiudiziali sottopostele dalla Curtea de Apel Constanţa (Corte d’appello di Costanza, Romania) in riferimento ad un giudizio instaurato da alcuni lavoratori dipendenti, svolgenti le funzioni di “assistenti genitoriali” presso un ente pubblico, funzioni il cui obiettivo è il coordinamento delle attività di assistenza sociale e di tutela della famiglia e dei diritti del minore a livello distrettuale o a livello dei settori di Bucarest. Si tratta di persone che sono incaricate di accogliere presso il proprio domicilio minori sottratti in modo definitivo o temporaneo alla custodia dei genitori e di provvedere all’educazione e al mantenimento di tali minori. Ogni assistente genitoriale ha stipulato un contratto di lavoro individuale con il suddetto ente nonché una convenzione di affido per ogni minore posto sotto la propria custodia.
Gli assistenti genitoriali e il Sindicatul Familia Constanța che li rappresenta hanno proposto ricorso dinanzi al Tribunalul Constanţa (Tribunale superiore di Costanza) per ottenere la condanna dell’ente pubblico da cui dipendono alla corresponsione di differenze retributive per il lavoro svolto durante i giorni di riposo settimanale, i giorni festivi e gli altri giorni non lavorativi nonché al pagamento di una compensazione pari a un’indennità relativa alle ferie annuali retribuite per gli anni dal 2012 al 2015.
Queste le questioni pregiudiziali proposte:
«1) se le disposizioni dell’art. 1, paragrafo 3, della direttiva 2003/88 in combinato disposto con l’art. 2 della direttiva 89/391 debbano essere interpretate nel senso che escludono dall’ambito di applicazione della medesima un’attività come quella degli assistenti genitoriali, svolta dai ricorrenti;
2) nel caso di risposta negativa alla questione sub 1), se l’art. 17 della direttiva 2003/88 debba essere interpretato nel senso che un’attività come quella degli assistenti genitoriali, svolta dai ricorrenti, può essere l’oggetto di una deroga alle disposizioni dell’art. 5 della direttiva in virtù dei paragrafi 1, 3, lettere b) e c), o 4, lettera b) [dell’art. 17];
3) nel caso di risposta affermativa alla questione sub 2), se l’art. 17, paragrafo 1, o, se del caso, l’art. 17, paragrafi 3 o 4, della direttiva 2003/88 debba essere interpretato nel senso che una tale deroga deve essere esplicita o può anche essere implicita, attraverso l’adozione di un atto normativo speciale che prevede altre norme di organizzazione dell’orario di lavoro per una determinata attività professionale; nel caso in cui una siffatta deroga possa non essere esplicita, quali sono le condizioni minime affinché si possa considerare che una normativa nazionale introduce una deroga e se una siffatta deroga possa essere espressa con le modalità derivanti dalle disposizioni della legge n. 272/2004;
4) nel caso di risposta negativa alle questioni sub 1), 2) o 3), se l’art. 2, punto 1, della direttiva 2003/88 debba essere interpretato nel senso che il periodo che un assistente genitoriale trascorre assieme al minore assistito, nel proprio domicilio o in un altro luogo scelto dal medesimo, costituisce orario di lavoro sebbene non realizzi nessuna delle attività previste a suo carico dal contratto individuale di lavoro;
5) nel caso di risposta negativa alle questioni sub 1), 2) o 3), se l’art. 5 della direttiva 2003/88 debba essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale come quella di cui all’art. 122 della legge n. 272/2004; e in caso di una risposta nel senso dell’applicabilità dell’art. 17, paragrafo 3, lettere b) e c), o paragrafo 4, lettera b), della direttiva, se tale art. debba essere interpretato nel senso che esso osta a tale normativa nazionale;
6) nel caso di risposta negativa alla questione sub 1) e, eventualmente, di risposta affermativa alla questione sub 4), se l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 possa essere interpretato nel senso che non osta tuttavia alla concessione di un risarcimento pari all’indennità di cui il lavoratore avrebbe beneficiato durante le ferie annuali dal momento che la natura dell’attività svolta dagli assistenti genitoriali impedisce loro di fruire di tali ferie o, benché le ferie siano formalmente concesse, il lavoratore continua a prestare in pratica la stessa attività qualora nel periodo in questione non sia consentita la separazione dal minore assistito. In caso affermativo, se per avere diritto al risarcimento sia necessario che il lavoratore abbia chiesto il permesso di separarsi dal minore e il datore di lavoro non abbia concesso tale permesso;
7) nel caso di risposta negativa alla questione sub 1), affermativa alla questione sub 4) e negativa alla questione sub 6), se l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 osti a una disposizione come quella di cui all’art. 122, paragrafo 3, lettera d), della legge n. 272/2004 in una situazione in cui tale legge lascia al datore di lavoro la facoltà di decidere discrezionalmente se autorizzare la separazione dal minore durante le ferie e, in caso affermativo, se l’impossibilità di fruire di fatto delle ferie, in conseguenza dell’applicazione di tale disposizione di legge, costituisca una violazione del diritto dell’Unione che soddisfa le condizioni per far sorgere il diritto del lavoratore al risarcimento. In caso affermativo, se un siffatto risarcimento debba essere versato dallo Stato per la violazione dell’art. 7 della direttiva 2003/88 o dall’ente pubblico che ha la qualità di datore di lavoro, il quale non ha garantito, nel periodo di ferie, la separazione dal minore assistito. In tale situazione, se per avere diritto al risarcimento sia necessario che il lavoratore abbia chiesto il permesso di separarsi dal minore e il datore di lavoro non abbia concesso tale permesso».
La Corte ha risposto nel seguente modo alla prima questione, ritenendo tale risposta assorbente rispetto a tutte le altre questioni:
l
l’art. 1, paragrafo 3, della direttiva 2003/88/CE, in combinato disposto con l’art. 2, paragrafo 2, della direttiva 89/391/CEE, deve essere interpretato nel senso che non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2003/88 l’attività di assistente genitoriale che consiste, nell’ambito di un rapporto di lavoro con un’autorità pubblica, nell’accogliere e integrare un minore nel proprio nucleo familiare e nel provvedere, continuativamente, allo sviluppo armonioso e all’educazione di tale minore.
Preliminarmente la Corte ha esaminato l’eccezione del governo tedesco relativa alla pertinenza delle questioni sollevate in quanto la controversia di cui al procedimento principale riguarda il pagamento di somme di denaro richieste dagli assistenti genitoriali a titolo di remunerazione.
Al riguardo la Corte ha ricordato che, tranne che per l’ipotesi particolare di ferie annuali retribuite (di cui all’art. 7, paragrafo 1) la direttiva 2003/88, in linea di principio, non si applica alla retribuzione dei lavoratori perché essa si limita a disciplinare taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro al fine di garantire la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, (sentenza del 26 luglio 2017, C-175/16, punto 25, nonché del 21 febbraio 2018, C-518/15, punto 24).
Ma questa osservazione non implica che le presenti questioni non siano esaminabili, visto che rispetto alla questione relativa all’esistenza di un diritto al pagamento di integrazioni retributive e altre indennità – questione che spetta al giudice nazionale risolvere – è preliminare l’esame di ulteriori questioni poste dal giudice del rinvio che si riferiscono all’interpretazione di norme UE.
Con tali quesiti di carattere preliminare il giudice del rinvio ha chiesto alla Corte di stabilire se gli assistenti genitoriali, quali le persone fisiche ricorrenti nel procedimento principale, godano, in forza del diritto dell’Unione, del diritto ai periodi di riposo, alle festività e alle ferie sul quale essi fondano le loro richieste di integrazioni retributive e indennità e se la legge rumena, che prevede l’assistenza continuativa dei minori in affido presso gli assistenti genitoriali, sia compatibile con le disposizioni della direttiva 2003/88.
La Corte, precisa in primo luogo che sia dall’art. 137 CE (divenuto art. 153 TFUE), che costituisce il fondamento giuridico della direttiva 2003/88, sia dai considerando 1, 2, 4 e 5 di quest’ultima, nonché dalla stessa formulazione dell’art. 1, paragrafo 1, della direttiva risulta che essa si propone di fissare prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori mediante un ravvicinamento delle disposizioni nazionali riguardanti, in particolare, la durata dell’orario di lavoro e che, quindi, è applicabile ai soli lavoratori (vedi, in tal senso, sentenza del 12 ottobre 2004, C-313/02, punto 46).
Ai fini dell’applicazione della direttiva la nozione di «lavoratore» non può essere interpretata in modo da variare a seconda degli ordinamenti nazionali, ma ha una portata autonoma propria del diritto dell’Unione stabilita in base a criteri obiettivi che caratterizzino il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi delle persone interessate.
L’elemento che rappresenta la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro consiste nella prestazione da parte di una persona, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra persona e sotto la direzione di quest’ultima: lavoro in cambio di una retribuzione (sentenza del 14 ottobre 2010, C-428/09, punto 28 e giurisprudenza ivi citata).
Ciò significa che un rapporto di lavoro presuppone l’esistenza di un vincolo di subordinazione tra il lavoratore e il suo datore di lavoro e l’esistenza di un siffatto vincolo va valutata caso per caso in considerazione di tutti gli elementi e di tutte le circostanze che caratterizzano i rapporti tra le parti (sentenza del 10 settembre 2015, C-47/14, punto 46).
Nella specie, dalla decisione di rinvio emerge che gli assistenti genitoriali di cui al procedimento principale devono provvedere, in linea di principio continuativamente, alla crescita, alla cura e all’educazione di minori a loro affidati da un’autorità pubblica e percepiscono una retribuzione come corrispettivo per tale attività. Inoltre, tali assistenti genitoriali devono non solo essere abilitati, ma altresì stipulare un «contratto di lavoro a carattere speciale» con il servizio specializzato di tutela dell’infanzia competente, che è valido nel periodo di validità dell’abilitazione e la cui esecuzione inizia alla data della decisione di affido. Tale contratto può essere sospeso o risolto secondo le norme nazionali del diritto del lavoro. Sembra inoltre che detti assistenti genitoriali possano beneficiare di un diritto alla previdenza sociale nonché di un diritto alla formazione professionale.
Ne risulta che si tratta di persone contrattualmente vincolate con il competente servizio pubblico con un rapporto di subordinazione che si concretizza in una sorveglianza e in una valutazione permanenti delle loro attività da parte di detto servizio rispetto ai requisiti e ai criteri enunciati nel contratto, ai fini della realizzazione del compito di tutela del minore, di cui un tale servizio è investito dalla legge.
Né assume alcun rilievo in contrario il riconoscimento agli assistenti genitoriali di un margine di valutazione importante quanto all’esercizio quotidiano delle loro funzioni con assunzione di responsabilità simili a quelle assunte dai genitori nei confronti dei propri figli, oppure dal fatto che l’incarico che è loro affidato sia un incarico di fiducia o d’interesse generale (vedi, in tal senso, sentenze del 10 settembre 2014, C-270/13, punti da 39 a 41, e del 9 luglio 2015, C-229/14, punto 41).
Peraltro, la Corte rileva che l’art. 2 della direttiva 89/391 – richiamato dall’art. 1, paragrafo 3, della direttiva 2003/88 per la determinazione dell’ambito applicativo di quest’ultima direttiva – precisa che la direttiva concerne «tutti i settori d’attività privati o pubblici», tra i quali figurano le «attività di servizi», pur non essendo applicabile quando particolarità inerenti ad alcune attività specifiche nel pubblico impiego vi si oppongano in modo imperativo, specialmente nelle forze armate o nella polizia oppure per alcune attività specifiche nei servizi di protezione civile anche se, pure in tali casi, la sicurezza e la salute dei lavoratori devono, per quanto possibile, essere assicurate, tenendo conto degli obiettivi della direttiva in parola.
Le suddette deroghe vanno intese in senso restrittivo (cioè come riferite ai soli casi in cui sia vi sia la necessità assoluta di garantire un’efficace tutela di interessi della collettività che viene consentito agli Stati membri di proteggere: vedi, in tal senso, sentenza del 5 ottobre 2004, da C-397/01 a C-403/01, punto 54 nonché sentenza del 12 gennaio 2006, C-132/04, punto 24).
Ma si deve considerare che il criterio utilizzato nella direttiva per consentire le deroghe non si fonda sull’appartenenza dei lavoratori a uno dei settori del “pubblico impiego” previsti dalla disposizione in oggetto (nel suo insieme), ma fa esclusivo riferimento alla natura specifica di taluni compiti particolari svolti dai lavoratori dei settori contemplati dalla disposizione stessa.
Poiché l’art. 2, paragrafo 2, primo comma, della citata direttiva 89/391 non contiene alcuna definizione della nozione di “pubblico impiego” e neppure effettua sul punto un rinvio ai diritti nazionali, si deve applicare al riguardo la giurisprudenza costante della Corte secondo cui – tanto dalla necessità di garantire l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione quanto dal principio di uguaglianza – discende che i termini di una disposizione di diritto dell’Unione che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto concerne la determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto, nell’intera Unione europea, di un’interpretazione autonoma e uniforme da effettuare tenendo conto del contesto di tale disposizione e della finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi (vedi sentenze del 14 febbraio 2012, C-204/09, punto 37 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 7 settembre 2017, C-247/16, punto 32 e giurisprudenza ivi citata).
Alla luce delle precedenti osservazioni l’espressione «pubblico impiego», contenuta nell’art. 2, paragrafo 2, primo comma, cit., deve essere intesa in senso funzionale (anche per garantire un’applicazione uniforme della direttiva 89/391 negli Stati membri: vedi, in tal senso, sentenza del 18 luglio 2013, C-515/11, punto 24) e va quindi riferita non soltanto ai settori nei quali i lavoratori sono organicamente collegati allo Stato o ad un’altra autorità pubblica, ma anche ai settori in cui i lavoratori esercitano la propria attività per conto di un privato che assume, sotto il controllo delle autorità pubbliche, un compito d’interesse generale rientrante nelle funzioni essenziali dello Stato.
Pertanto la menzione delle attività delle forze armate, di polizia e dei servizi di protezione civile nella disposizione ha valore meramente esemplificativo.
Nella specie l’attività degli assistenti genitoriali per le sue caratteristiche rientra tra le attività specifiche di cui all’art. 2, paragrafo 2, primo comma, della direttiva 89/391, ma diversamente dall’attività dei «genitori sostituti» (di cui alla causa che ha dato origine alla sentenza del 26 luglio 2017, C 175/16) avendo come caratteristica essenziale l’obbligo d’integrazione continuativa del minore nel nucleo familiare dell’assistente genitoriale, non si presta, per sua natura, a una pianificazione dell’orario di lavoro e questo elemento giustifica l’applicazione di un regime derogatorio in materia di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori (vedi, in tal senso, sentenza del 5 ottobre 2004, da C-397/01 a C-403/01, punto 55).
In base alla giurisprudenza della Corte l’esigenza di continuità dei servizi attivi nell’ambito della salute, della sicurezza e dell’ordine pubblico, non osta a che, allorché esse avvengono in condizioni normali, le attività di tali servizi possano essere organizzate, anche per quanto riguarda gli orari di lavoro dei loro dipendenti, cosicché la deroga di cui all’art. 2, paragrafo 2, primo comma, della direttiva 89/391 è applicabile a siffatti servizi solo in circostanze di gravità e ampiezza eccezionali (vedi spec. sentenza del 5 ottobre 2004, da C-397/01 a C-403/01, punti 55 e 57 nonché del 12 gennaio 2006, C-132/04, punto 26).
Ma tale giurisprudenza non può essere interpretata nel senso di escludere che talune attività particolari del pubblico impiego presentino – anche quando sono esercitate in condizioni normali – caratteristiche talmente specifiche che la loro natura osta, in modo imperativo, a una pianificazione dell’orario di lavoro rispettosa delle prescrizioni imposte dalla direttiva 2003/88.
L’integrazione, continuativa e per un lungo periodo, nel nucleo familiare di un assistente genitoriale, di minori che, a motivo della loro situazione familiare difficile, presentano una particolare vulnerabilità, costituisce una misura appropriata per tutelare l’interesse superiore del minore, come sancito dall’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
In tali circostanze, il fatto di dover concedere all’assistente genitoriale, a intervalli regolari, il diritto di separarsi dal minore a lui affidato dopo un determinato numero di ore, a differenza di quanto sostiene la Commissione (che suggerisce l’istituzione di un sistema di rotazione degli assistenti genitoriali o il ricorso ad assistenti genitoriali sostituti, ai quali i minori in affido sarebbero dati in custodia durante i giorni di ferie riconosciuti agli assistenti genitoriali che li avrebbero principalmente a carico), comprometterebbe un aspetto essenziale del sistema di accoglienza instaurato dalle autorità rumene, ossia il mantenimento continuato e per un lungo periodo di un legame privilegiato tra il minore in affido e l’assistente genitoriale, caratterizzato dall’integrazione di tale minore nel nucleo familiare dell’assistente genitoriale.
Ne deriva che le particolarità inerenti all’attività di assistente genitoriale di cui al procedimento principale ostano imperativamente all’applicazione dell’art. 5 relativo al riposo settimanale e dell’art. 6 relativo alla durata massima settimanale del lavoro della direttiva 2003/88.
Peraltro, in base all’art. 17 della direttiva medesima se è possibile derogare, a determinate condizioni, alle suddette disposizioni lo stesso non può dirsi per quanto riguarda il diritto alle ferie annuali, quale stabilito all’art. 7 di detta direttiva, anche se quando, a motivo delle particolarità che sono loro inerenti, determinate attività specifiche del pubblico impiego sono escluse dall’ambito di applicazione della direttiva 2003/88, l’art. 2, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 89/391 impone comunque alle autorità competenti di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori «per quanto possibile» (ordinanza del 14 luglio 2005, C-2/04, punto 56).
Nella specie risulta che le autorità rumene, conformemente al citato art. 2, paragrafo 2, secondo comma, hanno vigilato a che, per quanto riguarda l’organizzazione dell’orario di lavoro, la sicurezza e la salute degli assistenti genitoriali siano assicurate per quanto possibile, stabilendo che il contratto stipulato tra l’assistente genitoriale e il relativo datore di lavoro includa elementi relativi alla pianificazione del tempo libero dell’assistente genitoriale, in coordinamento con il programma delle attività del minore in affido. Inoltre, la normativa nazionale riconosce agli assistenti genitoriali un diritto a ferie annuali retribuite, pur subordinando il loro diritto di fruire di tali ferie senza il minore loro affidato a un’autorizzazione del datore di lavoro, che deve rispettare la corretta realizzazione del compito di tutela del minore interessato.
Com’è noto, le limitazioni al diritto, riconosciuto a ogni lavoratore dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite possono essere previste nel rispetto delle condizioni rigorose di cui all’art. 52, paragrafo 1, di quest’ultima e, segnatamente, del contenuto essenziale di tale diritto (vedi., in tal senso, sentenze del 6 novembre 2018, C-569/16 e C-570/16, punto 59, nonché del 6 novembre 2018, C-684/16, punto 54).
Le suddette limitazioni apportate dalla normativa nazionale al diritto degli assistenti genitoriali in argomento a periodi di riposo giornalieri e settimanali e alle ferie annuali retribuite rispettano le condizioni previste dall’art. 52, paragrafo 1, della Carta in quanto fanno salvo il contenuto essenziale del suindicato diritto e, inoltre, si rivelano necessarie alla realizzazione dell’obiettivo d’interesse generale riconosciuto dall’Unione, costituito dalla tutela dell’interesse superiore del minore sancito dall’art. 24 della Carta, come concepito dalla normativa rumena, e al quale risponde l’obbligo, per l’assistente genitoriale, di provvedere continuativamente all’integrazione del minore in affido nel suo nucleo familiare nonché allo sviluppo armonioso e alla cura di tale minore.
8.- La sentenza della Prima Sezione 21 novembre 2018, nella causa C-245/17.
Con la presente sentenza la Corte ha esaminato tre questioni pregiudiziali sottopostele dal Tribunal Superior de Justicia de Castilla-La Mancha (Corte superiore di giustizia di Castiglia-La Mancia, Spagna), in riferimento ad un giudizio instaurato da due docenti assunti per l’anno scolastico 2011/2012 e inquadrati come funzionari ad interim nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo determinato, che hanno impugnato il provvedimento di risoluzione del loro rapporto di lavoro (emesso il 29 giugno 2012, data della conclusione del periodo di lezioni) e hanno chiesto il riconoscimento del loro diritto a mantenere i rispettivi posti di lavoro fino al 14 settembre 2012, sostenendo principalmente il contrasto con il principio di parità di trattamento delle disposte cessazioni dal servizio, in quanto esse avevano comportato una disparità di trattamento tra i docenti a seconda della loro qualità di funzionari ad interim o di funzionari di ruolo, atteso che questi ultimi conservano il loro posto dopo la conclusione del periodo di lezioni.
Queste le questioni pregiudiziali proposte:
1) se la conclusione del periodo di lezioni dell’anno scolastico possa essere ritenuta una ragione oggettiva tale da giustificare un trattamento diverso nei confronti dei docenti inquadrati come i predetti funzionari ad interim rispetto ai funzionari di ruolo;
2) se sia compatibile con il principio di non discriminazione di tali docenti inquadrati come funzionari ad interim il fatto che, all’atto della cessazione dal servizio al termine del periodo di lezioni, non possono godere delle proprie ferie come giorni di riposo effettivo, sostituiti dal versamento dei corrispondenti emolumenti;
3) se sia compatibile con il principio di non discriminazione di tali funzionari, i quali rientrerebbero nella nozione di lavoratori a tempo determinato, una norma astratta come la tredicesima disposizione aggiuntiva della [legge finanziaria per l’anno 2012] che, per motivi di risparmio di bilancio e raggiungimento degli obiettivi di disavanzo, ha sospeso, fra le altre misure, l’applicazione dell’[accordo del 10 marzo 1994], circa il versamento di retribuzioni a titolo di ferie per i mesi di luglio e agosto relativamente alle supplenze di oltre cinque mesi e mezzo, nonché per la copertura di posti vacanti, e ha imposto, nei confronti del personale docente temporaneo non universitario, il pagamento delle ferie pari a 22 giorni lavorativi, qualora l’assunzione come funzionario ad interim copra l’intero anno, oppure ai giorni proporzionalmente corrispondenti.
Alla prima questione la Corte ha risposto nel seguente modo:
la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che consente a un datore di lavoro di porre fine, alla data di conclusione del periodo di lezioni, al rapporto di lavoro a tempo determinato dei docenti assunti per un anno scolastico in qualità di funzionari ad interim, per il motivo che le condizioni di necessità e di urgenza alle quali era subordinata la loro assunzione non sono più soddisfatte a tale data, mentre invece permane il rapporto di lavoro a tempo indeterminato dei docenti aventi la qualità di funzionari di ruolo.
Alle altre due questioni la Corte ha risposto dichiarando che:
l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88/CE, deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che consente di porre fine, alla data di conclusione del periodo di lezioni, al rapporto di lavoro a tempo determinato dei docenti assunti per un anno scolastico in qualità di funzionari ad interim, quantunque ciò privi tali docenti dei giorni di ferie annuali estive retribuite inerenti a tale anno scolastico, purché tali docenti percepiscano un’indennità finanziaria a tale titolo.
La Corte ha, innanzi tutto, sottolineato che il giudice del rinvio, con la prima questione, ha domandato se la prevista conclusione del rapporto di lavoro dei docenti a tempo determinato al termine del periodo delle lezioni annuali possa considerarsi in contrasto con il principio di non discriminazione – come attuato e concretizzato dalla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro – rispetto alla situazione stabilita per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato dei docenti che rientrano nello statuto dei funzionari di ruolo, che non termina alla conclusione del periodo di lezioni, sicché questi ultimi conservano la loro assegnazione anche durante il periodo delle ferie annuali estive.
Al riguardo la Corte precisa che, nella specie, la disparità di trattamento viene lamentata facendosi esclusivo riferimento alla circostanza che il rapporto di lavoro dei ricorrenti ha avuto termine ad una certa data, mentre quello dei docenti di ruolo è stato mantenuto oltre quella data.
Gli interessati non hanno chiesto di essere effettivamente trattati, quanto alla durata del loro rapporto di lavoro, allo stesso modo dei loro colleghi aventi qualità di funzionari di ruolo, atteso che questi ultimi sono destinati ad occupare i loro posti anche dopo il 14 settembre 2012. Le loro domande sono volte, in realtà, a reclamare il medesimo trattamento che viene concesso ai docenti che sono stati assunti in qualità di funzionari ad interim fino al 14 settembre negli anni scolastici precedenti.
Ma la durata limitata del rapporto costituisce la caratteristica essenziale che distingue un rapporto di lavoro a tempo determinato da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Certamente non può, quindi, configurarsi una discriminazione vietata dall’accordo quadro perché la disparità di trattamento lamentata dagli interessati non può, in ogni caso, rientrare nell’ambito della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro.
D’altra parte, la privazione della possibilità di godere effettivamente delle ferie annuali, la mancata percezione di una retribuzione per i mesi di luglio, agosto e settembre dell’anno considerato e la mancata acquisizione di anzianità per tali mesi ai fini dell’avanzamento di carriera, sono da considerare soltanto conseguenze dirette della cessazione dei rapporti di lavoro a termine, cessazione che non costituisce una disparità di trattamento vietata dall’accordo quadro.
Invero, il principio di non discriminazione è stato attuato e concretizzato dall’accordo quadro soltanto riguardo alle differenze di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato che si trovano in situazioni comparabili (sentenza del 5 giungo 2018, C-677/16, punti 50-51 e giurisprudenza ivi citata). E, secondo costante giurisprudenza della Corte, per valutare se le persone interessate esercitino un lavoro identico o simile nel senso dell’accordo quadro, occorre, in conformità alle clausole 3, punto 2, e 4, punto 1, di quest’ultimo, tenere conto di un insieme di fattori, come la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego.
La circostanza che, alla conclusione del periodo di lezioni, il rapporto di lavoro dei docenti rientranti nell’ambito di applicazione dello statuto dei funzionari di ruolo non cessi o che tale rapporto non venga sospeso, è inerente alla natura stessa del rapporto di lavoro di detti lavoratori i quali sono destinati a occupare un posto permanente proprio perché sono assunti nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
I rapporti di lavoro a tempo determinato, come quelli degli interessati, sono al contrario caratterizzati, come risulta dalla clausola 3, punto 1, dell’accordo quadro, dal fatto che il datore di lavoro e il lavoratore hanno convenuto fin dalla conclusione di tali rapporti che questi ultimi cesseranno al verificarsi di condizioni determinate in maniera oggettiva, quali il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico o ancora il raggiungimento di una certa data (vedi, in tal senso, sentenze del 5 giungo 2018, C-574/16, punto 57, e C-677/16, punto 60).
Ciò comporta che, nella specie, spetta unicamente al giudice del rinvio verificare se il datore di lavoro abbia posto fine al rapporto di lavoro degli interessati prima del verificarsi della condizione determinata in maniera oggettiva dalle parti contrapposte dinanzi ad esso. Ma se risulta che questo è quanto avvenuto, tale circostanza non potrebbe rilevare come violazione del principio di non discriminazione ma costituire una violazione da parte del datore di lavoro dei termini contrattuali che disciplinano tali rapporti di lavoro, la quale potrebbe, se del caso, essere sanzionata ai sensi delle disposizioni nazionali applicabili.
Quanto alla seconda e alla terza questione, la Corte ricorda, in primo luogo, che per assicurare una tutela efficace della sicurezza e della salute dei lavoratori di norma deve essere data loro la possibilità di beneficiare di un riposo effettivo. Pertanto l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 consente di sostituire il diritto alle ferie annuali retribuite con una compensazione finanziaria soltanto nel caso in cui sia cessato il rapporto di lavoro (sentenza del 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punto 23, e ordinanza del 21 febbraio 2013, C-194/12, punto 28).
Nella specie è pacifico che i rapporti di lavoro degli interessati sono terminati.
Quindi, ai sensi dell’art. 7 cit., il legislatore spagnolo poteva prevedere il versamento di un’indennità finanziaria in favore dei suddetti docenti per il periodo di ferie annuali retribuite inerenti all’anno scolastico in cui hanno prestato servizio, delle quali non hanno potuto godere.
9.- Osservazioni
Le sentenze illustrate hanno affermato plurimi, importanti principi sia sul diritto del lavoratore subordinato alle ferie annuali retribuite e sui conseguenti oneri a carico del datore di lavoro e del lavoratore (pubblici e/o privati) sia con riguardo all’efficacia diretta dell’art. 7 della direttiva 2003/88 sia sul ruolo da attribuire, ai fini interpretativi, all’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali UE.
Quanto al diritto dei lavoratori dipendenti alle ferie retribuite, si deve ricordare che nel nostro ordinamento tale diritto è configurato come diritto irrinunciabile, costituzionalmente garantito dall’art. 36, terzo comma, Cost. che, a partire dalla sentenza n. 76 del 1962 è stato oggetto di molteplici importanti pronunce della Corte costituzionale nella quali si è sottolineata la duplice finalità di tale diritto, rappresentata, secondo la giurisprudenza costituzionale, per il lavoratore dal ripristino delle energie psicofisiche spese nella prestazione lavorativa e/o dalla partecipazione alla vita familiare e sociale e per il datore di lavoro dall’interesse ad un’effettiva la ripresa e un rafforzamento delle energie del lavoratore affinché il suo successivo apporto all’impresa sia più proficuo di risultati (Corte cost., sentenza n. 616 del 1987).
Quindi, in base a questa giurisprudenza, il diritto alle ferie, riconosciuto a ogni lavoratore, senza distinzioni di sorta (Corte cost. sentenza n. 189 del 1980), mira a reintegrare le energie psico-fisiche del lavoratore e a consentirgli lo svolgimento di attività ricreative e culturali, nell’ottica di un equilibrato «contemperamento delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore» (Corte cost. sentenze n. 66 del 1963 e n. 95 del 2016).
La garanzia di un effettivo godimento delle ferie è stata tutelata sia dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. sentenze n. 297 del 1990 e n. 616 del 1987) sia da quella della CGUE (tra le tante: Grande Sezione, sentenza 20 gennaio 2009, C-350/106 e C-520/06), secondo prospettive convergenti, anche attraverso l’affermazione secondo cui tale diritto inderogabile sarebbe violato se la cessazione dal servizio vanificasse, senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al lavoratore.
Nella medesima ottica, la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato, riconoscono al lavoratore il diritto di beneficiare di un’indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando difetti una previsione negoziale esplicita che consacri tale diritto, ovvero quando la normativa settoriale formuli il divieto di “monetizzare” le ferie (Corte di cassazione, Sezione lavoro, 19 ottobre 2000, n. 13860 e 1 febbraio 2018, n. 2496; Consiglio di Stato, Sezione sesta, sentenza 8 ottobre 2010, n. 7360).
Questa favorevole situazione di partenza è stata da sempre rafforzata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che, in molteplici occasioni, ha ribadito la natura inderogabile del diritto fondamentale del lavoratore alle ferie retribuite, in quanto finalizzato a «una tutela efficace della .. sicurezza e della ... salute» del lavoratore stesso (vedi, per tutte: CGUE, sentenza 26 giugno 2001, C-173/99, punti 43 e 44; Grande Sezione, sentenza 24 gennaio 2012, C-282/10, entrambe richiamate da Corte cost. sentenza n. 95 del 2016 cit.).
È indubbio che tale rafforzamento è stato “incrementato” dalle sentenze dianzi illustrate, specialmente grazie l’affermazione dei seguenti principi, in parte nuovi e in parte ribaditi.
9.1.- Il lavoratore è parte debole del rapporto di lavoro.
Già in passato la Corte aveva affermato il principio secondo cui il lavoratore deve essere considerato come la “parte debole” del rapporto di lavoro, cosicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di influenzare la volontà dell’altro contraente o di imporgli una restrizione dei suoi diritti senza che questi abbia manifestato esplicitamente il suo consenso a tale proposito . Ma è significativo che tale principio venga ribadito, non essendo le precedenti affermazioni al riguardo recenti (vedi, per tutte: CGUE, Grande Sezione, sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite C-397/01 a C-403/01 nonché sentenza 25 novembre 2010, C-429/09, punti 80 e 81).
Nelle presenti sentenze tale principio viene collegato a quello dell’incompatibilità con gli obiettivi del diritto alle ferie annuali retribuite di incentivi a rinunciare alle ferie come periodo di riposo ovvero di sollecitazioni in tal senso da parte dei datori di lavoro.
Ma comunque si tratta di un principio di applicazione generale da parte della Corte.
Simile statuizione della CGUE potrebbe comportare una rivitalizzazione anche nella giurisprudenza nazionale (in particolare della Corte di cassazione) dell’applicazione del principio del “favor lavoratoris” che, nella più recente giurisprudenza di legittimità, riceve applicazione principalmente – se non esclusivamente – per la soluzione delle questioni di giurisdizione che implichino la soluzione di un conflitto fra giudice nazionale e giudice di un altro Stato, peraltro sempre richiamandosi la giurisprudenza della CGUE secondo cui in accordo pure con quanto stabilito dal regolamento CE n. 593/2008 del 17 giugno 2008, l’individuazione del giudice competente per le relative controversie deve ispirarsi ai principi del “favor lavoratoris”, in quanto le parti più deboli del contratto devono essere protette «tramite regole di conflitto di leggi più favorevoli» (CGUE sentenze 15 marzo 2011, C-29/10; 10 aprile 2003, C-437/00; 27 febbraio 2002 C-37/00; 9 gennaio 1997, C 383/95; 13 luglio 1993, C 125/92). Infatti, tale orientamento è stato recepito anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (vedi, per tutte: Cass. SU 13 dicembre 2007, n. 26089; Id. 9 gennaio 2008, n. 169; Id. 17 luglio 2008, n. 19595), in applicazione dell’usuale criterio ermeneutico dell’interpretazione del diritto nazionale in conformità con il diritto UE come interpretato dalla CGUE (vedi, al riguardo: Cass. 12 settembre 2014, n. 19301; Cass. SU 20 febbraio 2017, n. 4308).
9.2.- Oneri del datore di lavoro e del lavoratore.
L’onere della effettiva fruizione del diritto alle ferie non è interamente posto a carico del lavoratore attraverso la presentazione della relativa richiesta, in quanto il datore di lavoro è tenuto, in considerazione del carattere imperativo del diritto alle ferie annuali retribuite e al fine di assicurare l’effetto utile dell’art. 7 della direttiva 2003/88, ad assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in grado di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo, e nel contempo informandolo – in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e il relax cui esse sono volte a contribuire – del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato o, ancora, alla cessazione del rapporto di lavoro se quest’ultima si verifica nel corso di un simile periodo.
Al riguardo è sufficiente che il datore di lavoro si assicuri che il lavoratore sia messo in condizione di esercitare tale diritto, non essendo certamente tenuto ad imporre ai dipendenti di esercitare effettivamente il loro diritto a ferie annuali retribuite.
Ma è importante sottolineare che la Corte, nelle sentenze qui illustrate, si sofferma sul fatto che è posto a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché i lavoratori fossero posti in condizione di fruire effettivamente delle ferie annuali retribuite alle quali avevano diritto. Se una simile prova non viene offerta l’estinzione del diritto alle ferie e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il correlato mancato versamento di un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute si pongono in contrasto con l’art. 7 della direttiva 2003/88. Mentre se il datore di lavoro è in grado di assolvere l’onere probatorio gravante sul medesimo a tale riguardo, e risulti quindi che il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il proprio diritto alle medesime, il suddetto art. 7 non osta né alla perdita del diritto stesso né, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla mancanza di un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute .
In sintesi, anche sul datore di lavoro incombe il suddetto onere probatorio, entrambe le parti del rapporto sono tenute ad assicurare l’effetto utile del riconoscimento del diritto alle ferie annuali retribuite (rappresentato dal contribuire ad offrire all’interessato riposo e relax necessari per tutelare la sua salute): il datore di lavoro deve in piena trasparenza porre il lavoratore in grado di fruire delle ferie annuali retribuite (informandolo al riguardo in modo accurato e in tempo utile delle conseguenze della mancata fruizione) ma anche il lavoratore, se sia stato debitamente informato, è tenuto a prendere le ferie annuali che gli spettano e non può astenersi deliberatamente dalla relativa fruizione al fine di incrementare la retribuzione al momento della cessazione del rapporto di lavoro, perché, in tale evenienza, il diritto dell’Unione non osta alla perdita del diritto di usufruire delle ferie né, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla perdita della indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite e non godute. Tali principi sono validi sia per il lavoro pubblico che per quello privato.
Infatti, l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 è finalizzato a garantire che il lavoratore possa beneficiare di un riposo effettivo per assicurare una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute e per questo prevede che il periodo minimo di ferie annuali retribuite possa essere sostituito da un’indennità finanziaria solo in caso di fine del rapporto di lavoro. Per evitare che a causa dell’impossibilità della fruizione effettiva delle ferie annuali retribuite conseguente alla cessazione del rapporto, il lavoratore non possa più beneficiare in alcun modo di tale diritto neppure in forma pecuniaria la suddetta disposizione stabilisce che al lavoratore debba essere corrisposta un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti .
Il suindicato diritto a un’indennità finanziaria è assoggettato esclusivamente a due condizioni: la cessazione del rapporto di lavoro e il mancato godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali retribuite a cui aveva diritto alla data in cui il rapporto è cessato, senza venga attribuita alcuna rilevanza alla causa della cessazione rapporto di lavoro.
Pertanto l’obbligo di pagamento dell’indennità in oggetto non si estingue nell’ipotesi in cui la fine del rapporto è dovuta al decesso del lavoratore, visto che in caso contrario un avvenimento fortuito comporterebbe retroattivamente la perdita totale del diritto stesso alle ferie annuali retribuite, quale sancito dal suddetto art. 7.
Del resto, la Corte ha già affermato che il lavoratore, al momento del pensionamento, ha diritto, alla suddetta indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute a causa, ad esempio, del fatto che di un periodo di inattività professionale per malattia.
Nel suo aspetto finanziario, il diritto alle ferie annuali retribuite maturato da un lavoratore ha natura prettamente patrimoniale e, in quanto tale, è dunque destinato a confluire nel patrimonio dell’interessato, quindi il decesso di quest’ultimo non può privare retroattivamente tale patrimonio – e, di conseguenza, quelli cui esso è destinato a essere devoluto per via successoria – del godimento effettivo di detta componente patrimoniale del diritto alle ferie annuali retribuite .
9.3.- Il diritto alle ferie retribuite come pilastro del diritto sociale dell’Unione europea.
Il riconoscimento del diritto alle ferie annuali retribuite a ogni lavoratore indipendentemente dal suo stato di salute e anche ai suoi eredi in caso di decesso del lavoratore ha il suo fondamento nel principio, affermato dalla giurisprudenza costante della Corte e ribadito dalla maggioranza delle sentenze qui illustrate, secondo cui l’inderogabile e imperativo diritto alle ferie annuali retribuite ‒ comprendente il diritto alle ferie annuali «retribuite» in quanto tale e il diritto, intrinsecamente collegato al primo, a un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro ‒ deve essere considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, che va sempre garantito direttamente o indirettamente con la corresponsione di una indennità .
Si deve però sottolineare che nella presenti sentenze tale affermazione è accompagnata da due importanti precisazioni.
In primo luogo, infatti, la Corte sottolinea che il suddetto principio trae origine sia da atti elaborati dagli Stati membri a livello di Unione ‒ come la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori peraltro menzionata all’art. 151 TFUE ‒ sia da atti internazionali ai quali gli Stati membri hanno partecipato o aderito. Tra questi ultimi la Corte menziona: a) la Carta sociale europea, di cui tutti gli Stati membri sono parti in quanto vi hanno aderito nella sua versione originaria, nella sua versione riveduta o nelle due versioni, anch’essa contemplata all’art. 151 TFUE; b) la convenzione n. 132 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, del 24 giugno 1970, relativa ai congedi annuali pagati, come riveduta, la quale indica dei principi dell’OIL di cui il considerando 6 della direttiva 2003/88 precisa che occorre tener conto.
In secondo luogo la Corte precisa che il diritto alle ferie annuali retribuite non solo riveste una particolare importanza quale principio di diritto sociale dell’Unione, ma è anche espressamente sancito all’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cui l’art. 6, paragrafo 1, TUE riconosce il medesimo valore giuridico dei Trattati.
9.4.- Il diritto alle ferie retribuite come diritto di ogni lavoratore dipendente sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Quest’ultima precisazione è già fatta in precedenza dalla Corte ma, nelle presenti sentenze , viene ulteriormente approfondita e rafforzata.
La Corte, infatti, muovendo dall’analisi del testo dell’art. 31, paragrafo 2, cit. ove il diritto a «ferie annuali retribuite» è riconosciuto in termini assoluti (senza cioè rinviare ai «casi e alle condizioni previsti dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali», come accade, ad esempio nell’art. 27 della Carta ), rileva che tale riconoscimento riflette il principio essenziale del diritto sociale dell’Unione al quale non è possibile derogare se non nel rispetto delle rigorose condizioni di cui all’art. 52, paragrafo 1, della Carta e, in particolare, del (duplice) contenuto essenziale del diritto fondamentale alle ferie annuali retribuite.
Pertanto il diritto a un periodo di ferie annuali retribuite, sancito per ogni lavoratore dall’art. 31, paragrafo 2, cit. riveste, quanto alla sua stessa esistenza, carattere allo stesso tempo imperativo e incondizionato, non essendo necessaria per il relativo riconoscimento alcuna concretizzazione ad opera delle disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale, le quali sono solo chiamate a precisare la durata esatta delle ferie annuali retribuite e, eventualmente, talune condizioni di esercizio di tale diritto.
Quindi la suddetta disposizione è di per sé sufficiente a conferire ai lavoratori un diritto invocabile, in quanto tale, in una controversia contro il relativo datore di lavoro, purché in presenza di una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione e, di conseguenza, rientrante nell’ambito di applicazione della Carta.
9.5.- Interpretazione conforme al diritto UE e disapplicazione della normativa nazionale contraria al diritto UE.
Un elemento di grande rilevanza delle sentenze qui illustrate è rappresentato dalla soluzione da esse data agli strumenti interpretativi a disposizione dei giudici nazionali per riconoscere il diritto incondizionato e imperativo alle ferie in presenza di normative interne che non siano conformi al diritto UE in materia.
Al riguardo la Corte, innanzi tutto, ricorda il proprio costante indirizzo secondo cui la facoltà per il giudice nazionale di disapplicare la normativa interna contraria al diritto UE è esercitabile solo se risulta impossibile interpretala in modo da garantirne la conformità, nella specie all’art. 7 della direttiva 2003/88 e all’art. 31, paragrafo 2, della Carta .
In proposito viene sottolineato che, nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali sono tenuti a interpretarlo per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288, terzo comma, TFUE e si insiste sul fatto che il principio di interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti del loro potere, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo complesso e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima.
Viene anche ribadito il costante orientamento della Corte in base al quale l’esigenza di un’interpretazione conforme siffatta include in particolare l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva, sicché un giudice nazionale non può, in particolare, validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata costantemente interpretata in ambito nazionale in un senso che è incompatibile con tale diritto.
Per l’ipotesi in cui non sia possibile fare ricorso all’interpretazione conforme al diritto UE la Corte, nelle sentenze qui illustrate , ha potenziato gli strumenti a disposizione del giudice nazionale per la disapplicazione.
Ciò è avvenuto lungo due direttrici.
Da un lato la Corte ha, infatti, finalmente affermato in modo chiaro che l’art. 7, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2003/88 soddisfa i criteri di incondizionalità e di sufficiente precisione richiesti per beneficiare di un effetto diretto , sicché le disposizioni ivi previste sono suscettibili di essere direttamente invocate nell’ambito di una controversia dinanzi ai giudici nazionali allo scopo di garantire la piena efficacia del diritto alle ferie annuali retribuite e di disapplicare ogni disposizione di diritto nazionale contraria.
Ma, la Corte ricorda anche che, in base alla propria costante giurisprudenza, tale effetto diretto non può prodursi nelle controversie tra privati perché estendere l’invocabilità di una disposizione di una direttiva non recepita, o recepita erroneamente, all’ambito dei rapporti tra privati equivarrebbe a riconoscere all’Unione il potere di istituire con effetto immediato obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti.
Il suddetto effetto può prodursi, quindi, solo quando una delle parti del giudizio sia una parte pubblica intesa in senso ampio, indipendentemente dalla veste, di datore di lavoro o di pubblica autorità nella quale si trova in giudizio agisce. Deve trattarsi, cioè, di uno Stato membro e/o di tutti gli organi della sua amministrazione, comprese le autorità decentrate oppure di organismi ed enti soggetti all’autorità o al controllo dello Stato e/o cui sia stato demandato da uno Stato membro l’assolvimento di un compito di interesse pubblico e che dispongono a tal fine di poteri che eccedono quelli risultanti dalle norme applicabili nei rapporti fra privati.
Per tali ragioni la Corte sia nella sentenza 6 novembre C-619/16 sia per uno dei due giudizi principali di cui alla coeva sentenza sulle cause riunite C-569/16 e C-570/16 ha fatto riferimento alla possibilità per il giudice nazionale di fare ricorso all’efficacia diretta dell’art. 7 della direttiva 2003/88, eventualmente anche per disapplicare le normativa interne contrarie al diritto UE. Ciò in quanto in tali giudizi si contestava il comportamento di datori di lavoro pubblici.
Per le ipotesi di controversie fra privati, nelle quali il suddetto effetto diretto non si può produrre, la Corte ‒ con un’affermazione del tutto innovativa ‒ ha dichiarato che allo scopo di garantire la piena efficacia del diritto alle ferie annuali retribuite, in questi casi il giudice nazionale ove necessario può fare ricorso alla disapplicazione della normativa interna contraria al diritto UE facendo riferimento all’art. 31, paragrafo 2, della Carta UE, disposizione che è di per sé sufficiente a conferire ai lavoratori un diritto invocabile in quanto tale in una controversia contro il loro datore di lavoro privato.
La Corte ha anche aggiunto che si deve trattare di una controversia in cui si discuta di una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione, come tale rientrante nell’ambito di applicazione della Carta.
Per quanto riguarda l’effetto così prodotto dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta nei confronti dei datori di lavoro che hanno la qualità di privati, la Corte ha sottolineato che:
a) l’art. 51, paragrafo 1, della Carta, nello stabilire che le sue disposizioni si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione, detto art. 51, paragrafo 1, non affronta, tuttavia, la questione relativa alla possibilità che tali soggetti privati si trovino, all’occorrenza, direttamente obbligati al rispetto di determinate disposizioni di tale Carta e non può, pertanto, essere interpretato nel senso che esso esclude sistematicamente una simile possibilità;
b) infatti, se talune disposizioni di diritto primario si rivolgono, in primis, agli Stati membri ciò non porta, di per sé, ad escludere che esse possano applicarsi nei rapporti fra privati;
c) inoltre nella giurisprudenza della Corte è già stato ammesso che il divieto sancito all’art. 21, paragrafo 1, della Carta è di per sé sufficiente a conferire ai soggetti privati un diritto invocabile in quanto tale in una controversia che li vede opposti a un altro soggetto privato, senza, quindi, che vi osti l’art. 51, paragrafo 1, della Carta;
d) infine il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite‒ di cui all’art. 31, paragrafo 2, cit. ‒ implica, per sua stessa natura, un corrispondente obbligo in capo al datore di lavoro, ossia quello di concedere tali ferie retribuite o un’indennità per le ferie annuali retribuite non godute alla cessazione del rapporto di lavoro. In base a tale disposizione, pertanto, non è consentito ai datori di lavoro invocare una normativa nazionale per sottrarsi agli obblighi cui sono tenuti in forza del diritto fondamentale garantito dalla suddetta disposizione.
È la prima volta che la Corte di giustizia riconosce un simile effetto (c.d. efficacia diretta orizzontale) ad una norma della Carta dei diritti relativa ad un diritto fondamentale dei lavoratori, in quanto tali.
Finora, infatti, la Carta dei diritti risulta avere avuto spazio nella giurisprudenza della CGUE soprattutto per il diritto relativo all’accesso alla giustizia (art. 47), alla protezione dei dati personali (art. 41), alla non discriminazione (art. 21), nonché per il diritto di proprietà (art. 17) e quello di libertà di impresa (art. 16).
E l’efficacia diretta orizzontale è stata riconosciuta al divieto di discriminazioni.
Quindi non si può che commentare favorevolmente una simile svolta della Corte, ma è opportuno anche considerarne i limiti applicativi e tenere presente che essa è stata “combinata” con il riconoscimento dell’effetto diretto all’art. 7 della direttiva 2003/88.
Questa osservazione può, di per sé, portare ad escludere che tra le sentenze qui illustrate e la sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017 vi sia un qualche collegamento, anche solo indiretto.
Del resto trovare simili collegamenti può essere utile solo con la finalità di attribuire un plus di tutela ai diritti fondamentali dei lavoratori e di tutti (come più volte auspicato dalla Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 317 del 2009 e dall’ordinanza n. 31 del 2011), operazione quanto mai utile visto che tali diritti vengono sempre di più violati, con esponenziale aumento delle diseguaglianze.
Questa chiave di lettura risulta confermata anche dalla recente e interessante ordinanza 10 gennaio 2019, n. 451 con la quale la Corte di cassazione, consapevole delle sentenze qui illustrate, ha sottoposto, in via pregiudiziale, alla CGUE la seguente questione interpretativa: “se l’art. 7 par. 2 della direttiva 2003/88 e l’art. 31 punto 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, anche separatamente considerati, debbano essere interpretati nel senso che ostino a disposizioni o prassi nazionali in base alle quali, cessato il rapporto di lavoro, il diritto al pagamento di una indennità pecuniaria per le ferie maturate e non godute (e per un istituto giuridico quale le cd. ‘Festività soppresse’ equiparabile per natura e funzione al congedo annuale per ferie) non sia dovuto in un contesto in cui il lavoratore non abbia potuto farlo valere, prima della cessazione, per fatto illegittimo (licenziamento accertato in via definitiva dal giudice nazionale con pronuncia comportante il ripristino retroattivo del rapporto lavorativo) addebitale al datore di lavoro, limitatamente al periodo intercorrente tra la condotta datoriale e la successiva reintegrazione”.