Testo integrale con note e bibliografia 

 

1. Discutere dei rapporti fra la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e le carte costituzionali degli stati membri dell’Unione è impresa azzardata per chiunque, perché equivale a immergersi nel magmatico fluire delle pronunce con cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e le diverse corti costituzionali dei singoli stati (e in particolare la nostra) stanno faticosamente tentando di rimediare all’assenza di una dimensione europea di tipo costituente, idonea a combinare più compiutamente quanto al momento esse tentano in via di supplenza di comporre: vale a dire, il problema delle diverse sovranità dell’Unione Europea, da un lato, e degli stati membri che quella sovranità hanno ad essa ceduto, dall’altro.
Il processo di integrazione tra i diversi ordinamenti cui siamo sottoposti in virtù delle cessioni di sovranità realizzatesi negli ultimi decenni continua infatti a dibattersi in un circolo non virtuoso di pochezza legislativa e di ipertrofia giurisprudenziale fra Corti di diverso livello istituzionale, che tentano in autonomia e spesso in modo autoreferenziale di preservare (ma non di rado anche di estendere) le proprie competenze . E se ha ragione la dottrina meno incline all’incantamento europeista a rilevare sarcasticamente che, più che un “dialogo fra le Corti”, è in atto tra di esse una vera e propria actio finium regundorum , bisogna aggiungere che gli arresti relativamente sicuri cui si era giunti (almeno per ciò che riguarda il nostro Paese) con le sentenze della Corte di Giustizia sul caso Simmenthal e della Corte costituzionale sul caso Granital sono stati recentemente rimessi in discussione in conseguenza dell’irrompere, nello scenario delle fonti, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, altrimenti nota come Carta di Nizza.
Non è superfluo, prima di esaminare gli ultimi sviluppi della querelle, ricordare ciò che ci dice la tradizione ricevuta in materia di efficacia diretta delle disposizioni di diritto dell’Unione.
Sappiamo tutti che le disposizioni dei Trattati istitutivi hanno nel nostro ordinamento lo stesso impatto di una normativa internazionale pattizia: esse infatti richiedono, per la loro entrata in vigore, l’esaurimento del procedimento costituzionalmente previsto per la ricezione dei trattati internazionali, che consiste nella legge di autorizzazione del Presidente della Repubblica alla ratifica e nel c.d. ordine di esecuzione, che sono normalmente oggetto di un unico testo legislativo.
Altrettanto noto è che codesta procedura non è prevista per il diritto comunitario “derivato”, ossia per il diritto prodotto dagli organi dell’Unione Europea nell’ambito delle competenze che sono proprie di essa, si tratti di regolamenti, direttive o decisioni: per il diritto derivato, infatti, possono essere tutt’al più necessari quei provvedimenti legislativi o amministrativi che le stesse disposizioni comunitarie eventualmente prefigurano o impongono ai fini della loro puntuale attuazione .
Ora, l’effetto diretto che si ricollega al diritto comunitario di fonte pattizia o derivata consiste precisamente nella sua idoneità a creare diritti e obblighi direttamente in capo ai singoli, siano essi persone fisiche o giuridiche, senza cioè che lo Stato membro debba in qualche modo intervenire all’uopo con una legge o un provvedimento amministrativo. L’effetto diretto, più in particolare, si concreta nella possibilità che il singolo faccia valere davanti ad un giudice nazionale una situazione giuridica soggettiva derivante direttamente dalla norma comunitaria e, specularmente, nell’obbligo dei pubblici poteri di far sì che il singolo possa godere dei diritti e/o venga tenuto all’adempimento degli obblighi che in suo favore (o a suo carico) prevede la norma comunitaria (principio c.d. di leale cooperazione) .
Non è inutile, ai nostri fini, ricordare che la teorica dell’effetto diretto delle norme comunitarie è nata non già in relazione all’unico atto comunitario che espressamente ne è provvisto, ossia il regolamento, ma in relazione ad una disposizione dei Trattati che palesemente era rivolta agli Stati membri: si tratta dell’attuale art. 30 TFUE, che testualmente prevede che «gli Stati membri si astengono dall’introdurre tra loro nuovi dazi doganali». In una causa promossa da una società di trasporti olandese, che si doleva che l’amministrazione finanziaria del suo Paese avesse imposto un certo dazio alle merci che essa trasportava, la Corte di Giustizia, investita della questione pregiudiziale d’interpretazione della disposizione citata, ebbe infatti ad affermare che il Trattato istitutivo dell’allora Comunità Economica Europea non si era limitato alla creazione di obblighi reciproci tra gli stati membri, com’è tipico del diritto internazionale, ma aveva realizzato «un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini» . Ed è precisamente in quella sentenza (nota con il nome della società olandese che ricorse in giudizio, Van Gend & Loos) che troviamo formulati per la prima volta i canoni ai quali la Corte di Giustizia si sarebbe poi costantemente attenuta per riconoscere efficacia diretta alle norme comunitarie, sia pattizie che derivate: per avere efficacia diretta, disse la Corte, deve trattarsi di una disposizione chiara, precisa e suscettibile di applicazione immediata, dunque non condizionata ad alcun provvedimento formale dello stato membro.
È sufficiente questo richiamo storico per intendere appieno le radici del conflitto, ora latente ora manifesto, che da sempre è in atto tra la Corte di Giustizia e le corti costituzionali nazionali. Nei Paesi in cui il controllo di costituzionalità delle leggi è accentrato, l’attribuzione di efficacia diretta a questa o quella norma comunitaria equivale infatti a conferire al giudice interno il potere di applicarla con preferenza rispetto alla norma nazionale, dunque di non applicare la norma nazionale con essa contrastante, ancorché essa sia pienamente in vigore. E a misura che la Corte di Giustizia, fin dal “peccato originale” della Van Gend & Loos, ha disinvoltamente attribuito efficacia diretta a norme comunitarie che, stando alla lettera dei Trattati istitutivi, proprio non ne potevano avere (il caso eclatante è quello delle direttive) , le corti costituzionali nazionali si sono ben presto trovate non soltanto a dover prendere atto della franca durezza con cui la Corte di Giustizia, fin dalla sentenza sul caso Simmenthal, aveva affermato il principio del primato del diritto comunitario, ma soprattutto davanti al rischio che la progressiva estensione (anche per via pretoria) dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione le estromettesse de facto dal compito loro affidato dalle carte costituzionali, vale a dire il controllo di legittimità costituzionale delle leggi dello Stato: eventualmente, come adesso prescrive l’art. 117 della nostra Costituzione, anche per tramite del parametro interposto costituito dal diritto dell’Unione.
Per converso, questa vicenda può dar conto di quello che è stato efficacemente definito come l’«innamoramento» del giudice nazionale comune nei confronti della Corte di Giustizia . Il potere di decidere una causa non applicando una legge che contrastasse con il diritto comunitario, senza alcun obbligo di rivolgersi previamente alla propria corte (o tribunale) costituzionale, ha infatti rappresentato una vertigine difficilmente resistibile per la tentazione, che in ogni giudice alberga, di farsi legislatore, tanto più che, con frequenza sempre crescente, la Corte di Giustizia gli ha demandato di compiere egli stesso quell’attività di bilanciamento fra diritti e interessi ritenuta necessaria all’applicazione della norma europea così come interpretata a seguito del rinvio pregiudiziale (è ciò che, nelle pronunce della Corte di Giustizia, si sottende con la formula secondo cui «spetta al giudice nazionale verificare...»). Ed è proprio in grazia di questa particolare sinergia tra giudici nazionali e Corte di Giustizia che l’ordinamento dell’Unione ha potuto in questi anni espandersi indisturbato: una sinergia che, per dirla con le caustiche parole di Carlo Castronovo, ha fatto assumere alla Corte di Giustizia le sembianze di una vera e propria «Sibilla cumana del diritto europeo», incaricata di compiere giudizi in cui si stabilisce la salvezza o la perdizione dei diritti nazionali al cospetto di un “diritto unitario” che non di rado prende corpo e fattezze nel momento stesso in cui la Corte medesima lo assume a parametro della propria decisione .

2. Come accennavamo prima, il nuovo casus belli è rappresentato dalla portata precettiva delle disposizioni della Carta dei diritti dell’Unione, approvata a Nizza nel 2000 e adesso richiamata dall’art. 6 TUE tra le fonti dotate di pari efficacia dei Trattati.
Una brevissima notazione storica, al riguardo, è necessaria. Come certo si ricorderà, una delle maggiori preoccupazioni degli stati membri dell’Unione al momento della redazione della Carta dei diritti era di impedire che per suo tramite si potessero estendere surrettiziamente le competenze dell’Unione a discapito di quelle proprie degli stati. Proprio per ciò, non soltanto ai redattori della Carta non fu conferito alcun compito innovativo circa il catalogo dei diritti fondamentali da includere in essa, dovendo essi piuttosto limitarsi a ricalcare quelli enumerati nelle varie costituzioni nazionali dei paesi membri e nei principali trattati internazionali, ma soprattutto si previde all’art. 51, paragrafo 2, della Carta stessa, che le sue disposizioni non avrebbero introdotto «competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità o per l’Unione», né avrebbero modificato «le competenze e i compiti definiti dai trattati». (La stessa formula si legge adesso nell’art. 6, paragrafo 2, TUE, e nelle Dichiarazioni nn. 1 e 18 allegate all’atto finale della Conferenza intergovernativa che ha adottato il Trattato di Lisbona.)
Analoghe finalità cautelative presiedettero alla stesura dell’art. 51, paragrafo 1, e dell’art. 52 della Carta: la distinzione che vi si legge tra “diritti” (da rispettare) e “principi” (da osservare) nel rispetto del principio di sussidiarietà e nell’attuazione del diritto dell’Unione aveva – com’è stato giustamente rilevato in dottrina – la duplice finalità di arginare l’efficacia immediatamente precettiva dei diritti sociali, ostacolandone l’applicazione giudiziale in assenza di un preventivo atto di intermediazione normativa da parte dell’Unione, e di impedire indebite ingerenze dell’Unione nei sistemi di welfare nazionali, in assenza di puntuali attribuzioni dei Trattati al riguardo .
Si capisce che, in questo scenario, la questione dei possibili effetti diretti delle norme della Carta sia rimasta inizialmente piuttosto in ombra, specialmente per ciò che concerneva l’attribuzione di un’efficacia di tipo orizzontale, ossia nei rapporti tra soggetti privati. La stessa Corte di Giustizia, pur ammettendo in linea generale che a talune disposizioni della Carta potesse attribuirsi efficacia orizzontale diretta (precisamente a quelle che enunciano “diritti” e non semplicemente “principi”, per riprendere l’anodina formulazione dell’art. 52, paragrafo 2, della Carta), pervenne in un primo momento a soluzioni contrastanti in ordine al dilemma se codesto effetto dovesse ascriversi alla mediazione delle direttive che vi davano attuazione o fosse piuttosto imputabile alle prescrizioni della Carta in quanto tale .
Un passo deciso in quest’ultimo senso è stato compiuto da una recente sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia, pubblicata il 6 novembre 2018 . Il caso che vi ha dato origine è piuttosto semplice: un impiegato di una società tedesca di diritto privato aveva chiesto al suo datore di lavoro di pagargli l’indennità sostitutiva delle ferie non godute, alla quale, in base al diritto tedesco, non avrebbe avuto diritto per non aver presentato tempestivamente la richiesta di fruirle, e il giudice adito era stato colto dal dubbio se una simile disposizione di diritto interno potesse contrastare con l’art. 7 della direttiva 2003/88 e l’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti, che, ai nostri fini, stabilisce che «ogni lavoratore ha diritto [...] a ferie annuali retribuite».
La Corte di Giustizia, investita della questione pregiudiziale d’interpretazione, ha risposto affermativamente. Prendendo le mosse dal rilievo secondo cui «il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88», i giudici di Lussemburgo hanno statuito che eventuali «limitazioni al diritto fondamentale alle ferie annuali retribuite sancito dall’articolo 31, paragrafo 2, della Carta» possono essere previste «solamente rispettando le rigorose condizioni previste all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, e, in particolare, il contenuto essenziale di tale diritto». E, dopo aver esortato il giudice del rinvio anzitutto a «verificare, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo complesso e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, se gli sia possibile pervenire a un’interpretazione di tale diritto che sia in grado di garantire la piena effettività del diritto dell’Unione», hanno precisato che «qualora sia impossibile interpretare una normativa nazionale come quella discussa nel procedimento principale in modo da garantirne la conformità all’articolo 7 della direttiva 2003/88 e all’articolo 31, paragrafo 2, della Carta, deriva da quest’ultima disposizione che il giudice nazionale, investito di una controversia tra un lavoratore e il suo ex datore di lavoro avente qualità di privato, deve disapplicare tale normativa nazionale e assicurarsi che, ove detto datore di lavoro non sia in grado di dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore fosse effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto ai sensi del diritto dell’Unione, il lavoratore medesimo non possa essere privato dei diritti da lui maturati a dette ferie annuali retribuite, né, correlativamente, e in caso di cessazione del rapporto di lavoro, essere privato dell’indennità finanziaria per le ferie non godute, il cui pagamento è direttamente a carico, in tal caso, del datore di lavoro interessato» .
Così facendo, la Corte di Giustizia ha fatto discendere l’efficacia diretta e orizzontale non già dalla previsione della direttiva 2003/88, bensì direttamente dall’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti, al cui contenuto ha riconosciuto «carattere allo stesso tempo imperativo e incondizionato», come tale «sufficiente a conferire ai lavoratori un diritto invocabile in quanto tale in una controversia contro il loro datore di lavoro, in una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione e, di conseguenza, rientrante nell’ambito di applicazione della Carta». Ed è tipica dell’apodittico argomentare della Corte la spiegazione che, ai §§ 76-78 della sentenza, possiamo leggere circa l’attribuzione di codesta efficacia diretta: «sebbene l’articolo 51, paragrafo 1, della Carta precisi che le sue disposizioni si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione, detto articolo 51, paragrafo 1, non affronta, tuttavia, la questione relativa alla possibilità che tali soggetti privati si trovino, all’occorrenza, direttamente obbligati al rispetto di determinate disposizioni di tale Carta e non può, pertanto, essere interpretato nel senso che esso esclude sistematicamente una simile possibilità», vuoi perché «il fatto che talune disposizioni di diritto primario si rivolgano, in primis, agli Stati membri non è idonea a escludere che esse possano applicarsi nei rapporti fra privati», vuoi perché la possibilità che una disposizione della Carta sia «di per sé sufficiente a conferire ai soggetti privati un diritto invocabile in quanto tale in una controversia che li vede opposti a un altro soggetto privato», oltre ad essere già stata affermata con riguardo all’art. 21 della Carta stessa, deve ritenersi propria dell’art. 31, in quanto «il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite implica, per sua stessa natura, un corrispondente obbligo in capo al datore di lavoro, ossia quello di concedere tali ferie retribuite o un’indennità per le ferie annuali retribuite non godute alla cessazione del rapporto di lavoro».
Com’è stato autorevolmente osservato a commento della sentenza di cui stiamo discutendo , la Corte di giustizia sembra così aver applicato alle disposizioni della Carta lo stesso criterio già in precedenza elaborato per il riconoscimento di efficacia diretta alle norme dei Trattati e delle direttive, in base al quale debbono ritenersi provviste di effetti diretti (nella specie di tipo orizzontale, non solo verticale) le norme della Carta che siano, ad un tempo, imperative e incondizionate nella loro applicazione: “imperative” perché chiare e precise, “incondizionate” perché la loro applicazione non richiede alcun atto successivo di diritto comunitario o di diritto nazionale che vi dia concreta attuazione. Tutte le disposizioni provviste di tali caratteri costituirebbero così “diritti” immediatamente invocabili in giudizio e richiederebbero la necessaria rimozione della regola di diritto interno contrastante; le altre, viceversa, conterrebbero soltanto “principi”, ossia regole certamente idonee ad orientare l’interpretazione in modo conforme agli obiettivi del diritto dell’Unione, ma non già a comportare la disapplicazione della norma interna con esse contrastante .
Naturalmente, resterebbe fermo che, per invocare un diritto contenuto nella Carta, bisognerebbe pur sempre trovarsi nell’ambito di una controversia che presupponga l’applicazione di una normativa nazionale che abbia implementato (o derogato al)la corrispondente normativa di diritto derivato dell’Unione: è solo l’esistenza di codesto diritto derivato che può attrarre una situazione giuridica nell’orbita della Carta. In altri termini, la Carta dei diritti non dovrebbe poter essere chiamata in causa allorché, nello specifico ambito, l’Unione non abbia adottato un proprio diritto derivato, perché ciò equivarrebbe a violare il principio contenuto nell’art. 51, paragrafo 2, della Carta stessa, secondo il quale le sue disposizioni non estendono «l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione», né introducono «competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione», né modificano «le competenze e i compiti definiti nei trattati» .
Anche così circoscritta nella sua portata, la sentenza Max-Planck solleva tuttavia un interrogativo importante. In una controversia nell’ambito della quale sia invocata la Carta, possono venire infatti in gioco “diritti fondamentali” di segno contrastante. Un contrasto del genere è anzi perfino tipico della materia del diritto del lavoro e della previdenza sociale, dove le istanze della parte debole del rapporto (di volta in volta, il lavoratore o l’assicurato e/o l’assistito) fronteggiano situazioni soggettive di pari livello costituzionale, riconducibili ora alla libertà d’iniziativa economica privata ora alle esigenze del bilancio pubblico e alla discrezionalità che dev’essere riconosciuta al legislatore nel comporre al suo interno la gerarchia degli interessi e dei beni più o meno rilevanti ai fini dell’allocazione delle risorse disponibili.
È un punto che la stessa Corte di Giustizia non ha mancato di sottolineare in un’altra importante sentenza resa di recente: l’applicabilità della Carta non esclude che «un giudice possa essere chiamato, in una controversia tra privati, a contemperare diritti fondamentali concorrenti che le parti in causa traggono dalle disposizioni del Trattato [sul funzionamento dell’Unione Europea] e della Carta e che sia addirittura tenuto, nell’ambito del controllo che deve effettuare, ad assicurarsi che il principio di proporzionalità [tra di essi] sia rispettato» . La domanda, allora, diventa la seguente: quale giudice può convenientemente assumere quest’onere di bilanciamento tra diritti fondamentali?

3. Questa domanda introduce all’ultima parte di queste note. Come si ricorderà, verso la fine del 2017, la Corte costituzionale ha pronunciato una sentenza che è diventata nota tra gli addetti ai lavori non tanto per il suo dispositivo, quanto per un lungo obiter dictum contenuto nella sua motivazione. Muovendo dal rilievo secondo cui i principi e i diritti enunciati nella Carta dei diritti dell’Unione Europea «intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana» e dalla conseguente possibilità «che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione», la Corte ha infatti affermato che, in tali casi, in ragione del fatto che «le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes» (anche «in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale»), il giudice adito per la soluzione della controversia, «fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione», deve necessariamente sollevare «la questione di legittimità costituzionale», dal momento che il tradizionale rimedio della rimozione per via di non applicazione della disposizione interna contrastante con il diritto dell’Unione dotato di efficacia diretta trasmoderebbe inevitabilmente «in una sorta di inammissibile sindacato diffuso di costituzionalità della legge» .
L’affermazione ha suscitato clamore tra i costituzionalisti, specie tra quelli di proclamata fede europeista. Ma come, si è detto, ad oltre trent’anni dalla sentenza Granital si torna indietro? Bisogna nuovamente passare attraverso le forche caudine del giudizio di costituzionalità per sbarazzarsi delle norme interne che confliggano con diritti fondamentali di matrice europea? E che ne è del primato del diritto dell’Unione? Vuoi vedere che i “sovranisti” sono sbarcati alla Consulta?
In realtà, nell’affermazione della Corte costituzionale non c’era e non c’è nulla di scandaloso, tant’è che, ritornati recentemente sulla questione, i giudici costituzionali hanno ribadito sostanzialmente lo stesso orientamento, chiarendo che la via maestra del giudizio di costituzionalità s’impone anche quando a venire in rilievo, al fine della soluzione della controversia, sia una disposizione di diritto derivato dell’Unione che chiami in gioco, oggettivamente e materialmente, i diritti protetti dalla Carta di Nizza, vuoi perché ne costituisce «specificazione o attuazione», vuoi perché abbia costituito il «modello» per le disposizioni della Carta .
Il punto è che i diritti fondamentali tutelati dalla Carta di Nizza, in parte perché ricalcano diritti già presenti nella Costituzione italiana, in parte perché penetrano nel nostro ordinamento in virtù dell’art. 117 Cost., sono, al pari di tutti i diritti sanciti dalla Costituzione, soggetti ad un bilanciamento al cui controllo, nel nostro ordinamento, provvede in via esclusiva la Corte costituzionale allorché esercita il giudizio di legittimità costituzionale di una data disposizione di legge .
Si tratta – com’è stato da tempo messo in rilievo in dottrina – di un controllo che risponde alla natura originaria del nostro ordinamento giuridico e che non contrasta con la natura autonoma di quello europeo, perché quest’ultimo può avere efficacia nell’ambito del nostro solo in quanto a ciò il nostro ordinamento l’ha autorizzato e nei limiti in cui l’ha autorizzato. A differenza di quello interno, infatti, l’ordinamento dell’Unione Europea è costruito sul principio della competenza e nessun “diritto fondamentale” da esso sancito può essere “tiranno” nei confronti di tutti gli altri interessi tutelati dalla nostra Costituzione: è necessario, di volta in volta individuare un punto di equilibrio, dinamico e non prefissabile in anticipo, che contemperi gli interessi contrapposti secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza tali da non consentire il sacrificio del loro nucleo essenziale. E l’individuazione di tale punto di equilibrio spetta al legislatore nella statuizione delle norme e al giudice delle leggi in sede di controllo della loro conformità a Costituzione .
Se così è, bisogna ammettere che, una volta che sia entrato nel bilanciamento con altri diritti e interessi fondamentali protetti dalla Costituzione, anche un “diritto fondamentale” di fonte europea possa recedere . Nell’ambito del giudizio di costituzionalità, infatti, non rileva tanto la natura self executing della norma europea, quanto il necessario bilanciamento del diritto garantito da quella norma con altri diritti e interessi che siano protetti da altre norme di rilievo parimenti costituzionale, perché la cessione di sovranità attuata mercé l’art. 11 Cost., rimontando in ultima analisi alla legge contenente l’ordine di esecuzione dei Trattati, non può comportare l’attribuzione al legislatore sovranazionale di una potestà di cui il legislatore ordinario, in quanto vincolato alla Costituzione, non può liberamente disporre . Appunto per ciò, la Corte costituzionale sembra dirci – e proprio muovendo dalla possibilità di attribuire efficacia diretta orizzontale alle norme della Carta dei diritti – che, ogni qualvolta si tratta di questioni che involgono diritti, principi, beni e interessi che trovano tutela sia nella Carta che nella Costituzione, il giudice ordinario, fatto salvo il rinvio pregiudiziale per l’interpretazione del diritto europeo, non può disapplicare la norma interna contrastante con quella comunitaria, ma deve sollevare la questione di legittimità costituzionale, eventualmente anche per tramite del parametro interposto del diritto dell’Unione; diversamente, dietro il paravento del primato del diritto dell’Unione, si maschererebbe, per dirla con le parole della sentenza n. 269/2017, «una sorta di inammissibile sindacato diffuso di costituzionalità della legge» .
Si tratta di un’impostazione che crediamo possa trovar conferma in un’altra recentissima pronuncia della Corte costituzionale, che – nel porsi in dichiarata continuità con i precedenti dianzi citati – ha nondimeno ribadito «il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta» . Il giudizio di diritto che il giudice comune è chiamato ad effettuare è infatti di natura diversa da quello che compete al giudice delle leggi, perché il suo criterio di valutazione non è quello di conformità o meno ad una fonte gerarchicamente superiore, ma quello di competenza, che è volto a risolvere un contrasto tra norma interna e norma dell’Unione in una materia riservata alla competenza dell’Unione . Detto altrimenti, non si tratta affatto di bilanciare diritti fondamentali in eventuale contrasto tra loro, ma di individuare quale sia la norma applicabile alla fattispecie; più esattamente, di stabilire se, nella fattispecie, sia stato o meno violato un diritto fondamentale riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione in una misura tale da non contrastare con altri diritti fondamentali protetti dalla nostra Costituzione .
Naturalmente, ciò non equivale a dire che il giudice comune non possa egli stesso tentare un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione controversa, tanto più che, come hanno chiarito le Sezioni Unite della Corte di cassazione , l’interpretazione costituzionalmente orientata di una disposizione normativa si sostanzia nelle medesime operazioni ermeneutiche che connotano il giudizio di costituzionalità, vale a dire nell’individuazione dei beni in conflitto, nel compimento del giudizio di bilanciamento secondo certi principi di ragionevolezza e, infine, nell’estrazione della norma dalla disposizione. Il punto è che, come insegna la stessa Corte di Giustizia, non v’è interpretazione conforme che possa consentire un’interpretazione contra legem del diritto nazionale , ovvero – per dirla con un’antica espressione carneluttiana recentemente ripresa da Natalino Irti – che possa permettere di valicare “i cancelli delle parole” usate dal legislatore . E se così è, bisogna concludere che nemmeno il principio di primazia del diritto dell’Unione può legittimare operazioni ermeneutiche che mascherino dietro il paravento di un’interpretazione costituzionalmente orientata sostanziali disapplicazioni della legge vigente: il nostro ordinamento, al momento, non tollera di essere piegato e distorto in direzione di un modello di common law di tipo anglosassone.
Certo, mi rendo conto che soluzioni del genere rischiano di apparire, in una materia come quella del lavoro, apparentemente sbilanciate a favore della parte datoriale del rapporto, visto che di solito s’invocano i diritti fondamentali in vista della tutela della parte debole di esso. Ma ad uno sguardo più attento alla reale natura degli ordinamenti in gioco (e segnatamente alle rispettive decisioni fondamentali in tema di costituzione economica), una prospettiva del tipo di quella suggerita dalla Corte costituzionale con le sentenze di cui abbiamo discusso potrebbe rivelarsi foriera di inedite prospettive di garanzia, specie se comparata con quell’atteggiamento eccessivamente acquiescente nei confronti della penetrazione del diritto europeo negli ordinamenti nazionali che è all’origine dell’odierna espansione dei poteri della Corte di Giustizia ben al di là dei confini strettamente risultanti dai Trattati. La vera alternativa non si gioca infatti tra un astratto “europeismo” e un altrettanto astratto “sovranismo”, ma tra opposte visioni del processo economico capitalistico e delle prerogative riconosciute ai pubblici poteri nell’allocazione delle risorse, sulla qual cosa la nostra Costituzione e i Trattati europei esprimono concezioni non soltanto diverse, ma addirittura opposte . Sarebbe il caso che anche i giuslavoristi cominciassero a rifletterci per davvero.

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