Testo integrale con note e bibliografia

Come già segnalato , il Tribunale di Napoli ha sollevato, prima del TAR Lazio e sempre alla luce della sentenza Sciotto della Corte di giustizia, con ordinanza del 13 febbraio 2019 in causa C-282/19 GILDA-UNAMS quattro questioni pregiudiziali sugli insegnanti precari di religione cattolica, fondate sul principio di uguaglianza e non discriminazione alla luce degli artt.20 e 21 della Carta di Nizza e delle due direttive sociali 2000/78/CE e 1999/70/CE.
Subito dopo, con ordinanza del 3 aprile 2019 in causa C-326/19 il TAR Lazio ha sollevato alla Corte di giustizia dell’Unione europea importanti questioni pregiudiziali in materia di docenti universitari precari.
I fatti di causa sono compiutamente descritti nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale.
Il ricorrente ha superato nel 2007, classificandosi al primo posto, il concorso pubblico per l’accesso al dottorato di ricerca in diritto amministrativo. Al termine del relativo percorso triennale, egli ha conseguito il titolo di dottore di ricerca il 4 maggio del 2011.
Nel 2012, ha vinto il concorso pubblico bandito dall’Università di “Roma Tre” per la stipulazione di un contratto di ricercatore di diritto amministrativo a tempo determinato di durata triennale, ai sensi dell’art. 24, comma 3, lett. a), della legge 30 dicembre 2010, n. 240.
Nell’anno 2014, il ricorrente ha conseguito la abilitazione scientifica nazionale per le funzioni di professore universitario di seconda fascia prevista dall’art. 16 legge n. 240/2010. Tale abilitazione, che viene rilasciata da una apposita Commissione nazionale nominata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), attesta il raggiungimento della maturità scientifica necessaria per la partecipazione alle procedure di chiamata dei professori di seconda fascia, regolate dagli artt. 18 e 24, commi 5 e 6, della stessa legge n. 240/2010.
Dopo due anni e mezzo dalla stipulazione del contratto da ricercatore, egli ha avanzato all’Ateneo una istanza di proroga del contratto stesso, espressamente prevista dal citato art. 24, comma 3, lett. a), legge n. 240/2010 del 2010. Il Consiglio del Dipartimento di Giurisprudenza ha approvato la richiesta di proroga e, per l’effetto, la durata complessiva del rapporto intrattenuto dal ricorrente nel giudizio principale in qualità di ricercatore con l’Università di “Roma Tre” è stata di cinque anni: dal 1° dicembre 2012 al 30 novembre 2017.
In prossimità della scadenza del contratto, in data 8 novembre 2017, il ricercatore universitario a tempo determinato ha rivolto all’Ateneo un’istanza di proroga del contratto e di avvio della procedura di stabilizzazione prevista dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, che è stata rigettata dall’Università.
In conseguenza, il ricercatore precario ha fatto ricorso al TAR Lazio per la “stabilizzazione” del rapporto di lavoro, trattandosi di pubblico impiego non contrattualizzato, chiedendo la rimessione della questione alla Corte costituzionale o, in subordine, alla Corte di giustizia.
La scelta del TAR Lazio di dialogare con la Corte di giustizia e non con la Corte costituzionale è motivata dalla messa in discussione della giurisprudenza del Giudice delle leggi (sentenza n.89/2003 ; a cui adde sentenza n.248/2018, non citata perché depositata dopo l’udienza in camera di consiglio in cui il giudice amministrativo si è riservato per il rinvio pregiudiziale) e della Cassazione (Sezioni unite, sentenza n.5072/2016 ) sul divieto assoluto di conversione a temo indeterminato e sull’idoneità del risarcimento dei danni come unica forma di tutela contro l’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato nel pubblico impiego, ritenendo che la posizione delle due Corti superiori nazionali sia condivisibile «solo nella misura in cui esse sono espresse (come fa la costante giurisprudenza interna sviluppatasi sul punto) nell’ambito specifico della comparazione tra regime proprio del lavoro pubblico (regolato dall’art. 97 Cost. e del principio dell’accesso per concorso) e regime del lavoro privato, che non soggiace a tale regola.».
Condivisibilmente, il TAR Lazio ritiene che sia diverso l’ambito di indagine della fattispecie di causa, che:
«a) è legato alla comparazione tra diverse forme di impiego alle dipendenze di Amministrazioni Pubbliche (e non alle differenze di regime esistenti tra lavoro pubblico e lavoro privato);
b) vede l’accesso del dipendente interessato alla –denegata- conversione tramite una procedura di selezione rispettosa dei parametri di cui all’art. 97 Cost., quale è quella contemplata dall’art. 24 della legge n. 240 del 2010; e quale sarebbe, a maggior ragione, in altri settori dell’impiego pubblico, un concorso strutturato su classiche prove scritte ed orali, affrontato dalla maggior parte dei dipendenti interessati all’applicazione dell’art. 36 citato: ossia sul legittimo metodo di accesso al pubblico impiego, sulla cui assenza la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale hanno imperniato il proprio orientamento negatorio della possibile conversione del rapporto.».
Centrale in ogni caso, come per il rinvio pregiudiziale del Tribunale di Napoli sugli insegnanti precari di religione cattolica, è nelle argomentazioni dell’ordinanza del TAR Lazio il richiamo alla sentenza Sciotto della Corte di giustizia e il rifiuto del controllo accentrato di costituzionalità introdotto con un contestato obiter dictum dalla sentenza n.269/2017 della Corte costituzionale.
Indubbiamente la sentenza Sciotto ha segnato il discrimen, attraverso la tecnica antidiscriminatoria applicata anche all’abusivo ricorso ai contratti a termine nel pubblico impiego, della necessità di fornire al giudice nazionale strumenti interpretativi orientati nel senso di applicare la sanzione della trasformazione a tempo indeterminato come unica forma di tutela effettiva del precariato pubblico, in mancanza di ogni altra misura effettiva.
Sotto questo profilo della mancanza di tutela effettiva, la regolamentazione giuridica del rapporto di lavoro a tempo determinato del ricercatore precario ricorrente nel giudizio principale pendente davanti al Tar Lazio, per quanto riguarda la disciplina speciale interna di recepimento della direttiva 1999/70/CE, deve essere distinta in due periodi, dal 1° dicembre 2012 al 24 giugno 2015 il primo, dal 25 giugno 2015 al 30 novembre 2017 il secondo.
Nel periodo dal 1° dicembre 2012 al 24 giugno 2015 era vigente il decreto legislativo n.368/2001 (d’ora innanzi, “d.lgs. n.368/2001”) e, in particolare, l’articolo 5, comma 4-bis, che sanzionava con la trasformazione a tempo indeterminato i rapporti di lavoro a tempo determinato che avevano superato i 36 mesi di servizio, anche non continuativi, con mansioni equivalenti.
L’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 si applicava anche ai rapporti di lavoro a tempo determinato del personale in regime di diritto pubblico escluso dalla disciplina del pubblico impiego contrattualizzato di cui al d.lgs. n.165/2001, ai sensi dell’art.3, comma 2, dello stesso d.lgs. n.165/2001, come nel caso del rapporto dei professori e dei ricercatori universitari delle università pubbliche.
Nel periodo lavorativo del prof. Dinelli dal 25 giugno 2015 al 30 novembre 2017, invece, è entrato in vigore il d.lgs. n.81/2015, che ha abrogato il d.lgs. n.368/2001 e, per la prima volta, all’art.29, comma 2, lettera d), ha escluso espressamente dal campo di applicazione della normativa interna che ha recepito la direttiva 1999/70/CE «i contratti a tempo determinato stipulati ai sensi della legge 30 dicembre 2010, n.240», cioè i contratti a tempo determinato dei ricercatori universitari.
Si tratta dell’unica norma interna che, formalmente, impedisce la trasformazione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro a tempo determinato come quello del ricercatore precario ricorrente, dal momento che, come giustamente affermato dal Tar Lazio nell’ordinanza di rinvio, nessun rilievo ostativo alla riqualificazione a tempo indeterminato ha l’art.97, comma 4, Cost., essendo state espletate e superate con esito positivo legittime procedure concorsuali di accesso all’insegnamento universitario.
2. L’evoluzione della specie della giurisprudenza comunitaria sul precariato pubblico italiano dalla sentenza Marrosu-Sardino alla sentenza Rossato.
A distanza di quindici anni dalla prima ordinanza pregiudiziale del Tribunale di Genova del 21 gennaio 2004 di interpretazione della direttiva 1999/70/CE con l’ordinanza di rinvio del Tar Lazio si ripropone sul precariato pubblico italiano, in questo caso dei ricercatori universitari a tempo determinato, la stessa problematica che la sentenza Marrosu-Sardino della Corte di giustizia non era riuscita a risolvere con l’interlocutoria risposta della compatibilità prima facie della normativa interna sulla sanzione del risarcimento dei danni prevista dall’art.36, comma 2 (ora comma 5), del decreto legislativo n.165/2001.
Con la sentenza n.89/2003, infatti, la Corte costituzionale aveva affermato (già) il divieto assoluto di conversione nel pubblico impiego e pareva aver invaso anche il campo interpretativo della Corte di giustizia, mettendo in discussione delicati equilibri istituzionali e costituzionali, in quanto era già intervenuta la modifica dell’art. 117 Cost., con la legge costituzionale 3/2001.
Su questo rilievo di incompatibilità con la direttiva 1999/70/CE della decisione della Corte costituzionale n.89/2003 si era mosso, per l’appunto, il Tribunale di Genova nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo nella causa C-53/04 Marrosu-Sardino, sollevando «un conflitto di tipo costituzionale», perché il giudice del rinvio aveva osservato che «tale sentenza è stata pronunciata senza riferimento alle disposizioni costituzionali che garantiscono il rispetto, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, degli impegni derivanti dall’ordinamento giuridico comunitario. A suo avviso, ammettere l’applicazione del decreto n. 165 ai fatti del caso di specie solleva il problema del rispetto della direttiva 1999/70» (v. conclusioni dell’Avvocato generale Poiares Maduro nelle cause C-53/04 e C-180/04, punto 8, EU:C:2005:569).
Dopo quindici anni, il Tribunale di Napoli con l’ordinanza del 13 febbraio 2019 nella causa 282/19 e il TAR Lazio con l’ordinanza del 3 aprile 2019 nella causa C-329/19 hanno sollevato, quasi contestualmente, lo stesso «conflitto di tipo costituzionale» rispetto alla nuova sentenza n.248/2018 e alla vecchia sentenza n.89/2003 della Corte costituzionale in subiecta materia.
In quindici anni, l’unica posizione inossidabile, refrattaria ad ogni mutamento, è stata quella del granitico legislatore nazionale, che non ha mai modificato la norma – attuale art.36, comma 5, del decreto legislativo n.165/2001, che peraltro non si applica al personale in regime di diritto pubblico come i professori e ricercatori universitari – sottoposta al positivo scrutinio di legittimità costituzionale prima nella sentenza n.89/2003 e poi nella sentenza n.248/2018 della Corte costituzionale.
Anzi, la mancanza assoluta di misure effettive antiabusive e l’inadempimento integrale alla direttiva 1999/70/CE nei confronti di tutte le pubbliche amministrazioni, a prescindere dall’inesistenza di un criterio legale di determinazione del danno nel disposto dell’art.36, comma 5, del TUPI, è stata imposta dal legislatore del 2013 (art.4 decreto legge n.101/2013, convertito con modificazioni dalla legge n.128/2013), dall’art.36, comma 5-quater, d.lgs. n.165/2001, che prevede appunto la nullità assoluta dei contratti flessibili stipulati in mancanza delle condizioni di legittima apposizione del termine, cioè privi di ragioni oggettive temporanee.
Vi è da evidenziare, però, che detta norma fu inserita dal Governo italiano in un complessivo contesto normativo (d.l. n.101/2013; d.l. n.104/2013) - determinato causalmente dal combinato disposto dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale n.207/2013 della Corte costituzionale sui supplenti della scuola e dall’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Napoli sul precariato degli enti locali nella causa Russo C-63/13 -, in cui era anche previsto un importante piano di stabilizzazione del precariato pubblico anche scolastico e del Comparto Afam (d.l. n.104/2013), destinato ai precari “storici” che avessero maturato i 36 mesi di servizio anche non continuativi alle dipendenze della pubblica amministrazione, dopo aver avuto accesso al lavoro pubblico attraverso procedure selettive pubbliche.
Il piano di stabilizzazione della decretazione d’urgenza del 2013 riproponeva quanto già previsto nel piano di stabilizzazione del Governo italiano con l’art.1, commi 519 e 558, della legge finanziaria n.296/2006, resosi necessario per “ottemperare” alla sentenza Marrosu-Sardino della Corte di giustizia, e la stessa soluzione è stata adottata dall’art.20 del d.lgs. n.75/2017 (c.d. riforma Madia), dopo la mancata attuazione del piano di stabilizzazione del 2013 e i rilievi criteri sull’inadeguatezza della sanzione solo risarcitoria creata dalla sentenza n.5072/2016 della Cassazione a Sezioni unite per tutti i casi di abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato successivi nel lavoro pubblico.
In tredici anni dalla sentenza Marrosu-Sardino, invece, molto pare cambiato nella giurisprudenza della Corte di giustizia sul precariato pubblico italiano.
Con l’ordinanza Affatato del 1° ottobre 2010 sul precariato sanitario, la Corte di giustizia ha risposto al Tribunale di Rossano, che aveva proposto sedici quesiti pregiudiziali per rappresentare plasticamente, da un lato, la totale mancanza di misure abusive in tutto il settore pubblico (scuola, sanità, enti locali, lavoratori socialmente utili, organismi di diritto pubblico come Poste italiane), dall’altro l’insufficienza della risposta interpretativa della sentenza Marrosu-Sardino, che aveva causato nell’ordinamento interno molta confusione sull’entità del risarcimento dei danni per l’abusivo ricorso ai contratti a termine nel pubblico impiego. La risposta della Corte Ue è stata quella della stabilizzazione come misura adeguata, individuata, guarda caso, al punto 48 dell’ordinanza, nell’applicazione integrale della sanzione della riqualificazione a tempo indeterminato dei contratti successivi che aveva maturato (e superato anche di un giorno) i 36 mesi di servizio anche non continuativi alle dipendenze della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001.
Con la sentenza Valenza , in materia di personale in regime di diritto pubblico come i lavoratori delle auto la Corte di giustizia ha smentito l’interpretazione, proposta dal Consiglio di Stato nelle quattro ordinanze di rinvio pregiudiziale, secondo cui la normativa nazionale in questione nei procedimenti principali (art.75, comma 2, d.l. n.112/2008, disposizione non convertita in legge), che aveva consentito l’assunzione diretta di lavoratori precari in deroga alla regola del pubblico concorso per l’accesso al pubblico impiego (dipendenti delle Autorità indipendenti che avevano maturato 36 mesi di servizio), fosse compatibile con la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, consentendo l’inquadramento in ruolo nel livello iniziale della categoria retributiva senza conservazione dell’anzianità maturata durante il rapporto a termine (punto 23 della sentenza). Nella sentenza Valenza la Corte Ue ha evidenziato che l’art.97, comma 4, Cost. consente l’immissione in ruolo nel lavoro pubblico non solo in base a procedure concorsuali, ma anche con disposizione di legge, come era avvenuto nella fattispecie di causa, seppure con decretazione d’urgenza “privilegiata” non convertita in legge.
Con l’ordinanza Papalia la Corte di giustizia, sulla pregiudiziale del Tribunale di Aosta che riguardava un caso clamoroso di abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato successivi del capo della banda musicale del Comune di Aosta, che aveva maturato quasi 30 anni di ininterrotto servizio, ha dichiarato incompatibile con la direttiva 1999/70/CE quella stessa norma – l’art.36, comma 5, d.lgs. n.165/2001 - che era uscita da un giudizio di compatibilità “condizionata” con la sentenza Marrosu-Sardino.
Con la sentenza Mascolo la Corte di giustizia ha dichiarato incompatibilità con la direttiva 1999/70/CE del sistema di reclutamento del personale docente e a.t.a. della scuola pubblica, accogliendo sul punto i quesiti pregiudiziali sollevati dal Tribunale di Napoli e dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n.207/2013. Nel dichiarare assorbite tutte le altre domande pregiudiziali del giudice partenopeo, in particolare quelle sull’applicazione della clausola 4, n.1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e sull’art.47 della Carta dei diritti fondamentali Ue per quanto riguarda la normativa interna che impediva la trasformazione a tempo indeterminato con efficacia retroattiva in caso di già avvenuto superamento dei 36 mesi di servizio anche non continuativi, codesta Corte di giustizia si è preoccupata, ancora una volta, in risposta all’ordinanza Russo C-63/13 sui supplenti degli asili del Comune di Napoli, di sottolineare che l’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001 era una misura adeguata ed efficace a sanzionare l’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato, invitando il Tribunale di Napoli, al punto 55, a continuare ad applicarla, come comportamento giudiziario di leale cooperazione con le Istituzioni Ue.
Con la sentenza Santoro la Corte di giustizia, rispondendo ai quesiti pregiudiziali sollevati dal Tribunale di Trapani sul precariato siciliano degli enti locali di lunga durata per quanto riguarda (soltanto) l’entità del risarcimento dei danni di rapporti di lavoro instaurati con le pubbliche amministrazioni senza alcuna procedura concorsuale (cioè nulli per violazione delle norme imperative in materia di assunzione nel pubblico impiego), ha depotenziato la sentenza n.5072/2016 delle Sezioni unite della Cassazione, ponendo a carico della pubblica amministrazione gli oneri probatori (negativi) sulla perdita di chance, ai fini della determinazione del risarcimento del danno integrale spettante al lavoratore precario per la perdita di un’opportunità stabile di lavoro.
Con la sentenza Sciotto la Corte di giustizia, rispondendo alla pregiudiziale sollevata dalla Corte di appello di Roma che riguardava l’applicabilità ai precari delle Fondazioni lirico-sinfoniche della tutela prevista dall’art.5, comma 4-bis, d.lgs. n.368/2001, prendendo atto della natura pubblica del datore di lavoro secondo la prospettazione del Governo italiano nelle sue osservazioni scritte (del resto la Corte costituzionale con la sentenza n.153/2011 considera gli enti lirici come organismi nazionali di diritto pubblico, cioè come enti pubblici non economici; in termini, la Cassazione con la sentenza n.12108/2018), ha così concluso: «La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato….deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale le norme di diritto comune disciplinanti i rapporti di lavoro, e intese a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato tramite la conversione automatica del contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato se il rapporto di lavoro perdura oltre una data precisa, non sono applicabili al settore di attività delle fondazioni lirico-sinfoniche, qualora non esista nessun’altra misura effettiva nell’ordinamento giuridico interno che sanzioni gli abusi constatati in tale settore.».
Per rafforzare l’interpretazione di incompatibilità della normativa interna che esclude le tutele preventive della direttiva 1999/70/CE per i lavoratori a tempo determinato delle Fondazioni lirico-sinfoniche, la Corte Ue nella sentenza Sciotto pare aver sostanzialmente imposto l’applicazione diretta e verticale dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato all’inadempiente Stato italiano e a tutte le pubbliche amministrazioni attraverso il principio di non discriminazione sulle condizioni di lavoro di cui alla clausola 4 dello stesso accordo, così precisando al punto 71: «In ogni caso, come sostenuto dalla Commissione, poiché la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non consente in nessuna ipotesi, nel settore di attività delle fondazioni lirico-sinfoniche, la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, essa può instaurare una discriminazione tra lavoratori a tempo determinato di detto settore e lavoratori a tempo determinato degli altri settori, poiché questi ultimi, dopo la conversione del loro contratto di lavoro in caso di violazione delle norme relative alla conclusione di contratti a tempo determinato, possono diventare lavoratori a tempo indeterminato comparabili ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro.».
Rispetto a questo quadro della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato nel pubblico impiego italiano, ci si attendeva una risposta della Cassazione e, soprattutto, della Corte costituzionale che superasse le criticità della soluzione del danno “comunitario” di cui alla sentenza n.5072/2016 delle Sezioni unite della Cassazione e andasse nella direzione della riqualificazione a tempo indeterminato almeno nei casi in cui i contratti a tempo determinato successivi avessero raggiunto i 36 mesi di servizio anche non continuativi con assunzioni precedute da legittime procedure concorsuali pubbliche.
Non era sembrato un caso che la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n.25728 del 15 ottobre 2018 (confermata dall’ordinanza n.4952/2019 dello stesso Collegio) valorizzasse, per escludere il divieto di conversione, la fattispecie di legittimo accesso al lavoro nella pubblica amministrazione attraverso procedure selettive pubbliche.
Viceversa, la Corte costituzionale con la sentenza n.248/2018 ha deciso per l’infondatezza (così nel dispositivo, ma nella motivazione si parla anche di inammissibilità) della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice del lavoro del Tribunale di Foggia sull’art.36, commi 5, 5-ter, 5-quater, d.lgs. n.165/2001 e sull’art.10, comma 4-ter, d.lgs. n.368/2001.
In un quadro normativo interno del precariato pubblico sanitario del tutto privo di tutele, anche di quella risarcitoria (art.36, comma 5-quater, d.lgs. n.165/2001), e che esclude, come per il settore dei professori e ricercatori universitari, la stessa applicazione della direttiva 1999/70/CE (art.29, comma 1, lett.c, d.lgs. n.81/2015), con una decisione che appare priva di adeguata motivazione la Corte costituzionale si è limitata a dichiarare compatibili con la Costituzione nazionale le disposizioni ostative alla riqualificazione a tempo indeterminato e al risarcimento dei danni, affermando che anche nella fattispecie di causa siano applicabili i principi enunciati dalle Sezioni unite della Cassazione nella sentenza n.5072/2016, che, secondo il Giudice delle leggi, sarebbe stata dichiarata compatibile con la direttiva 1999/70/CE dalla sentenza Santoro di codesta Corte di giustizia.
La sentenza n.248/2018 della Corte costituzionale si è conclusa nel modo peggiore, non solo ignorando la sentenza Sciotto della Corte di giustizia, ma alterando l’interpretazione della Corte Ue in subiecta materia: «Difatti, se da una parte, non può che confermarsi l’impossibilità per tutto il settore pubblico di conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato − secondo la pacifica giurisprudenza eurounitaria e nazionale −, dall’altra sussiste una misura sanzionatoria adeguata, costituita dal risarcimento del danno nei termini precisati dalla Corte di cassazione.».
Dopo le due ordinanze di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Napoli nella presente causa e del TAR Lazio in causa C-329/19, in subiecta materia della tutela effettiva contro l’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato nel pubblico impiego italiano, è intervenuta la sentenza Rossato della Corte di giustizia, che ha mediato tra due contrapposte esigenze.
Da un lato, la Corte Ue doveva “stabilizzare” la tutela effettiva del precariato pubblico in applicazione della clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, affermando, in continuità con la sentenza Sciotto, che la trasformazione a tempo indeterminato a data certa dei contratti a tempo determinato successivi che avevano raggiunto i 36 mesi di servizio anche non consecutivi, cioè utilizzando lo stesso criterio sanzionatorio sull’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato nel pubblico impiego evocato dal TAR Lazio con il richiamo all’art.20 del d.lgs. n.75/2017.
Dall’altro, la Corte di giustizia ha inteso rispettare lo stare decìsis imposto dalla Cassazione (Cfr. sul punto l’ordinanza n.8671/2019 ) secondo cui «l'inserirsi dei pregressi contratti a termine in un procedimento di stabilizzazione regolato dalla legislazione regionale (art. 3, co. 38, L.R. 40/2007; art. 30 L.R. 10/2007) determinerebbe la cessazione della materia del contendere e comunque, essendo stata ottenuta una tutela più ampia, escluderebbe che si possa ancora discutere di diritti risarcitori, evidentemente sulla falsariga dei precedenti in senso analogo di questa Corte (Cass. 3 luglio 2017 n. 16336, sulle stabilizzazioni presso il Ministero di Giustizia, Cass. 7 novembre 2016, n. 22552, sulle stabilizzazioni nel settore scolastico).».
D’altra parte, la stessa Corte costituzionale nella sentenza n.187/2016 sul precariato scolastico aveva affermato, applicando la sentenza Mascolo della Corte Ue, che la stabilizzazione, rappresentata dalle procedure selettive “automatiche” presenti e future previste dalla legge n.107/2015 , rappresentava l’unica misura adeguata a rimuovere definitivamente l’illecito comunitario, salvo poi rimangiarsi completamente questa posizione con la sentenza n.248/2018.
Il Giudice delle leggi nella sentenza n.187/2016, non senza ragione, ha precisato che «tale conclusione trova una indiretta ma autorevole conferma in quella cui è pervenuta la Commissione U.E. a proposito della procedura di infrazione aperta nei confronti del nostro Paese per la violazione della stessa normativa dell’Unione: essa è stata archiviata senza sanzioni a seguito della difesa dell’Italia, argomentata con riferimento alla normativa sopravvenuta.».
Vedremo, invece, che a distanza di tre anni dalla pronuncia della Consulta e di quattro anni dalla legge n.107/2015, la Commissione Ue sarà costretta a riaprire la procedura di infrazione anche sugli insegnanti della scuola pubblica.
Nella sentenza n.248/2018 del 27 dicembre 2018 la Corte costituzionale ha richiamato a sostegno dell’apodittico divieto assoluto di conversione a tempo indeterminato nel pubblico impiego, senza citarla (perché inesistente), la «pacifica giurisprudenza eurounitaria», ignorando intenzionalmente anche la sentenza Sciotto della Corte di giustizia del 25 ottobre 2018.
La Corte di giustizia con la sentenza Rossato, in modo estremamente chiaro, ai punti 27-28 e 36-40 ha individuato la trasformazione a tempo indeterminato come “unica” misura sanzionatoria idonea a garantire gli effetti utili della clausola 5 dell’accordo quadro a tempo indeterminato.
Secondo la Corte Ue, infatti, quando, come nel caso del prof. Rossato, il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche nell’ipotesi in cui vengano nondimeno accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro (sentenza Rossato, punto 27), richiamando il punto 29 della sentenza Santoro.
Da ciò discende, secondo la Corte “comunitaria”, che, qualora sia avvenuto un ricorso abusivo a una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, dev’essere possibile applicare una misura dotata di garanzie effettive ed equivalenti di protezione dei lavoratori per sanzionare debitamente detto abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione (sentenza Rossato, punto 28), richiamando il punto 64 della sentenza Fiamingo e il punto 79 della sentenza Mascolo.
La trasformazione a tempo indeterminato, riferita al piano straordinario di assunzioni stabili di cui all’art.1, commi 95 ss., della legge n.107/2015, essendo di natura obbligatoria, e non imprevedibile ed aleatorio, ha il carattere sufficientemente energico e dissuasivo della sanzione (sentenza Rossato, punto 37).
La Corte di giustizia, in buona sostanza, con la sentenza Rossato ha limitato la sanatoria dell’illecito “comunitario” ai soli casi in cui la trasformazione a tempo indeterminato è avvenuta come effetto obbligatorio dello scorrimento fino all’esaurimento delle graduatorie, di cui all’art.1, comma 95, della l. n.107/2015, escludendo le ipotesi aleatorie di cui all’art.1, comma 109, della stessa legge, evocate dalla Corte costituzionale nella sentenza n.187/2016.
Tuttavia, va dato atto, a discolpa della magistratura nazionale che si è ostinata nell’affermare l’esistenza di un divieto assoluto di conversione a tempo indeterminato nel pubblico impiego dei contratti flessibili privi di ragioni oggettive temporanee che ne giustificassero la stipula, che la giurisprudenza della Corte di giustizia dalla sentenza Marrosu-Sardino alla sentenza Rossato è stata di particolare e, alla lunga, inaccettabile ambiguità, dapprima ritenendo prima facie la compatibilità comunitaria della sanzione del risarcimento del danno palesemente priva di contenuto precettivo e enunciando una differenziazione di tutela effettiva tra impiego pubblico e settore privato senza fornirne alcuna valida motivazione (sentenza Marrosu-Sardino, conclusioni), dall’altro mettendo in rilievo che il beneficio della stabilità dell’impiego costituisce effettivamente, ai sensi dell’accordo quadro, un elemento portante della tutela degli interessi dei lavoratori (sentenza Mangold , punto 64).
Del resto, anche la Commissione Ue ha subito le incertezze e i funambolismi interpretativi della Corte di giustizia, quando, nella sentenza Impact (punto 75 e conclusioni), non ha accolto il suggerimento della Commissione secondo cui la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro avrebbe determinato un obbligo incondizionato e sufficientemente preciso che possa essere invocato, in assenza di misure di trasposizione adottate nei termini, da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale, come affermato nella sentenza Francovich per cui in assenza di qualsiasi altra misura destinata a lottare contro gli abusi o, almeno, di misura sufficientemente efficace, oggettiva e trasparente a tal fine, in ogni caso le ragioni obiettive giustifichino il rinnovo di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi.
Poi, a distanza di sei/sette anni dalla sentenza Impact, la Corte di giustizia ha cambiato orientamento rispetto alla Grande Sezione, dapprima con la sentenza Mascolo e poi con la sentenza Commissione contro Lussemburgo , affermando sulla necessità che vi siano ragioni oggettive temporanee per giustificare l’apposizione del termine al contratto di lavoro che «sebbene… uno Stato membro sia legittimato, nel recepire la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, a tenere in considerazione esigenze particolari di un settore specifico, tale diritto non può, però, essere inteso nel senso che consente ad esso di dispensarsi dal rispettare, nei confronti di tale settore, l’obbligo di prevedere una misura adeguata volta a prevenire e, eventualmente, a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Infatti, la circostanza di consentire a uno Stato membro di invocare un obiettivo come la flessibilità che deriva dall’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato, al fine di dispensarsi da tale obbligo, contrasterebbe con uno degli obiettivi perseguiti dall’accordo quadro…., vale a dire la stabilità dell’impiego, concepita come un elemento portante della tutela dei lavoratori, e potrebbe anche ridurre in maniera significativa le categorie di persone che possono beneficiare delle misure di tutela previste alla clausola 5 dell’accordo quadro.» (sentenza Commissione contro Lussemburgo, punto 51).
Fu la Corte costituzionale con la sentenza n.260/2015 sui lavoratori a tempo determinato delle Fondazioni pubbliche lirico-sinfoniche che fotografò e condivise il nuovo corso della giurisprudenza comunitaria, quando evidenziò che «con riguardo ai lavoratori dello spettacolo, la Corte di giustizia ha valorizzato il ruolo della “ragione obiettiva” come mezzo adeguato a prevenire gli abusi nella stipulazione dei contratti a tempo determinato e come punto di equilibrio tra il diritto dei lavoratori alla stabilità dell’impiego e le irriducibili peculiarità del settore».
Tre anni dopo la sua ineccepibile pronuncia, il Giudice delle leggi cambierà opinione, riaffermando senza motivazione con la sentenza n.248/2018 il divieto assoluto di conversione nel pubblico impiego, che, come vedremo, più che principio fondante dell’ordinamento costituzionale, rappresenta il viatico alle pubbliche amministrazioni per evitare le procedure concorsuali e costruire, anche indirettamente, assunzioni di tipo clientelare a beneficio di privilegiati legati alla politica e alla medio-alta burocrazia dell’apparato amministrativo dirigenziale in tutti i settori del lavoro pubblico.

3. Il tardivo risveglio della Commissione Ue con la procedura di infrazione sul precariato pubblico
In conseguenza delle sentenze Sciotto e Rossato della Corte di giustizia il 25 luglio 2019 la Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione n.2014/4231 con lettera di messa in mora nei confronti dell’Italia riguardante la mancanza di tutele contro l’abuso di successivi contratti a tempo determinato nel settore del pubblico impiego, a cui sono interessati:
• il personale impiegato nelle fondazioni lirico-sinfoniche italiane;
• i contratti a tempo determinato stipulati con il personale docente ed ATA per il conferimento delle supplenze;
• i contratti a tempo determinato stipulati con il personale sanitario, anche dirigente, del Servizio sanitario nazionale;
• i contratti a tempo determinato stipulati con i lavoratori delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica ("AFAM"), sottoposte alla vigilanza del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca ("MIUR");
• i contratti a tempo determinato stipulati ai sensi della legge 30 dicembre 2010, n. 240, che reca norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento;
• i rapporti di lavoro degli operai forestali a tempo determinato;
• i richiami in servizio del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco.
Pertanto, l’effetto provocato dalla sentenza n.248/2018 della Corte costituzionale è quello tipico delle decisioni interne che si pongono in conflitto con decisioni di segno opposto della Corte di giustizia Ue, cioè di creare forti e incomprensibili discriminazioni tra categorie di lavoratori che si trovano nelle stesse condizioni di disagio e che dovrebbero essere tutelati con identiche misure e modalità.
Infatti, allo stato, il diritto alla trasformazione a tempo indeterminato, anche nella forma della “stabilizzazione” ex lege, nel pubblico impiego dei contratti a tempo determinato illeciti o irregolari è risultato già riconosciuto nella prassi giudiziaria interna e/o dal legislatore nazionale nei seguenti casi, a titolo esemplificativo e non esaustivo:
• ai dipendenti a tempo determinato della Corte costituzionale, assunti a tempo indeterminato con concorsi riservati o concorsi interni ;
• ai lettori universitari, ora collaboratori ed esperti linguistici di lingua madre, dalla giurisprudenza ormai consolidata della Cassazione (cfr. per tutte Cass., S.L., sentenza n.19426/2003 e Cass., SS.UU., sentenza n.8985/2010), seppure con rapporto formalmente qualificato di diritto privato (ma con contribuzione pubblica ex Inpdap), in applicazione della legge n.230/1962;
• all’usciere INAIL assunto ai sensi dell’art.16 della legge n.56/1987, seppure con rapporto formalmente qualificato di diritto privato (ma con contribuzione pubblica ex Inpdap), stabilizzato a seguito della sentenza n.9555/2010 della Cassazione;
• ai dipendenti precari degli Enti pubblici economici, assunti ai sensi del D.Lgs. n.368/2001, suppure con rapporto formalmente qualificato di diritto privato e con contribuzione Inps, a cui sono state applicate le tutele sanzionatorie previste dalla normativa privatistica secondo quanto precisato dalla Cassazione a Sezioni unite nella sentenza n.4685/2015 (punto 14);
• ai dipendenti precari delle Fondazioni lirico-sinfoniche quali gli Enti pubblici non economici, assunti ai sensi del D.Lgs. n.368/2001, con rapporto sia formalmente sia contributivamente assoggettato alle regole del pubblico impiego “privatizzato”, come riconosciuto dalla sentenza n.260/2015 della Corte costituzionale e dalla consolidata giurisprudenza della Cassazione;
• ai dipendenti a tempo determinato con qualifica non dirigenziale in servizio per almeno trentasei mesi presso le pubbliche amministrazioni, che hanno superato procedure concorsuali o selettive o previste ex lege, come disposto dall’art.1, comma 519, della legge n.296/2006 (cfr. sentenza delle Sezioni unite n.6077/2013 per i dipendenti della Croce rossa);
• ai dipendenti a tempo determinato con qualifica non dirigenziale in servizio per almeno trentasei mesi presso le Autorità indipendenti (personale di diritto pubblico), assunti senza concorso pubblico e stabilizzati senza procedure concorsuali o selettive, come disposto dall’art.75, comma 2, del d.l. n.112/2008 (cfr. sentenza Valenza della Corte di giustizia, punti 13, 14 e 16);
• alle migliaia di docenti, inseriti nelle graduatorie provinciali ad esaurimento della scuola pubblica, che sono stati immessi in ruolo con decorrenza giuridica dal 1° settembre 2015, ai sensi dell’art.1, commi 95 ss., della legge n.107/2015, senza il possesso di alcun titolo di servizio nella pubblica amministrazione scolastica e per la mera fortuita condizione di essere inseriti in una graduatoria selettiva permanente ad esaurimento, il cui accesso era consentito fino al 2007 anche senza il superamento come idoneità all’insegnamento di procedura concorsuale ai sensi dell’art.399, comma 1, d.lgs. n.297/1994 (cioè con il titolo abilitante delle “scuole di specializzazione per l’insegnamento”, su cui cfr. sentenza Mascolo, punto 89), e quindi sulla base di “meri automatismi” con lo scorrimento delle g.a.e. (cfr. Corte cost., sentenza n.187/2016, punto 8.1);
• ai funzionari a tempo indeterminato con inquadramento C/3 con incarico dirigenziale presso l’amministrazione penitenziaria, a cui la stabilizzazione senza concorso come dirigenti è stata garantita dall’art. 4 della legge 154/2005;
• ai docenti scolastici con incarico dirigenziale a termine, a cui la stabilizzazione senza concorso come dirigente scolastico è stata garantita dall’art. 1, comma 87, della legge n.107/2015;
• ai segretari comunali e provinciali a tempo indeterminato, a cui la stabilizzazione senza concorso come dirigenti delle amministrazioni locali è stata garantita dall’art. 11 della legge n.124/2015;
• ai dipendenti a tempo determinato del Quirinale, in possesso del requisito dei 36 mesi di servizio, a cui è stata garantita la stabilità lavorativa dal decreto n.26/N dell’aprile 2016 del Presidente della Repubblica;
• ai LSU con mansioni di collaboratori scolastici sottratti ad una potenziale manovalanza delinquenziale (art.1 commi 622-626 della legge 27 dicembre 2017, n.205, in applicazione dell’art.1, comma 745, della legge 27 dicembre 2013, n.147), in via di stabilizzazione negli istituti scolastici di Palermo e provincia con procedura selettiva per “colloquio”, indetta con decreto direttoriale n.500 del 5 aprile 2018 del MIUR;
• a decine di migliaia di lavoratori pubblici assunti attraverso procedure selettive che hanno maturato i 36 mesi di servizio anche non continuativi, compreso il personale con qualifica dirigenziale, che sono stati stabilizzati o sono in via di stabilizzazione con rapporto a tempo indeterminato alle condizioni previste dall’art.20, comma 1, del d.lgs. n.75/2017;
• alle migliaia di docenti a tempo determinato dei Conservatori Afam, che sono stati assunti a tempo indeterminato non attraverso la procedura concorsuale per titoli ed esami prevista dall’art.270 del D.lgs. n.297/1994, mai attivata dal Miur, ma con lo scorrimento di graduatorie permanenti ad esaurimento il cui titolo di accesso era costituito dal mero possesso di 360 giorni di servizio fino al 31 ottobre 2018, e poi di tre annualità di servizio accademico dal 1° novembre 2018;
• ai n.200 magistrati professionali tra vicepretori onorari e laureati in giurisprudenza (scelti tra quelli con alte votazioni) e poi agli altri n.262 dei cosiddetti “togliattini”, dal nome del guardasigilli che firmò il decreto, che tra il 31/12/1946 e il 7/12/1947 furono immessi in ruolo senza concorso per coprire la metà delle vacanze nei rispettivi ruoli di pretore, giudice e sostituto procuratore, in attesa dei 335 uditori che presero servizio successivamente nei primi concorsi banditi nel dopoguerra;
• ad alcune centinaia di vice pretori onorari incaricati stabilizzati dalla legge n.217/1974, dichiarata legittima dalla Corte costituzionale con la sentenza n.105/1983, che andavano a coprire la vacatio degli uditori giudiziari e che non potevano esercitare la professione forense, ai sensi dell’art.32 dell’ordinamento giudiziario all’epoca vigente;
• ai vice pretori onorari reggenti, in servizio alla data del 30 giugno 1976, che, ai sensi della legge 4 agosto 1977, n. 516, avessero esercitato le funzioni di reggente per quindici anni e che non esercitassero né avessero esercitato, durante l’incarico della reggenza, la professione forense né altra attività retribuita.
I tertia comparationis non mancavano, dunque, alla Corte costituzionale per poter applicare quella clausola di durata massima complessiva di 36 mesi di servizio anche non continuativo alle dipendenze della stessa pubblica amministrazione, che, con la costituzione a tempo indeterminato o stabilizzazione del rapporto di lavoro, poteva costituire (e costituisce) l’unica vera sanzione idonea ad eliminare definitivamente e completamente le conseguenze dell’abusivo ricorso alla contrattazione a termine, ricostruita all’interno dell’ordinamento nazionale e non al di fuori di esso, in applicazione della direttiva 1999/70/Ce e delle indicazioni già fornite dalla sentenza Mascolo della Corte di giustizia al punto 55, espressamente richiamate dal Parlamento europeo nella Risoluzione del 31 maggio 2018 contro la precarizzazione dei rapporti di lavoro .
La procedura di infrazione avrebbe potuto essere evitata dal Giudice delle leggi, già protagonista infelice con la sentenza n.89/2003 del primo conflitto “costituzionale” con la Corte di giustizia nel giudizio definito dalla sentenza Marrosu-Sardino.
Tuttavia, molte responsabilità della situazione di caos normativo e giurisprudenziale sulla tutela effettiva dei lavoratori pubblici precari è della Commissione Ue.
Come riferito nella comunicazione del 3 agosto 2016 della Commissione PETI del Parlamento europeo sullo stato delle petizioni in materia di precariato scolastico, dopo la sentenza Mascolo della Corte di giustizia e l’adozione da parte delle autorità nazionali della legge n.107/2015 con la riforma del settore scolastico, la Commissione Ue ha archiviato il 19 novembre 2015 la procedura di infrazione n.2124/2010, ritenendo che la riforma in questione portasse il diritto nazionale in linea con le clausole 4 e 5 dell'accordo quadro allegato alla direttiva relativa ai contratti di lavoro a tempo determinato, in relazione al settore della pubblica istruzione, senza prendere posizione sul precariato pubblico non scolastico, su cui aveva fornito la falsa informazione nella citata comunicazione del 26 agosto 2013 di estensione a tutti i contratti a tempo determinato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni italiane della procedura di infrazione ora archiviata.
Contestualmente, la Commissione sulla questione del lavoro a tempo determinato nel settore pubblico (non scolastico) italiano ha avviato procedure di pre-infrazione con il riferimento NIF 2014/4231, che si riferiscono in particolare alla prevenzione degli abusi nel rinnovo dei contratti a tempo determinato e al risarcimento dei danni subiti in relazione a tale abuso, per arrivare dopo ben cinque anni alla descritta procedura di infrazione attivata con la messa in mora del 25 luglio 2019.
Grande, dunque, è la responsabilità della Commissione Ue nella diffusione degli strumenti negoziali di flessibilità e/o precarietà lavorativa in Europa e, quindi, in Italia e, pertanto, meritatissima è stata la censura subita dal Parlamento europeo, su impulso di petitioners, giuristi ed europarlamentari italiani, nella risoluzione del 31 maggio 2018 dell’Istituzione rappresentativa più democratica che abbiamo nell’Unione.
L’inerzia e l’inedia della Commissione nel segnalare il macroscopico inadempimento dell’Italia all’applicazione delle clausole 4 e 5 dell’accordo quadro recepito dalla direttiva 1999/70/CE per quanto riguarda tutto il pubblico impiego hanno provocato anche una denuncia dell’Istituzione Ue davanti al mediatore europeo per cattiva amministrazione e la censura esplicita del Parlamento dell’Unione nella citata risoluzione del 31 maggio 2018 contro la precarietà dei rapporti di lavoro.
D’altra parte, la ritrosia della Commissione in subiecta materia risulta manifesta nel caso, più unico che raro, della procedura di infrazione fantasma o, meglio, secretata sullo status della magistratura onoraria italiana, determinata dalla mancata applicazione nell’ordinamento interno della sentenza O’ Brien (v. infra).

4. La strana vicenda della procedura di infrazione secretata dalla Commissione Ue sullo status e i diritti della magistratura onoraria
A sottolineare la “fluidità” del quadro generale sovranazionale e nazionale per quanto riguarda la tutela effettiva dei diritti dei lavoratori a tempo determinato nel pubblico impiego nazionale, è opportuno raccontare la strana vicenda della procedura di infrazione secretata dalla Commissione europea sullo status e i diritti (negati) della magistratura onoraria italiana.
Preliminarmente, va evidenziato che con la sentenza n.1/1967 la Corte costituzionale, rigettando la questione di costituzionalità sulle modalità di nomina governativa dei giudici contabili e amministrativi anche sotto il profilo del presunto vulnus all’indipendenza del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per la presenza di “estranei” non di nomina concorsuale, ha affermato testualmente: «La questione così delimitata non è fondata. Innanzitutto non è fondata nei confronti dell’art. 106, primo comma. La regola che le nomine dei magistrati abbiano luogo per concorso non è di per sè una norma di garanzia di indipendenza del titolare di un ufficio, sibbene d’idoneità a ricoprire l’ufficio. Può ritenersi, tuttavia, che nell’ambito di un sistema, quale quello delineato dalle norme contenute nel titolo IV sezione I della Carta costituzionale, la nomina per concorso, che pur in quest’ambito patisce eccezioni, concorra a rafforzare e a integrare l’indipendenza dei magistrati.».
Ne consegue che, all’inizio della propria attività di custode della Carta fondamentale dell’ordinamento interno, la Corte costituzionale ha riconosciuto che il dettato costituzionale e, in particolare, l’art.106 consente al legislatore, così come l’art.97 comma 4, eccezioni alla regola concorsuale, come è avvenuto, ad esempio, nel ricordato caso della legge n.217/1974 di “sistemazione giuridico-economica” dei vice pretori onorari incaricati di funzioni giudiziarie e con la legge n.516/1977 di stabilizzazione dei vice pretori onorari reggenti.
Con la fondamentale sentenza del 29 marzo 1993, n.121, la stessa Consulta ha affermato il principio dell’inderogabilità costituzionale del tipo negoziale anche nel pubblico impiego, precisando che «non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato.».
Anche nella sentenza n.115/1994 la Corte costituzionale evidenziava che «affinché si mantenga il carattere precettivo e fondamentale, essi (diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoratore) devono trovare attuazione ogni qual volta vi sia, nei fatti, quel rapporto economico sociale al quale la Costituzione riferisce tali principi, tali garanzie e tali diritti. Pertanto, allorquando il contenuto concreto del rapporto e le sue effettive modalità di svolgimento, eventualmente anche in contrasto con le pattuizioni stipulate e con il nomen iuris enunciato, siano quelli propri del rapporto di lavoro subordinato, solo quest’ultima può essere la qualificazione da dare al rapporto, agli effetti della disciplina ad esso applicabile.».
Recependo, dunque, le richiamate sentenze n.121 del 1993 e n.115 del 1994 della Corte costituzionale, la Corte di giustizia ha enunciato la nozione di lavoratore subordinato occasionale, nell’ambito di applicazione della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale recepito dalla direttiva 97/81/CE, alle fattispecie di lavoro “atipico”, occupandosi con la sentenza O’ Brien del caso dei giudici inglesi a tempo parziale retribuiti in base a tariffe giornaliere (c.d. recorders), considerati nell’ordinamento interno, come in Italia , dei “volontari” senza alcun rapporto di lavoro né subordinato né parasubordinato né autonomo, e quindi esclusi da ogni tutela previdenziale, oltre che ai fini pensionistici (la tutela richiesta dal ricorrente O’ Brien nel giudizio principale ), pur svolgendo identiche funzioni giurisdizionali rispetto ai magistrati ordinari.
Accogliendo le citate conclusioni dell’Avvocato generale Kokott e cambiando orientamento rispetto alla sentenza Wippel in cui ha rimesso alla discrezionalità degli Stati membri la regolamentazione interna degli istituti contrattuali disciplinati sul piano generale dalle direttive sociali, la Corte europea ha ricordato che è lavoratore ai sensi della clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale chi abbia un contratto o un rapporto di lavoro definito per legge, contratto collettivo o in base alle prassi in vigore in ogni Stato membro considerato (sentenza O’ Brien, punto 40).
Tuttavia, secondo la Corte il potere discrezionale concesso agli Stati membri dalla direttiva 97/81 per definire le nozioni utilizzate nell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale non è illimitato e taluni termini impiegati in tale accordo quadro possono essere definiti in conformità con il diritto e/o le prassi nazionali a condizione di rispettare l’effetto utile di tale direttiva e i principi generali del diritto dell’Unione (sentenza O’Brien, punto 34), poiché agli Stati membri non è consentito di applicare una normativa che possa pregiudicare la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e, conseguentemente, privare la direttiva medesima del proprio effetto utile (punto 35).
In particolare, la Corte di giustizia, richiamando per analogia la sentenza Del Cerro Alonso sulla clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, ha precisato che uno Stato membro non può escludere, a sua discrezione, in violazione dell’effetto utile della direttiva 97/81, talune categorie di persone dal beneficio della tutela voluta dall’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale (punto 36), senza operare alcuna distinzione basata sulla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro (punto 37).
La Corte costituzionale ha, purtroppo, immediatamente impedito l’applicazione dei principi della sentenza O’ Brien nell’ordinamento nazionale con l’ordinanza del 6 luglio 2012, n.174. La questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata inammissibile dalla Consulta senza individuare né lo status del rapporto di lavoro né la sede giurisdizionale di tutela specifica e ignorando l’equiparazione sulle condizioni di lavoro tra magistrati professionali e magistrati onorari enunciata dalla sentenza della Corte di giustizia oltre quattro mesi prima. Essa era stata sollevata dal Giudice di pace di Roma con ordinanza del 7 luglio 2011 iscritta al n.1/2012 Reg.ord., nell’ambito di una procedura di ingiunzione di pagamento promossa da altro Giudice di pace, che ha chiesto l’emissione di un decreto ingiuntivo per la somma di euro 4.381,79, oltre interessi e spese legali, entro la competenza del giudice adito, per l’indebita decurtazione parziale, negli anni 2003–2011, dell’indennità forfettaria mensile di euro 258,23, prevista dall’art. 11, comma 3, della legge n. 374 del 1991, durante i periodi di non lavoro del giudice di pace nel mese di agosto per la chiusura degli uffici giudiziari.
D’altra parte, analoga sorte hanno ricevuto dalla Corte costituzionale i vigili del fuoco volontari con la sentenza n. 267/2013 aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Roma con l’ordinanza del 6 dicembre 2012 , che aveva invocato come parametro interposto l’applicazione della direttiva 1999/70/CE per quanto riguarda l’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato per questa categoria di lavoratori pubblici.
Demolendo la sua consolidata giurisprudenza delle sentenze n.121 del 1993 e n.115 del 1994, secondo la Corte costituzionale il rapporto tra la pubblica amministrazione e il personale volontario del Corpo dei vigili del fuoco, come quello dei magistrati onorari, per l’esercizio di funzioni straordinarie e collegate ad eventi di natura eccezionale e di durata ed entità non prevedibili, consiste in una dipendenza di carattere esclusivamente funzionale. I volontari dei vigili del fuoco non ricadrebbero, quindi, nell’ambito di applicazione dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, perché tale accordo si applica «ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge» (clausola 2); nel caso in esame, dunque, non vi sarebbe un rapporto di lavoro, ma di servizio, cioè non vi sarebbe alcun rapporto di lavoro subordinato.
Viceversa, quasi cinque anni dopo la Corte di giustizia con la sentenza Matzak ha richiamato preliminarmente la portata autonoma della nozione di lavoratore [subordinato] secondo il diritto dell’Unione a prescindere dalla natura giuridica di un rapporto di lavoro secondo il diritto nazionale, alla luce di tutta la propria pertinente (tra cui la sentenza O’ Brien) giurisprudenza, e ha concluso che l’art. 17, par. 3, lett. c, punto iii), della direttiva 2003/88/CE deve essere interpretato nel senso che gli Stati membri non possono derogare, con riferimento a talune categorie di vigili del fuoco reclutati dai servizi pubblici antincendio come il vigile del fuoco “volontario” ricorrente nel giudizio principale, a tutti gli obblighi derivanti dalle disposizioni di tale direttiva, ivi compreso l’art. 2, che definisce in particolare le nozioni di «orario di lavoro» e di «periodo di riposo»; che l’art. 15 della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che esso non consente agli Stati membri di adottare o mantenere una definizione della nozione di «orario di lavoro» meno restrittiva di quella contenuta all’articolo 2 della stessa direttiva; infine, che l’art. 2 della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che le ore di guardia che un lavoratore trascorre al proprio domicilio con l’obbligo di rispondere alle convocazioni del suo datore di lavoro entro 8 minuti, obbligo che limita molto fortemente le possibilità di svolgere altre attività, devono essere considerate come «orario di lavoro».
Non a caso, i vigili del fuoco volontari sono una delle categorie di lavoratori a tempo determinato nel pubblico impiego, nei cui confronti la Commissione europea ha attivato il 25 luglio 2019 la procedura di infrazione con la messa in mora.
Il diniego di tutela della magistratura onoraria sulle condizioni di lavoro da parte della giurisdizione nazionale ha provocato la comunicazione DG EMPL/B2/DA-MAT/sk (2016), pervenuta alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il 10 giugno 2016, la Commissione Ue a giugno 2016 ha chiuso con esito negativo il caso EU Pilot 7779/15/EMPL, preannunciando l’imminente apertura di una procedura di infrazione, sulla compatibilità con il diritto UE della disciplina nazionale che regola il servizio prestato dai magistrati onorari (giudici e viceprocuratori), in materia di reiterazione abusiva di contratti a termine (clausola 5 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE), di disparità di trattamento in materia di retribuzione (clausola 5 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE), di ferie (art.7, Direttiva 2003/88, in combinato disposto con la clausola 4 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 97/81/CE e con la clausola 4 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE) e di congedo di maternità (art.8 Direttiva 92/85 e art.8 Direttiva 2010/41).
Ma dell’avvio della procedura di infrazione con la formale messa in mora non si è avuta mai notizia sui siti ufficiali della Commissione Ue e del Governo italiano.
Subito dopo, con la decisione sul reclamo collettivo n.102/2013, pubblicata il 16 novembre 2016, il Comitato europeo dei diritti sociali presso il Consiglio d’Europa ha equiparato i diritti previdenziali dei giudici di pace con quelli riconosciuti ai giudici ordinari come lavoratori a tempo indeterminato comparabili, applicando la sentenza O’ Brien del Comitato europeo dei diritti sociali presso il Consiglio d’Europa della Corte di giustizia.
Incredibilmente, la Commissione europea nella comunicazione del 21 dicembre 2016 C(2016) 8600 final dal titolo “Diritto dell’Unione: risultati migliori attraverso una migliore occupazione”, così definisce a pag.8 le priorità delle proprie azioni di esecuzione: «La Commissione promuove l’interesse generale dell’Unione e garantisce l’applicazione dei trattati. In qualità di custode dei trattati ha il dovere di monitorare l’operato degli Stati membri nell’attuazione della legislazione dell’UE e di garantire la conformità della loro normativa e delle loro prassi a tale legislazione, sotto il controllo della Corte di giustizia dell’Unione europea. Nell’esercizio di tale ruolo la Commissione ha il potere discrezionale di decidere se e quando avviare procedure di infrazione o deferire il caso alla Corte di giustizia. Di conseguenza la giurisprudenza riconosce il fatto che i cittadini non vinceranno i ricorsi presentati contro la Commissione, se quest’ultima rifiuta di avviare una procedura d’infrazione. Essere “un’Unione europea più grande e più ambiziosa sui temi importanti e più piccola e più modesta sugli aspetti meno rilevanti” dovrebbe tradursi in un approccio più strategico ed efficace all’attuazione in termini di gestione delle infrazioni. Nell’attuare questo approccio, la Commissione continuerà a valutare il ruolo essenziale svolto dai singoli autori delle denunce nell’individuare problemi più ampi in merito all’attuazione del diritto dell’UE che incidono sugli interessi di cittadini e di imprese.».
In buona sostanza, la Commissione, invocando la sua discrezionalità e la giurisprudenza della Corte di giustizia, nella comunicazione del 21 dicembre 2016 C(2016) 8600 final, ha escluso qualsiasi responsabilità e possibilità di configurare un’ipotesi di violazione qualificata idonea a fondare un’azione di responsabilità extracontrattuale nei confronti dell’Istituzione Ue, nel caso in cui si rifiuti di avviare una procedura di infrazione o di deferire alla Corte di giustizia con il ricorso per inadempimento l’accertata violazione del diritto dell’Unione da parte di uno Stato.
Di contro, nella risoluzione del 19 gennaio 2017 su un pilastro europeo dei diritti sociali (2016/2095(INI)) il Parlamento europeo ha richiamato la sentenza Ledra Advertising (cause riunite da C-8/15 P a C-10/15 P, EU:C:2016:701), con cui la Corte di giustizia, in un giudizio di responsabilità extracontrattuale nei confronti dell’Unione europea promosso da risparmiatori ciprioti che lamentavano l’illegittimo comportamento della Commissione, ha avuto modo di sottolineare che la Commissione, ai sensi dell’art.17, par. 1, TUE, «promuove l’interesse generale dell’Unione» e «vigila sull’applicazione del diritto dell’Unione» e che il sorgere della responsabilità extracontrattuale dell’Unione nei confronti dei singoli cittadini, ai sensi dell’art. 340, comma 2, TFUE, presuppone che ricorrano congiuntamente varie condizioni per una violazione «qualificata», ossia l’illiceità del comportamento contestato all’Istituzione dell’Unione, l’effettività del danno e l’esistenza di un nesso di causalità fra il comportamento dell’istituzione e il danno lamentato (punti 64-65).
Nella comunicazione del 23 marzo 2017 prot. D 304831, la Presidente della Commissione per le Petizioni del Parlamento Ue, Signora Cecilia Wikström, all’esito della riunione del 28 febbraio 2017 in cui sono state discusse le petizioni nn. 1328/2015, 1376/2015, 0028/2016, 0044/2016, 0177/2016, 0214/2016, 0333/2016 e 0889/2016 sullo statuto dei giudici di pace in Italia, ha invitato il Ministro della Giustizia a trovare un equo compromesso sulla situazione lavorativa dei Giudici di Pace, per eliminare la «palese disparità di trattamento sul piano giuridico, economico e sociale tra Magistrati togati e onorari», alla luce della sentenza O’ Brien della Corte di giustizia e della decisione del Comitato europeo dei diritti sociali sul reclamo collettivo n.102/2013.
In conseguenza di quanto già accertato dalla Commissione europea e dal CEDS presso il Consiglio d’Europa, sono state avviate e sono attualmente pendenti due cause pregiudiziali riguardanti lo status e e i diritti fondamentali della magistratura onoraria.
La prima è l’ordinanza di rinvio pregiudiziale del 19 settembre 2018 del Giudice di pace di L’Aquila sollevata nella causa Di Girolamo C-618/18 sullo status del magistrato onorario e sulla situazione di diniego del diritto alle ferie retribuite durante il periodo estivo di chiusura degli uffici, con l’attenzione rivolta al ruolo della stessa Corte di giustizia dopo la declaratoria di irricevibilità della precedente ordinanza di rinvio pregiudiziale dello stesso giudice sulla stessa questione nella causa C-472/17 .
La seconda è l’ordinanza di rinvio pregiudiziale del 16 ottobre 2018 proposta dal Giudice di pace di Bologna, iscritta come causa C-658/18 (PPU) Governo della Repubblica italiana, che solleva ulteriori quesiti per risolvere la problematica della tutela effettiva giuridica, economica, previdenziale della magistratura onoraria, in una fattispecie di azione di risarcimento dei danni proposta per la mancata attuazione da parte dello Stato italiano nei confronti del magistrato onorario ricorrente delle direttive sociali 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato e 2003/88/CE sull’orario di lavoro, nella misura delle indennità corrisposte al magistrato professionale con pari anzianità di servizio per il periodo di ferie nel mese di agosto 2018, non retribuito.
Tuttavia, diversamente dalla causa pregiudiziale C-658/18 Di Girolamo del Giudice di pace di L’Aquila, il Giudice di pace di Bologna ha chiesto alla Corte di giustizia se possa essere considerato giudice comune europeo un giudice di pace, come il giudice del rinvio, che non è messo nelle condizioni di lavoro per essere giudice indipendente e imparziale, inamovibile, perché precario e sprovvisto sul piano economico di una retribuzione corrispondente alle responsabilità legate all’esercizio di funzioni giudiziarie e della tutela previdenziale.
Il giudice del nuovo rinvio pregiudiziale sulla magistratura onoraria italiana ha denunciato una crisi sistemica della tutela giurisdizionale in materia civile nell’ordinamento interno determinata da una crisi sistemica della tutela dei diritti fondamentali nell’Unione europea, a causa dell’inadempimento strutturale della Commissione europea al compito di custode dei Trattati, per non aver attivato la procedura di infrazione già preannunciata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri come imminente in data 10 giugno 2016 con la chiusura negativa del caso EU Pilot 7779/15/EMPL.
In realtà, il presupposto da cui muove il Giudice di pace di Bologna potrebbe essere sbagliato, perché la Commissione europea sembrerebbe aver effettivamente attivato la procedura di infrazione sullo status della magistratura onoraria, ma, incredibilmente, l’avrebbe secretata, d’intesa con il Governo italiano.
Ad avvalorare l’esistenza di una procedura di infrazione è il Ministro della giustizia Orlando, il quale il 3 febbraio 2017, nel corso dei lavori del Convegno nazionale “Quale Giustizia” organizzato a Torino da Magistratura indipendente, ha affermato: «E’ stata sollevata la questione della violazione della normativa comunitaria di fronte alla Commissione, e si è avviata una procedura di infrazione con la quale ci si contesta di aver utilizzato magistrati onorari come magistrati stabili……….. Chi ha fatto questo pensava che ciò avrebbe giocato a suo favore, ma non funziona così: la conseguenza rischia di essere l’aumento della precarizzazione, non la sua diminuzione, perchè la strada della stabilizzazione non la possiamo percorrere, e credo che non sareste d’accordo neanche voi….».
Sta di fatto che già nel gennaio 2018 la dottrina , nel sintetizzare il contenuto della comunicazione DG EMPL/B2/DA-MAT/sk (2016) del 10 giugno 2016 della Commissione europea alle Autorità italiane di chiusura negativa della procedura di preinfrazione sul caso EU Pilot 7779/15/EMPL, ne ha pubblicato integralmente il contenuto.
La Commissione europea ha ribadito il contrasto dell’attuale situazione di precarietà lavorativa dei magistrati onorari, aggravata dal d.lgs. n.116/2017, nella risposta del 28 febbraio 2018 alla Commissione PETI del Parlamento Ue sulle petizioni nn. 1328/2015, 1376/2015, 0028/2016, 0044/2016, 0177/2016, 0214/2016, 0333/2016 e 0889/2016 sullo statuto dei giudici di pace in Italia, tacendo però sull’esistenza della procedura di infrazione.
Inoltre, come evidenziato, il comportamento inadempiente dello Stato italiano per la mancata applicazione delle direttive 1999/70/CE e 2003/88/CE nei confronti dei magistrati onorari è stato stigmatizzato nella risoluzione del 31 maggio 2018 (2018/2600(RSP)) del Parlamento europeo, laddove la stessa Istituzione europea ha anche censurato il comportamento della Commissione Ue nella mancata attivazione delle procedure di infrazione di fronte a palesi inadempimenti alla direttiva 1999/70/CE da parte degli Stati membri.
Di fronte a queste “evidenze”, con decreto del 21 settembre 2018 del Ministro della giustizia è stato istituito presso il Gabinetto del Ministro un tavolo tecnico per la riforma della magistratura onoraria, nella cui premessa si legge: «vista la risposta della Commissione europea per le petizioni del Parlamento europeo ai Giudici onorari di pace italiani del 28 febbraio 2018 che afferma che “i magistrati onorari sono lavoratori a tempo determinato e non possono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato ai sensi della direttiva 1999/70/CE”; …… è emersa la necessità di istituire un Tavolo tecnico quale conferenza di soggetti politici e istituzionali per un confronto sul tema della Magistratura onoraria al fine di individuare un comune indirizzo per redigere un progetto di legge di modifica della suddetta Riforma…».
Peraltro, nella relazione del Primo Presidente della Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2018, presentata il 25 gennaio 2019 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, si legge a pag. 26 dell’importanza del ruolo e dello “status” dei magistrati onorari, oltre che della necessità di modificare il d.lgs. n.116/2017, che li qualifica come lavoratori autonomi, con obbligo a loro esclusivo carico delle tutele previdenziali: «In questo quadro, rilievo importante assume l’apporto dei magistrati onorari. La magistratura onoraria è composta da complessive 3.518 unità, di cui 1.273 giudici di pace e 2.245 giudici onorari di tribunale; ad essi si sommano 377 giudici ausiliari di Corte d’appello e 1.734 vice procuratori onorari, nonché, a seguito della recente immissione in servizio, 21 giudici ausiliari di Corte di cassazione addetti alla Sezione tributaria. L’assegnazione ai magistrati onorari di compiti rientranti nell’ordinario lavoro giudiziario costituisce un ausilio offerto al complessivo funzionamento della giustizia, anche se la recente riforma della magistratura onoraria (d.lgs. 13 luglio 2017 n. 116) non ha ancora consentito di fornire una risposta adeguata ai bisogni di efficiente utilizzo di tali professionalità.».
Nel comunicato del 15 dicembre 2018 del Comitato Direttivo Centrale dell’ANM, l’Associazione che rappresenta e difende i diritti e gli interessi della magistratura togata o professionale, è precisato testualmente: «In ordine alla riforma della magistratura onoraria, annunciata dal Governo prima dell'estate, l'Associazione Nazionale Magistrati prende atto che l'approvazione delle proposte dalle rappresentanze di categoria, in coerenza con le indicazioni formulate dai rappresentanti della magistratura professionale, richiede lo stanziamento di risorse finanziarie aggiuntive rispetto a quelle già destinate al Ministero della Giustizia, il cui reperimento appare opportuno e necessario in considerazione dei complessivi benefici organizzativi, finanziari e macroeconomici che potrebbero essere conseguiti grazie ad un più consistente utilizzo dei giudici e pubblici ministeri onorari. La loro attività di affiancamento, supplenza e supporto ai magistrati professionali e di esercizio delle funzioni giurisdizionali loro demandate, consentirebbe, infatti, tramite un loro più assiduo utilizzo, accompagnato dalle necessarie tutele economiche, un effettivo incremento della produttività giudiziaria negli uffici di primo grado, con evidenti benefici per i cittadini. L’Associazione Nazionale Magistrati auspica pertanto che possano essere reperiti i necessari finanziamenti peraltro stimati in cifre di non particolare impatto sul bilancio dello Stato.».
In effetti, negli allegati al documento di economia e finanze per il 2019, pubblicato sugli atti parlamentari del Senato della Repubblica (doc. LVII, n.2), presentato il 10 aprile 2019 dal Governo, si scopre l’esistenza di una procedura di infrazione avviata, non si sa bene quando, nei confronti dello Stato italiano sulla situazione lavorativa della magistratura onoraria.
Si legge, infatti, alle pagg. 186-187 degli allegati al documento di economia e finanze 2019 (ma anche alle pagg. 381, 391 e 392 della stessa documentazione): «razionalizzazione della spesa per indennità spettanti alla magistratura onoraria: L’obiettivo da un punto di vista finanziario per il 2018 è stato raggiunto. Gli effetti della riforma in itinere della magistratura onoraria (D.Lgs. 13 luglio 2017, n. 116) sulla spesa in esame decorreranno dal 2019, così come pure gli effetti economici relativi all’immissione in servizio di un nuovo contingente di 400 unità di giudici onorari, i quali non hanno ancora iniziato il periodo di tirocinio di sei mesi previsto dalla legge……I tempi tecnici per la completa attuazione della riforma si sono tuttavia dilungati anche per assicurare la copertura degli oneri previdenziali per la magistratura onoraria, alla luce dell’avvio della procedura di infrazione contro lo Stato Italiano ai sensi degli articoli 258, 259 e 260 TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) che richiedeva uno specifico intervento normativo di settore.».
Il tavolo tecnico per la riforma della magistratura onoraria non ha portato a nessun risultato utile sul piano operativo, se non uno schema di disegno di legge governativo n.1438, in discussione al Senato, recante “Modifiche alla disciplina sulla riforma organica della magistratura onoraria”, che non risolve il problema della tutela effettiva della magistratura onoraria nei termini enunciati dalla Commissione, perché, contraddittoriamente, da un lato si qualifica come lavoratori autonomi, con tutele previdenziali a proprio carico, dall’altro individua gli “impegni” lavorativi settimanali (n.2 o n.3) e la modalità di remunerazione con indennità mensili e non più a cottimo, secondo dunque i più evidenti indici del lavoro subordinato, almeno nella nozione enunciata dal legislatore e dalla giurisprudenza dell’Unione europea.
Queste contraddizioni traspaiono evidenti anche nell’analisi di impatto della regolamentazione (AIR) del Ministero della giustizia, allegata allo schema di disegno di legge governativo n.1438 alle pagg.4-7 (pagg. 27-30 degli atti parlamentari), ove:
a) si premette che (soltanto) la Corte di giustizia Ue sarebbe «sensibile al riconoscimento/ampiamento di diritti e tutele nei confronti dei cittadini degli Stati membri»;
b) si ammette che l’Unione europea (cioè la Commissione), tra le istanze riformatrici del sistema avanzate, «aveva prospettato come possibili soluzioni o la stabilizzazione dei giudici onorari in servizio, soluzione non costituzionalmente praticabile, oppure la previsione, per essi, di un impegno delimitato compatibile con l’esercizio di altre professioni»;
c) si dà atto che la Commissione davanti al Parlamento europeo in data 28 febbraio 2018 «ha ritenuto che le condizioni di lavoro dei magistrati onorari e dei giudici onorari in Italia non dovrebbero essere meno favorevoli rispetto a quelle dei magistrati di carriera e dei giudici di ruolo, in quanto questi ultimi possono essere considerati come “lavoratori a tempo indeterminato comparabili” di cui alla clausola 3, punto 2, dell’accordo quadro»;
d) si notizia il Parlamento della pendenza di due cause pregiudiziali Di Girolamo C-618/18 e UX (Statut des judes de paix italiens), per cui nonostante la prima questione pregiudiziale Di Girolamo C-472/17 «sia stata dichiarata manifestamente irricevibile dalla Corte di Giustizia UE con ordinanza del 6 settembre 2018, giova evidenziare che residua il rischio di apertura di una procedura di infrazione a carico dell’Italia per effetto della pendenza del Pilot n. 7779/15/EMPL», in cui la Commissione partiva proprio dal precedente dei recorders britannici della sentenza O’ Brien della Corte di giustizia, ignorata dal Ministero della giustizia nella sua relazione AIR;
e) si riconosce che «la permanenza in servizio dei magistrati onorari presso i Tribunali e le Procure è avvenuta grazie a continue proroghe annuali adottate al fine di evitare il collasso del sistema giudiziario» e che «la magistratura onoraria viene impiegata stabilmente nella gestione di ruoli autonomi al fine di evitare la paralisi della macchina della giustizia.».
In presenza di questa situazione di grande incertezza del quadro giuridico sovranazionale e nazionale la III Sezione civile della Suprema Corte riesce a distruggere in un solo colpo il grande credito che la stessa Sezione aveva meritato nel difficile dialogo tra giudici nazionali e Corte di giustizia, andando a valorizzare anche retroattivamente l’entrata in vigore dal 1° dicembre 2009 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Infatti, la Cassazione civile nella recentissima decisione, ignorando la sentenza O’ Brien della Corte di giustizia e la pendenza delle due pregiudiziali Di Girolamo C-618/18 e UX C-658/18, ha rigettato con una pesantissima e arbitraria (rispetto al valore della controversia) condanna alle spese del giudizio (€ 7.000,00) il ricorso di un giudice di pace avverso la sentenza del Tribunale di Milano che - accogliendo il gravame esperito dal Ministero della Giustizia avverso la sentenza del Giudice di pace di Milano - ha accolto l'opposizione ex art. 645 cod. proc. civ. proposta dal predetto Ministero avverso il decreto che gli ingiungeva di pagare, al ricorrente, l'importo di € 2.712,15 (oltre agli interessi legali e alle spese del procedimento monitorio), a titolo di indennità forfettaria mensile pari ad € 258,22 ai sensi dell'art. 11, comma 3, della legge n. 374/1991, per il periodo di sospensione dei termini processuali, per le annualità dal 2001 al 2009.
Come aveva già fatto la Corte costituzionale nella sentenza n.267/2013 sui vigili del fuoco volontari, la Cassazione civile ne riprende la improbabile creazione di un nuovo status giuridico di lavoratore nel pubblico impiego, quello di “funzionario onorario”, senza diritto né alle tutele retributive né a quelle previdenziali del dipendente pubblico.
Incautamente, quasi per giustificare la punizione inflitta al giudice di pace ricorrente nella pesante regolamentazione delle spese legali in misura superiore al doppio dei massimi edittali, la Cassazione civile ha recuperato del tutto a sproposito la declaratoria di incompetenza di cui all’ordinanza della Corte di giustizia del 6 settembre 2018 nella prima causa pregiudiziale Di Girolamo C-472/17, proprio nell’ambito di una controversia nazionale in cui il giudice di pace aveva deciso in 1° grado, accogliendo la domanda, senza che nei due gradi successivi fosse stato mai posto un problema di competenza per valore e/o per materia del giudice correttamente adito: «Quale ultima notazione, infine, va rilevato che la Corte di Giustizia dell'Unione europea, con ordinanza del 6 settembre 2018, in C-472/17, ha dichiarato "irricevibile" l'istanza di rinvio pregiudiziale - proposta dal Giudice di pace de L'Aquila, nell'ambito di un giudizio di contenuto sostanzialmente analogo a quello presente - volta a stabilire l'assimilabilità dell'attività di servizio del giudice di pace a quella del "lavoratore a tempo determinato", di cui, in combinato disposto, agli artt. 1, paragrafo 3, e 7 della direttiva 2003/88/CE del 4 novembre 2003 del Parlamento europeo e del Consiglio, alla clausola 2 dell'accordo contenuto nell'allegato alla direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999 del Consiglio, ed infine all'art. 31, paragrafo 2, della Carta fondamentale dei diritti dell'Unione europea. La declaratoria di irricevibilità è stata motivata sul rilievo che compito della CGUE "è quello di contribuire all'amministrazione della giustizia negli Stati membri e non di esprimere pareri a carattere consultivo su questioni generali o ipotetiche", qual è stato ritenuto quello sollecitato dal Giudice di pace aquilano, avendo lo stesso manifestato dubbi in ordine alla propria competenza a decidere il giudizio nell'ambito del quale era stato operato il rinvio pregiudiziale.».
Evidentemente la Corte di Lussemburgo, con il rafforzamento della rete di comunicazione giurisdizionale generata dal protocollo di accordo del 29 maggio 2017 sulla cooperazione tra Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte Suprema di Cassazione, ha avuto modo di leggere tempestivamente la motivazione della sentenza n.25767/2019 della III Sezione civile della nostra Corte di legittimità del 14 ottobre 2019.
La Corte di giustizia, infatti, con decisione del 22 ottobre 2019, ha rinviato la causa UX C-658/18 per la trattazione orale davanti alla 2ª Sezione per l’udienza del 28 novembre 2019, indicando alle parti il quesito su cui dovranno concentrare le difese, che riguarda esclusivamente la seconda questione pregiudiziale sollevata dal Giudice di pace di Bologna, cioè se i giudici di pace rientrino nella nozione di «lavoratori» ai sensi della direttiva 2003/88, come interpretata dal punto 27 della sentenza Fenoll della Corte di giustizia, e quale sia la pertinenza della sentenza King e della sentenza O’Brien.
Contestualmente, con decisione del 22 ottobre 2019 il Mediatore europeo ha deciso di archiviare i casi 688/2019/LM e 2085/2018/LM in merito al trattamento, da parte della Commissione Europea, di denunce contro l’Italia sulle condizioni di lavoro dei magistrati onorari, rilevando che non vi sarebbe un caso di cattiva amministrazione da parte dell’Istituzione europea in quanto la Commissione starebbe attendendo le due sentenze della Corte di giustizia nelle cause pregiudiziali Di Girolamo C-618/18 e UX C-658/18, prima di decidere se iniziare la procedura di infrazione.
Rimane, dunque, il mistero se la Commissione europea abbia avviato o meno la procedura di infrazione sullo status e la tutela della magistratura onoraria in Italia, mistero privo ormai di rilevanza, dal momento che, sulla questione, deciderà la Corte di giustizia.
Il Collegio a cinque della 2ª Sezione della Corte di giustizia che tratterà la causa pregiudiziale UX C-658/18 all’udienza del 28 novembre 2019 sarà presieduto dal Giudice bulgaro Arabadjiev, che sarà anche il Relatore della causa, come lo era stato nella causa definita dalla sentenza O’ Brien; come avvocato generale è stata indicata la tedesca Kokott, già avvocato generale della causa O’ Brien.
Uno degli altri quattro Giudici del Collegio della Corte di Lussemburgo sarà il britannico Vajda, che, nel suo curriculum professionale pubblicato sul sito della Corte di giustizia, ha giustamente inserito la sua esperienza come magistrato onorario, in quanto recorder della Crown Court per circa un decennio dal 2003-2012 (come il suo collega O’ Brien), quando ha cessato l’incarico per diventare Giudice della Corte di giustizia dall’8 ottobre 2012, attualmente in regime di prorogatio in attesa che il suo mandato cessi con l’inizio della Brexit e la fuoriuscita della Gran Bretagna dal’Unione.

5. La Corte suprema britannica sullo status dei recorders: il corretto rapporto della giurisdizione nazionale con la Corte di giustizia fino….all’uscita dall’Unione
Come Recorder della Corte della Corona, il Giudice Vajda poteva tenere udienze per massimo 30 giorni all'anno, retribuite attualmente nella misura di 642,10 sterline al giorno, che equivalgono ad € 744,64, all’incirca il compenso netto “mensile” dei nuovi giudici onorari di pace inseriti nell’ufficio del processo, ai sensi dell’art.23 d.lgs. n.116/2017; senza dimenticare che i Recorders possono scegliere se calcolare i giorni di formazione come giorni di udienza.
La crisi sistemica della giustizia nazionale che deriva dalla mancanza di tutele e dalla precarietà lavorativa di migliaia di magistrati onorari è resa ancora più marcata dal comportamento della Corte suprema del Regno Unito che, nonostante la Brexit, ha continuato a dialogare con la Corte di giustizia e ha sottoposto la seguente seconda questione pregiudiziale nella causa C-432/17, rispetto a quella già definita dalla Corte di giustizia con la sentenza O’ Brien, nell’ambito del giudizio principale che vede contrapporre il giudice onorario Patrick O’ Brien e il Ministero della giustizia (già Dipartimento per gli affari costituzionali): «Se la direttiva 97/81 e, in particolare, la clausola 4 dell’accordo quadro ad essa allegato, relativa al principio di non discriminazione, imponga che i periodi di anzianità precedenti il termine di trasposizione della direttiva debbano essere presi in considerazione ai fini del calcolo dell’importo della pensione di vecchiaia di un lavoratore a tempo parziale, qualora essi siano considerati nel calcolo della pensione di un lavoratore a tempo pieno comparabile».
La Corte di giustizia con la prima sentenza O’ Brien del 2012 aveva già dichiarato il contrasto della normativa interna, che escludeva i magistrati onorari recorders dal beneficio della pensione a retribuzione differita riservato ai magistrati professionali, con la nozione di «lavoratori che hanno un contratto o un rapporto di lavoro», contenuta nella clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, che figura nell’allegato alla direttiva 97/81/CE.
Secondo la Corte Ue l’esclusione dal beneficio di tale tutela può essere ammessa solo qualora il rapporto che lega i giudici al Ministry of Justice sia, per sua propria natura, sostanzialmente diverso da quello che vincola ai loro datori di lavori i dipendenti rientranti, secondo il diritto nazionale, nella categoria dei lavoratori.
Dopo la prima sentenza O’ Brien, la Corte suprema del Regno Unito con sentenza del 6 febbraio 2013 dichiarava che, all’epoca dei fatti oggetto del procedimento principale, il sig. O’Brien doveva essere considerato quale lavoratore a tempo parziale, ai sensi della clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro, e che non era stata dedotta alcuna giustificazione oggettiva per derogare al principio secondo cui la retribuzione dei giudici a tempo parziale deve fondarsi sulla stessa base prevista per i giudici a tempo pieno, salvo adeguamento pro rata temporis, riconoscendo, quindi, al magistrato onorario il diritto alla concessione di una pensione di vecchiaia alle stesse condizioni previste per un circuit judge (giudice di Tribunale di secondo grado).
La causa veniva quindi rinviata dinanzi all’Employment Tribunal (Tribunale del lavoro) ai fini della determinazione del quantum della pensione spettante al sig. O’Brien. Dinanzi a detto giudice sorgeva la questione se, a tal fine, occorresse tener conto dell’intero periodo durante il quale l’interessato è stato in carica a decorrere dalla sua nomina, avvenuta il 1° marzo 1978, vale a dire 27 anni, ovvero unicamente del periodo in cui questi è rimasto in carica successivamente alla scadenza del termine di trasposizione della direttiva 97/81, ossia meno di 5 anni. L’Employment Tribunal (Tribunale del lavoro) riteneva che occorresse tener conto dell’intero periodo in cui l’interessato è stato in carica, mentre l’Employment Appeal Tribunal (Tribunale d’appello del lavoro) decideva in senso contrario, e la Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) (Corte d’appello di Inghilterra e Galles - sezione civile) confermava quest’ultima decisione, avverso la quale il sig. O’Brien proponeva ricorso, nuovamente, dinanzi alla Suprema Corte britannica.
Secondo la decisione di rinvio pregiudiziale, la maggior parte dei membri della Corte suprema del Regno Unito è incline a ritenere che la direttiva 97/81 produca l’effetto di vietare discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale al momento di esigibilità della pensione di vecchiaia. La direttiva si applicherebbe ratione temporis nel momento in cui la pensione di vecchiaia diviene esigibile successivamente all’entrata in vigore della direttiva. Laddove parte dell’anzianità di servizio sia stata maturata anteriormente a tale data, la direttiva stessa si applicherebbe agli effetti futuri della fattispecie.
Vi era, però, secondo la Suprema Corte del Regno unito un profilo di incertezza interpretativa è legato alla sentenza Ten Oever della Corte di giustizia, secondo cui la peculiarità della retribuzione dei magistrati professionali consisterebbe in una dissociazione temporale tra costituzione del diritto alla pensione, che si realizza progressivamente durante tutto il corso della carriera del lavoratore, e la corresponsione effettiva della prestazione, differita, per contro, al raggiungimento di una determinata età.
La Corte di giustizia con la seconda sentenza O’ Brien , sempre con Giudice Relatore Arabadijev e con Avvocato generale Kokott, ha statuito che la direttiva 97/81/CE dev’essere interpretata nel senso che, in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, i periodi d’anzianità precedenti la scadenza del termine di trasposizione della direttiva 97/81, come modificata dalla direttiva 98/23, rilevano ai fini della determinazione dei diritti alla pensione di vecchiaia.
La Corte Ue, con secca e condivisibile motivazione, evidenzia che la circostanza che un diritto alla pensione sia definitivamente acquisito al termine del corrispondente periodo di attività non consente di affermare che la situazione giuridica del lavoratore debba essere considerata definitivamente acquisita e osserva, a tal proposito, che solo successivamente e tenendo conto dei periodi di anzianità rilevanti il lavoratore potrà effettivamente avvalersi di tale diritto ai fini della corresponsione della propria pensione di vecchiaia (punto 35).
Una notazione: desta un senso di amarezza verificare come la Suprema Corte del Regno unito, che ha un potere nomofilattico interno che lambisce e spesso assorbe i compiti di una Corte costituzionale nei sistemi di civil law, continui a dialogare con la Corte di giustizia e ad accettare la primazia del diritto dell’Unione europea, nonostante si approssimi la data per la fuoriuscita di UK dal sistema Ue.
In Italia, la Corte costituzionale (ordinanza n.274/2012), le Corti superiori della giurisdizione civile (Sezioni unite, sentenza n.12721/2017; III Sezione civile, sentenza n.25767/2019) e di quella amministrativa (Consiglio di Stato, sentenza n.3556/2017) affermano la natura volontaria (o di funzionario onorario) e non subordinata né parasubordinata né autonoma dell’attività dei magistrati onorari, negando ogni tutela sostanziale e previdenziale e ignorando la sentenza O’ Brien della Corte di giustizia e la nozione di lavoratore di cui alla direttiva 2003/88/CE, salvo citare a sproposito le decisioni della Corte di giustizia (Cassazione, sentenza n.25767/2019).

6. Il precariato pubblico italiano: un cantiere sempre aperto, che sarà chiuso dalle risposte della Corte di giustizia alla giurisdizione nazionale, contra legem?
Forse ci sarà una sentenza O’ Brien della Corte di giustizia per la magistratura onoraria italiana, che ne riconosca lo status di lavoratore secondo la direttiva 2003/88/CE e i diritti sostanziali e previdenziali attualmente negati, che mettono in discussione il fondamentale valore dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice nazionale, che è anche giudice europeo.
Un ottimo segnale in questa direzione proviene sicuramente dal Giudice del lavoro (professionale) del Tribunale di Vicenza, che ha sollevato con ordinanza del 30 ottobre 2019 questioni pregiudiziali sullo status e i diritti di un giudice onorario di tribunale, coinvolgendo così finalmente anche la magistratura togata sull’impervia ma praticabile strada della maggior tutela dei diritti fondamentali della magistratura onoraria, assicurata dal dialogo tra giurisdizione di merito nazionale e Corte di giustizia.
Sulle questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Napoli per quanto riguarda il diritto alla stabilità lavorativa degli insegnanti di religione cattolica, il conflitto evocato dal giudice del rinvio tra la sentenza Sciotto della Corte di giustizia e la sentenza n.248/2018 della Corte costituzionale sembra andare verso la demolizione definitiva del principio del controllo accentrato di costituzionalità invocato e “imposto” dalla sentenza n.269/2017 del Giudice delle leggi.
La Commissione europea nelle sue osservazioni scritte si è subito adeguata alla sentenza Sciotto, non senza mancare di evidenziarne la “novità” rispetto alla giurisprudenza comunitaria precedente, ed attivato, seppure con clamoroso ritardo (e dopo aver improvvidamente archiviato quella aperta in precedenza n.2010-2124), la procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano per inadempimento alla direttiva 1999/70/CE anche verso la categoria degli insegnanti (e di tutto il personale ausiliario, tecnico ed amministrativo della scuola pubblica) discriminati dalla mancata assunzione a tempo indeterminato in base ai contorti e cervellotici meccanismi di selezione della legge n.107/2015.
Né può impressionare il giudice nazionale la tecnica interpretativa della disapplicazione della norma interna in contrasto con il diritto dell’Unione, dal momento che proprio la Suprema Corte di Cassazione con la fondamentale sentenza n.22558/2016 ha inaugurato questo percorso ermeneutico di recepimento della giurisprudenza della Corte di giustizia e della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato di non discriminazione, applicandolo alla questione della progressione economica basata sull’anzianità di servizio dei supplenti della scuola pubblica, equiparata a quella dei docenti e al personale ATA assunto in ruolo.
D’altra parte, il principio di non discriminazione sulle condizioni di lavoro, evocato dalla Commissione europea nelle osservazioni scritte della causa Gilda ed a. sugli insegnanti di religione cattolica per giustificare la disapplicazione delle norme interne ostative alla tutela effettiva in favore del soggetto discriminato, ha trovato efficace applicazione anche nella sentenza della Cassazione n.12108/2018 , che a sua volta ha dato attuazione correttamente all’ordinanza Maturi della Corte di giustizia, intervenuta, su questione pregiudiziale sollevata dalla stessa Suprema Corte con le ordinanze n.6101 e n.6102 del 2017 in materia di licenziamento discriminatorio per sesso, in ragione dell’inferiore età prevista per le donne per la pensione di vecchiaia, intimato nei confronti di tersicoree della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma.
Inoltre, con le due sentenze nn.6679-6680/2019 la Cassazione ha applicato i principi enunciati dalla Corte di giustizia, richiamandone le due sentenze che consentirebbero al giudice nazionale i maggiori spazi di diretta applicazione del principio di uguaglianza e non discriminazione di cui all’art.3 Cost. anche nelle controversie tra privati, attraverso la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (sentenza Sciotto, punto 71) e l’art.20 della Carta dei diritti fondamentali Ue (sentenza Milkova ): «Tale conclusione risulta oggi vieppiù imposta dalla interpretazione conforme della normativa considerata all'ultima parte della decisione di recente resa dalla Corte di giustizia nella causa Sciotto, (Corte di giust. 25 ottobre 2018, causa C-331/17) ed alla necessità di evitare gravi disparità di trattamento anche alla luce della sentenza Milkova (V. Corte Giust. 9 marzo 2017, Causa C- 406/15, Milkova) dovendo scongiurarsi il rischio che la distinzione operata da una normativa nazionale tra i lavoratori subordinati a tempo determinato alle dipendenze di un qualsiasi datore di lavoro privato e quelli che svolgano le medesime mansioni alle dipendenze di una Fondazione lirica, non risulti adeguata al fine perseguito da tale normativa.» (sentenza n.6680/2019, punto 1.2)
Infine, qualche approfondimento merita la pregevole ordinanza di rinvio pregiudiziale del TAR Lazio sui ricercatori universitari precari.
Infatti, con la recentissima sentenza Minoo Schuch-Ghannadan la Corte di giustizia si è pronunciata in una controversia riguardante una ricercatrice universitaria a tempo determinato e con orario parziale in Austria, segnalando l’esistenza di una situazione di doppia discriminazione sia per ragioni di sesso con violazione della direttiva 2006/54/CE sia per violazione della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale recepito dalla direttiva 97/81/CE, che emerge dalla legislazione austriaca, che prevede che la durata complessiva dei contratti di lavoro consecutivi a tempo determinato dei ricercatori universitari non può eccedere 6 anni, o 8 anni nel caso di attività a tempo parziale, salvo la concessione di una proroga unica per una durata massima di 10 anni per i lavoratori a tempo pieno, e di 12 anni nell’ipotesi di attività a tempo parziale, se sussiste una giustificazione obiettiva, che consiste, in particolare, nella necessità di continuazione oppure di conclusione di progetti di ricerca e di pubblicazioni in corso.
In particolare, la sig.ra Schuch-Ghannadan era stata impiegata come ricercatrice dalla Medizinische Universität Wien (MUW) dal 9 settembre 2002 al 30 aprile 2014 in forza di un serie di contratti a tempo determinato successivi, sia a tempo pieno sia a tempo parziale, e chiedeva la stabilizzazione del rapporto di lavoro.
L’Avvocato generale Pitruzzella nelle sue conclusioni nella causa C-274/18 Minoo Schuch-Ghannadan, depositate il 27 giugno 2019 (EU:C:2019:547), aveva anche proposto, su sollecitazione della Commissione, di allargare lo spatium decidendi della Corte di giustizia al contrasto con la direttiva 1999/70/CE, su cui il giudice del rinvio non aveva formulato alcun quesito, concludendo sul punto nel senso che «la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev’essere interpretata nel senso che osta a una disposizione legislativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che non prevede misure idonee, ai sensi di tale clausola, a prevenire il ricorso abusivo a rapporti di lavoro a tempo determinato successivi per i lavoratori impiegati presso le università nell’ambito di progetti finanziati con risorse esterne o di progetti di ricerca.».
La Corte di giustizia non ha accolto la sollecitazione dell’Avvocato generale ed ha limitato la decisione alla violazione del principio di non discriminazione sulle direttive 2006/54/CE e 97/81/CE su cui era stata sviluppata la domanda di rinvio pregiudiziale dell’Arbeits- und Sozialgericht Wien, il Tribunale del lavoro e della previdenza sociale di Vienna.
Tuttavia, le argomentazioni dell’Avvocato generale Pitruzzella potrebbero agevolmente essere trasposte nella causa pregiudiziale sul ricercatore universitario precario italiano sollevata dal TAR Lazio, senza dimenticare che il giudice amministrativo giustifica il rinvio anche alla luce della sentenza Sciotto della Corte di giustizia, in cui le due clausole 4 e 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato vengono lette in combinato disposto, in direzione della stabilità lavorativa come unica sanzione effettiva anche in applicazione del principio di non discriminazione con i lavoratori a tempo indeterminato comparabili (ex precari poi stabilizzati).
Recentemente, la Suprema Corte con l’ordinanza n.8671/2019 (cit.) ha disatteso l'istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, al fine di sentir valutare se le clausole 4, punto 1 e 5 e 5, punti 1 e 2, dell'Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla Direttiva 199/70/CE, nonché gli artt. 20 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ostino ad una normativa nazionale, quale l'art. 36 d. lgs. 165/2001, la quale in caso di accertato abusivo ricorso ai contratti a termine impedisce la conversione dei rapporti, a tempo indeterminato, così discriminando i lavoratori del settore pubblico rispetto a quelli del settore privato, oltre che rispetto ad altri lavoratori del settore pubblico, per i quali la tutela sanzionatoria è rappresentata dalla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Quanto alla discriminazione rispetto ad altri lavoratori del settore pubblico, la Cassazione ha respinto la richiesta di rinvio ai sensi dell’art.267 TFUE, «essendo stato prospettato il raffronto rispetto a tredici diverse categorie di lavoratori, senza alcuna concreta analisi di dettaglio che illustri le diverse discipline e le ponga a confronto critico con quella generale di cui all'art. 36 cit., nelle sue plurime implicazioni di cui si è detto (in tal senso Corte Cost. 248/2018 cit., punto 6.1)».
Il rigetto dell’istanza di rinvio pregiudiziale per genericità della prospettazione, in una fattispecie di causa in cui, peraltro, i due lavoratori ricorrenti erano già stati stabilizzati nel corso del lungo giudizio in base alle disposizioni della legge finanziaria n.296/2006 nel settore della sanità pubblica, ma l’azienda sanitaria non aveva dedotto in appello l’avvenuta trasformazione a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro a termine, apre, comunque, un’interessante finestra di dialogo tra la Cassazione e l’avvocatura del libero foro, già positivamente utilizzata dalla giurisprudenza di merito con l’ordinanza del Tribunale di Napoli sugli insegnanti di religione cattolica precari (nella comparazione con i docenti immessi in ruolo con la legge n.107/2015) e con l’ordinanza del TAR Lazio sui ricercatori universitari precari (nella comparazione con i dipendenti pubblici a tempo determinato, compresi i dirigenti, stabilizzati con la riforma Madia del d.lgs. n.75/2017).
Pertanto, in attesa delle risposte che perverranno dalla Corte di giustizia sulle nuove pregiudiziali e delle iniziative della Commissione europea sulle procedure di infrazione avviate, anche quando su di esse sia stato apposto il “segreto di Stato” per la delicatezza della questione (come nel caso della magistratura onoraria), il cantiere del precariato pubblico rimane sempre aperto, avendo però sicuramente chiuso i cancelli all’intervento della Corte costituzionale, grandemente responsabile, con le due sentenze n.89/2003 e n.248/2018, di non aver compreso che il principio della salvaguardia del pubblico concorso come modalità di accesso stabile privilegiato alla pubblica amministrazione viene minata, nelle sue fondamenta, proprio da quei comportamenti discriminatori e incoerenti che hanno portato alla stabilizzazione atipica e aconcorsuale di tanti privilegiati, anche nell’ambito degli Organi costituzionali o di rilevanza costituzionale.

 

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