Testo integrale con note e bibliografia
1. Standardizzazione e contingentamento del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo.
Con ricorso presentato al Comitato Europeo dei Diritti Sociali nell’ottobre 2017 la CGIL lamentava la violazione da parte dello Stato italiano dell’art. 24 della Carta Sociale Europea sull’assunto che il meccanismo indennitario stabilito dagli artt. 3, 4, 9 e 10 del d. lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act sulle tutele crescenti), nella parte in cui standardizza la misura dell’indennità risarcitoria in funzione automatica dell’anzianità di servizio e ne limita l’ammontare a un tetto massimo invalicabile (c.d. plafond), priverebbe il lavoratore illegittimamente licenziato del diritto ad una riparazione adeguata, vale a dire proporzionata al danno concretamente subito e sufficientemente dissuasiva.
Nel frattempo, la Corte Costituzionale con sentenza n. 194/2018 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1 del d. lgs. n. 23 del 2015 nella parte in cui prevedeva che il computo dell’indennità per i casi di licenziamento illegittimo dovesse avvenire secondo un criterio di rigida standardizzazione nella misura di due mensilità di retribuzione globale di fatto per ogni anno di anzianità maturata dal lavoratore. La Corte, per un verso, ha ribadito l’inesistenza di un vincolo costituzionale che imponga la tutela reintegratoria, per altro verso ha riaffermato che la discrezionalità del legislatore, nel disciplinare meccanismi riparatori di tipo economico-monetario, è assoggettata al vincolo interno della ragionevolezza, il quale esige la preservazione di un incomprimibile spazio valutativo affidato alla ponderazione giurisdizionale degli interessi concretamente in gioco. In questa prospettiva, al giudice non può essere precluso il bilanciamento di una vasta gamma di criteri valutativi, individuati dalla Corte nel numero di dipendenti occupati, nelle dimensioni dell’impresa, nell’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, nel comportamento e nelle condizioni delle parti, nelle dimensioni dell’attività economica . L’anzianità nel lavoro, “certamente rilevante, è […] uno solo dei tanti” fattori suscettibili di bilanciamento da parte del giudice. La Corte ha ricostruito tale catalogo avvalendosi di una molteplicità di referenze di diritto positivo, in particolar modo l’art. 8 della l. n. 604 del 1966 e l’art. 18 della l. n. 92 del 2012. A giudizio della Corte, l’esigenza di assicurare la personalizzazione del danno concretamente subito dal lavoratore è imposta dal principio costituzionale di uguaglianza, il quale esige che situazioni simili siano trattate in modo ragionevolmente simile, e situazioni diverse siano trattate in modo ragionevolmente diverso . In tale quadro sistematico la discrezionalità giurisdizionale assurge al ruolo di elemento strutturale, di carattere procedurale, del principio di ragionevolezza stesso. E’ coerente con la logica costituzionale che alla discrezionalità valutativa del giudice siano rimessi non solo la scelta di avvalersi di criteri di quantificazione ulteriori qualora necessario ad assicurare una più adeguata personalizzazione del danno, ma anche il sindacato sul peso ponderale da riconoscere a ciascun criterio in ragione delle peculiarità del caso concreto.
Quanto alla questione della compatibilità costituzionale dei limiti edittali posti dal Jobs Act al quantum risarcitorio, la Corte ha riconosciuto che il limite massimo di 24 mensilità, successivamente elevato a 36 mensilità dal d. l. 12 luglio 2018, n. 87 (poi convertito nella l. 9 agosto 2018, n. 96), non costituisce violazione della nozione costituzionale di “adeguatezza” del risarcimento, la quale impone che il ristoro sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto . La Corte ha invece ha serbato un enigmatico silenzio in merito alla compatibilità costituzionale del limite minimo di 4 mensilità, elevato a 6 mensilità dal c.d. “decreto dignità”.
A fronte della pronuncia della Corte Costituzionale il Comitato Europeo dei Diritti Sociali, nel procedimento CGIL c. Italia, ha sostanzialmente preso atto della sopravvenuta cessazione del materia del contendere con riferimento al profilo di doglianza riguardante la standardizzazione dell’indennità in misura “pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per calcolare l’importo del TFR erano di servizio”, per focalizzare il giudizio sulla doglianza, rimasta impregiudicata, relativa alla limitazione del quantum dell’indennità entro un plafond massimo di 24 ovvero 36 mensilità, a seconda che il licenziamento sia o meno avvenuto entro il 13 luglio 2018 . Ribadendo un orientamento ormai consolidato in seno alla propria prassi interpretativa, il Comitato ha ritenuto che il sistema legislativo italiano sia congegnato in modo tale da privare il lavoratore illegittimamente licenziato del diritto ad una riparazione adeguata in quanto proporzionata al danno subito e sufficientemente dissuasiva (§ 104), con esclusione dei soli casi contemplati dall’art. 2 del d. lgs. n. 23 del 2015, rispetto al quale invero l’organizzazione sindacale ricorrente non aveva dedotto alcuna violazione. Ed infatti quest’ultima norma stabilisce che, in ipotesi di licenziamento discriminatorio, inefficacie in quanto privo di forma scritta o altrimenti nullo, al lavoratore è riconosciuta un’indennità, non limitata ad alcun plafond, la quale assicura sia l’integrale copertura delle perdite finanziarie subite, sia la reintegrazione nel posto di lavoro, a meno che non sia lo stesso lavoratore ad optare in favore di un indennizzo forfettario in sostituzione della reintegrazione.
2. Il valore giuridico dell’art. 24 della Carta Sociale Europea nella giurisprudenza costituzionale.
La decisione CGIL c. Italia ha rilanciato la questione della valenza giuridica rivestita delle disposizioni della Carta Sociale Europea nel sistema delle fonti del diritto nazionale. Ed infatti, tra i molteplici profili di possibile incostituzionalità sottoposti all’attenzione della Corte Costituzionale, un ruolo particolarmente significativo è giocato dai parametri di derivazione sovranazionale. Il sindacato di costituzionalità in particolare ha abbracciato, tra i molteplici profili, la prospettata violazione di una serie di disposizioni normative di fonte sovranazionale, interposte ai sensi dell’art. 117, comma 1 Cost., le quali sanciscono, in ragione di graduati schemi regolativi, il diritto del lavoratore a una tutela efficace nei confronti del licenziamento ingiustificato: l’art. 10 Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento, l’art. 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) e l’art. 24 della Carta Sociale Europea (CSE).
Invero, l’art. 10 della Convenzione OIL e l’art. 30 della CDFUE sono rapidamente usciti di scena. Quanto all’art. 10, la Corte ne ha negato l’attitudine ad essere assunto alla stregua di parametro interposto non essendo stata la Convenzione OIL ratificata dall’Italia. Quanto all’art. 30 la Corte, muovendo dalla constatazione che l’Unione non ha in concreto esercitato la competenza riconosciutale dall’art. 153, § 2, lett. d) TFUE in materia di “protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro”, ha escluso che la Carta dei Diritti Fondamentali possa entrare in gioco ai sensi dell’art. 51 CDFUE, il quale ne subordina l’applicabilità alla condizione che il singolo Stato membro abbia agito “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”.
Nell’economia complessiva della decisione costituzionale assume invece un ruolo di preminente rilevanza, seppur problematica, l’art. 24 CSE. È allora necessario interrogarsi se ed in che misura tale parametro normativo, nel significato assunto alla luce della prassi interpretativa del Comitato, possa esercitare un effetto conformativo sull’ordinamento nazionale, in particolare ai fini alla determinazione giudiziale della misura dell’indennità risarcitoria, la cui quantificazione è ora nuovamente affidata alla discrezionalità del giudice comune.
Punto di partenza è il riconoscimento, operato dalla sentenza n. 194/2018, dell’idoneità delle disposizioni della Carta Sociale Europea ad assumere valenza propria di parametro interposto rispetto all’art. 117 Cost.. E’ stato per la prima volta rotto il confinamento della Carta nell’opaca nebulosa del soft law, per riconoscerne il ruolo di fonte del diritto oggettivo.
La Carta è uno strumento convenzionale integrato nel sistema regolativo del Consiglio d’Europa. La mission della Carta è quella di ampliare il perimetro di tutela dei diritti fondamentali oltre il tradizionale catalogo dei diritti civili e politici riconosciuti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, così da aprire le porte ad una nuova generazione di diritti economici e sociali quali il diritto all’abitazione, alla salute e all’educazione, il diritto al lavoro e al congedo parentale, il diritto al protezione sociale e legale, il diritto alla protezione dalla povertà e dall’esclusione sociale, il diritto alla libera circolazione delle persone e alla non discriminazione, i diritti dei lavoratori migranti e delle persone con disabilità. Un Protocollo Addizionale del 1995, entrato in vigore nel 1998, permette ad una serie di organizzazioni rappresentative - quali il CES, l’UNICE e l’OIE (nella sostanza, i sindacati transnazionali europei), alle organizzazioni non governative dotate di uno statuto consultivo presso Consiglio d’Europa, nonché alle organizzazioni dei datori di lavoro ed ai sindacati riconosciuti come tali dallo Stato contraente chiamato in causa dal reclamo - di investire il Comitato Europeo dei Diritti Sociali di questioni concernenti la ritenuta violazione della Carta Sociale Europea.
La Corte Costituzionale ha invece esplicitamente escluso che le decisioni del Comitato possano assumere per i giudici nazionali efficacia vincolante analoga a quella propria delle disposizioni convenzionali. Il ragionamento seguito dalla Corte muove dall’assunto che, a differenza di quanto avviene nel sistema della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, né la Carta Sociale Europea, né il Protocollo Addizionale contengono disposizioni di effetto equivalente all’art. 32 § 1 CEDU, il quale radica la competenza della Corte in merito “a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli che siano sottoposte a essa […]” ovvero all’art. 46 CEDU, il quale fonda l’autorità di res iudicata della sentenza resa dalla Corte EDU nei rapporti con lo Stato nei cui confronti è stata pronunciata. Sulla scorta di tali premesse, alle decisioni del Comitato non può essere esteso il principio affermato nelle note sentenze costituzionali n. 348 e 349 del 2007, secondo cui “le norme della CEDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea”, con la conseguenza che “la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata”. Nella sostanza, mentre le disposizioni della CEDU sono vincolanti nel significato che ad esso viene attribuito all’esito dell’attività interpretativa operata dalla Corte EDU , le disposizioni della Carta Sociale Europea costituiscono di per sé diritto oggettivo, ma nessun vincolo conformativo può promanare dall’interpretazione che di esse sia fatta dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali .
Già con la sentenza n. 120/2018 la Corte Costituzionale aveva preso le distanze dalla possibilità di riconoscere alle decisioni del Comitato efficacia interpretativa vincolante. La Consulta, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di una norma del Codice dell’ordinamento militare nella parte in cui per i militari escludeva in qualunque forma il diritto di associazione sindacale anziché riconoscerne il legittimo esercizio qualora esercitato “alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge”, per un verso ha riconosciuto all’art. 5 della Carta il valore di parametro interposto ai sensi dell’art. 117 Cost., per altro verso ha escluso che l’ancor più libertaria interpretazione dell’art. 5 elaborata dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali nel caso Conseil Européen des Syndicats de Police c. France potesse assumere rilevanza vincolante ai fini del sindacato di costituzionalità,.
La questione della valenza giuridica delle decisioni adottate dal Comitato è suscettibile di assumere una rilevanza applicativa di notevolissimo impatto, anche giurisdizionale. Il testo letterale dell’art. 24 CDS, sancendo il diritto del lavoratore ingiustamente licenziato ad “un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”, presenta un contenuto all’evidenza privo di precisi parametri determinativi. La clausola convenzionale, in sé considerata, sembra non spingersi oltre la generica affermazione di un principio di sostanziale indifferenza tra rimedi economici-indennitari e rimedi reintegratori-restitutori. Essa pertanto non solleva, di per sé, particolari rischi di conflitto rispetto ai tradizionali principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale in tema di riparazione del danno da licenziamento illegittimo, prima tra tutti la negazione che la tutela reintegratoria sia un rimedio costituzionalmente imposto, ferma la necessità di garantire l’adeguatezza del risarcimento .
In particolare nella sentenza n. 46 del 2000 la Corte Costituzionale, ribadendo l’inesistenza di un principio che imponga l’integralità della tutela risarcitoria, ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970 ritenendo, tra i vari aspetti, che una volta rimossa tale norma dall’ordinamento, resterebbe comunque operante la tutela obbligatoria prevista in via generale dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966, la quale evidentemente è stata ritenuta misura in sé sufficiente ad assicurare un’adeguata riparazione. La Corte ha anche affermato, incidentalmente, che tale tutela residuale è sufficiente ad assicurare il rispetto anche dello standard del “congruo indennizzo o altra adeguata riparazione” prescritto dall’art. 24 della Carta Sociale Europea.
3. La prospettiva interpretativa del Comitato Europeo dei Diritti Sociali.
Per contro, con la decisione CGIL c. Italia il Comitato Europeo dei Diritti Sociali ha inteso dare continuità all’orientamento già assunto nell’ormai noto caso Finnish Society c. Finlandia (decisione n. 106/2014) , riaffermando un’interpretazione dell’art. 24 della Carta ben più radicale, e potenzialmente dirompente, rispetto al significato più “leggero” consentito dal testo letterale della disposizione convenzionale, che la Consulta ha espressamente riconosciuto in linea con lo standard costituzionale interno.
Muovendo dall’esigenza di individuare un corretto punto di bilanciamento che nel sistema convenzionale devono trovare da un lato l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, dall’altro lato l’interesse organizzativo-finanziario del datore di lavoro, nella decisione Finnish Society il Comitato ha ritenuto che costituisca “adeguata compensazione” quella che include: a) il rimborso delle perdite economiche subite tra il licenziamento e la decisione del ricorso (“reimbursement of financial losses incurred between the date of dismissal and the decision of the appeal body”); b) la possibilità di reintegrazione (“reinstatement”); c) una compensazione economica di livello sufficientemente elevato da assicurare la reintegra del danno e dissuadere il datore di lavoro dal reiterare illecito (“compensation at a level high enough to dissuade the employer and make good the damage suffered by the employee”).
In sostanza, nell’interpretazione cui è pervenuto il Comitato i rimedi di carattere indennitario-risarcitorio possono essere considerati adeguato rimedio compensativo soltanto quando siano tali da reintegrare il lavoratore illegittimamente danneggiato in una situazione non meno favorevole di quella in cui in cui egli si sarebbe trovato se l’illecito non fosse stato commesso (“the possibility of awarding the remedy recognises the importance of placing the employee back into an employment situation no less favourable than he/she previously enjoyed”).
Dall’analisi del percorso argomentativo sviluppato dal Comitato si evince che rimedio reintegratorio e rimedio compensativo sono strumenti di tutela qualitativamente eterogenei, in quanto per natura diretti a reintegrare tipologie di danno sostanzialmente non assimilabili. In coerenza con tale principio il Comitato, muovendo dal rilievo che sono ben ravvisabili concreti casi in cui il danno effettivo subito dal lavoratore sia superiore al plafonnement prestabilito dalla legge, ha ritenuto che la legislazione finlandese, nel prevedere un limite di 24 mesi di retribuzione quale soglia risarcitoria massima onnicomprensiva del danno, integri una violazione dell’art. 24 della Carta in quanto fatalmente inidonea ad assicurare che la compensazione economica del danno sia in ogni caso commisurata alla perdita effettivamente sofferta. Né valgono a sanare tale deficit riparatorio i rimedi antidiscriminatori previsti dall’ordinamento finlandese, i quali compensano una distinta tipologia di danno, eventualmente concorrente, rispetto al danno da licenziamento ingiustificato, il quale deve trovare autonomo ed autosufficiente ristoro.
A tale proposito, destano particolare interesse, in ragione dell’evidente specularità rispetto alla disciplina sanzionatoria stabilita dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966, le Conclusioni tratte nel 2012 nei confronti della Bulgaria, ove il Comitato ha ritenuto inadeguato il limite compensatorio massimo di sei mesi di retribuzione previsto dalla legge nazionale bulgara (Conclusioni 2012 Bulgaria).
In merito alla questione dell’inesistenza nel diritto finlandese di qualunque rimedio di natura reintegratoria, il Comitato ha chiarito che una corretta lettura dell’art. 24 della Carta, nell’inciso ove fa riferimento ad “altra adeguata riparazione”, impone che il concetto di other appropriate relief debba necessariamente abbracciare la tutela reintegratoria, in quanto rimedio per eccellenza in grado di porre il lavoratore in una situazione non meno favorevole rispetto a quella in cui si sarebbe trovato se l’illecito non fosse stato consumato. Ed infatti il Comitato ha escluso che possa costituire “adeguata riparazione” alternativa l’obbligo datoriale di reimpiego del lavoratore licenziato in caso di nuova assunzione nei nove mesi successivi al recesso, atteso che la tutela reintegratoria deve poter operare senza limitazioni temporali o comunque rimesse alla valutazione discrezionale del datore di lavoro (nello stesso senso, Conclusioni Finlandia 2012).
Sulla scorta di questa analisi si deduce che, nella prospettiva del Comitato, il rimedio compensatorio, qualora previsto in via alternativa rispetto al rimedio reintegratorio, può essere considerato adeguata forma di riparazione soltanto quando sia di entità tale da garantire al lavoratore di un ristoro tendenzialmente integrale del danno sofferto in conseguenza del licenziamento, e quindi tale da assorbire l’equivalente economico del valore del posto di lavoro illegittimamente perduto, senza esaurirsi necessariamente in esso.
Con la decisione CGIL c. Italia il Comitato ha integralmente ribadito l’impostazione di principio affermata in Finnish Society, facendone applicazione alle caratteristiche proprie della legislazione italiana. Le disposizioni di diritto nazionale, non riconoscendo il rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro, ma nemmeno il diritto alternativo ad un indennizzo in grado di coprire le perdite finanziarie effettivamente subite in conseguenza del licenziamento illegittimo, sono da considerarsi in linea di principio contrarie alla Carta, in quanto sproporzionate e prive di carattere sufficientemente dissuasivo (§ 96). Concorre a svilirne ulteriormente il carattere dissuasivo il meccanismo di conciliazione previsto dall’art. 6 del d. lgs. n. 23 del 2015, il quale anzi è strutturato in modo tale da incentivare il datore di lavoro a sottrarsi al procedimento giurisdizionale tramite un’offerta conciliativa di ammontare contingentato (27 mensilità di retribuzione, ridotte a 6 mensilità per le piccole imprese). Tale procedura pone il lavoratore dinanzi ad una alternativa sostanzialmente lose-lose: intraprendere la via giudiziaria, assumendosi il rischio di non veder comunque reintegrato nella sua totalità il danno subito in conseguenza di una durata del giudizio “extra plafond”, o accettare l’offerta conciliativa, di immediata disponibilità ma di importo anch’esso contingentato ed ancor più ridotto nel quantum.
Analogamente a quanto già rilevato con riferimento al diritto finlandese e sloveno (Conclusioni Finlandia 2012 e Slovenia 2012), non vale a ricondurre il regime sanzionatorio del Jobs Act entro il perimetro della compatibilità convenzionale la circostanza che, ai sensi delle norme generali in materia di responsabilità civile, il lavoratore ha a disposizione ulteriori rimedi giudiziari diretti al ristoro del distinto danno morale ovvero alla salute eventualmente subito, atteso che tali danni possono eventualmente sommarsi, ma non sostituirsi o compensare il danno conseguito alla perdita illegittima del posto di lavoro, il quale deve trovare autonomo ed integrale ristoro.
Infine, merita particolare attenzione la centralità del ruolo riconosciuto alla prassi applicativa giurisprudenziale: il giudizio di incompatibilità convenzionale espresso dal Comitato si fonda anche sull’assunto del mancato riscontro di una stabile prassi giurisprudenziale in grado di assicurare, quanto meno in via interpretativa, un adeguato effetto correttivo delle deficienze ravvisate nel sistema legislativo (§ 99).
4. Convergenze e divergenze tra standard di protezione costituzionale e i livelli minimi di tutela del Comitato Europeo dei Diritti Sociali.
Le prese di posizione assunte da Corte Costituzionale e Comitato Europeo dei Diritti Sociali mostrano, almeno implicitamente, un significativo punto di convergenza. Come le più recenti decisioni del Comitato rifiutano l’idea di qualsivoglia forfettizzazione automatica del danno, così anche la sentenza n. 194/2018 si colloca nel solco interpretativo, sempre più consolidato nella giurisprudenza costituzionale, che ritiene inammissibili gli automatismi legislativi che precludano al giudice valutazioni individualizzate, calibrate sul singolo caso e necessarie ad assicurare una concreta attuazione del principio di proporzionalità. Sulla scorta di tale approccio sistematico, con sentenza n. 161 del 2018 la Corte ha ribadito l’illegittimità della sanzione della destituzione automatica nei confronti di pubblici dipendenti e professionisti senza la mediazione del procedimento disciplinare , sull’assunto che l’adeguatezza della sanzione al caso concreto non può essere garantita se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti posti in essere nella commissione dell’illecito . Analoghi principi sono affermati in materia di revoca prefettizia “in via automatica” della patente di guida in ipotesi di condanna per reati in materia di stupefacenti, essendo invece costituzionalmente imposta una preventiva ponderazione delle caratteristiche del caso concreto, quali la risalenza nel tempo e la gravità della condanna penale . Analogamente, con sentenza n. 76 del 2018 la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 47 quinquies, comma 1 bis ord. pen. nella parte in cui, con presunzione insuperabile, escludeva in radice l’accesso alle modalità agevolate di espiazione della pena per la madre che avesse commesso taluni delitti particolarmente qualificati. A giudizio della Corte che tale norma introduceva un’inammissibile automatismo basato su indici presuntivi, il quale illegittimamente precludeva al “giudice di valutare la sussistenza in concreto, nelle singole situazioni, delle ricordate esigenze di difesa sociale […]”.
La Corte e il Comitato sembrano condividere anche l’idea generale che, quantomeno in linea di principio, la reintegrazione nel posto di lavoro non sia un rimedio sanzionatorio costituzionalmente e – rispettivamente – convenzionalmente imposto.
I due organi invece divergono radicalmente nel modo di intendere la qualità strutturali che devono recare le misure riparatorie alternative alla reintegra, vale a dire le forme di compensazione economica del danno. Come detto, la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale ritiene compatibili con l’ordinamento costituzionale i rimedi sanzionatori, di natura puramente economica, concepiti secondo il criterio della “forbice edittale”, la cui logica assume che qualunque danno subito dal lavoratore ingiustamente licenziato possa e debba trovare adeguato ristoro entro un certo limite di valore predeterminato per legge, inclusi casi in cui il danno effettivamente subito sia esorbitante rispetto al tetto massimo stabilito dalla legge. E infatti la Corte, in alcune pronunce , ha ritenuto salvaguardato lo standard domestico di “adeguatezza” della riparazione anche in talune ipotesi in cui l’entità del risarcimento può risultare, in pratica, di misura di gran lunga inferiore rispetto agli standard quantitativi individuati dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali.
Per contro sembra che, a giudizio del Comitato, sia lo stesso concetto di “forbice edittale” a porsi in tendenziale contrasto con i criteri di tutela minima previsti dall’art. 24 della Carta, atteso che esso, imponendo un criterio di liquidazione intrinsecamente forfetizzato, determina un’inevitabile rischio di divaricazione tra danno effettivo e liquidazione concreta. Vi è anche da dire che tale approccio interpretativo risulta sostanzialmente coerente con lo standard di tutela sancito dall’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982, il quale espressamente concepisce l’annullamento del licenziamento con reintegrazione nel posto di lavoro quale rimedio principale di tutela del lavoratore, mentre i rimedi di “adeguato indennizzo o ogni altra appropriata forma di riparazione” sono legittimati ad operare in via solamente subordinata, quando l’organo giurisdizionale investito della controversia, sulla base della legge nazionale applicabile, non disponga del potere di annullamento/reintegrazione.
In conclusione, la giurisprudenza del Comitato riconosce al principio di integralità – almeno tendenziale – della tutela risarcitoria una valenza assiologica assolutamente prevalente, priva di riscontro nella giurisprudenza costituzionale. Sotto questo profilo, merita attenzione anche il potenziale impatto applicativo, sfuggito allo stesso Comitato (CGIL c. Italia. § 90), che tale approccio ermeneutico è suscettibile di sortire sull’art. 3 comma 2 del Job Act, secondo cui nei casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e giusta causa in cui sia direttamente provata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione deve essere forfetizzato entro il limite di dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, qualunque sia la durata effettiva del lasso temporale interinale.
5. Esiste un spazio giuridico per riconoscere una possibile efficacia conformativa sul diritto interno alle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali?
A fronte di tali significative eterogeneità sostanziali, è necessario interrogarsi se la presa di posizione con cui la Corte Costituzionale ha escluso che le decisioni interpretative del Comitato Europeo dei Diritti Sociali possano rivestire efficacia vincolante nell’ordinamento interno sia l’unica ammissibile, o se invece esista uno spazio giuridico per riconoscere al frutto di tale attività interpretativa un possibile effetto conformativo, idoneo quanto meno ad orientare la discrezionalità valutativa del giudice nazionale quando chiamato a bilanciare i criteri di quantificazione dell’indennità da licenziamento illegittimo che la stessa Corte Costituzionale, senza stabilire alcun ordine di prevalenza o priorità, ha enumerato.
A questo proposito, assume crescente evidenza l’influenza conformativa esercitata sugli ordinamenti nazionali dalle fonti di soft law (oltre che dall’analisi di diritto comparato), in particolare per mezzo del ruolo precipuo che ad esse viene riconosciuto dalla giurisprudenza delle corti europee. In particolare nella giurisprudenza della Corte EDU il soft law gioca un ruolo cruciale quanto meno per due rilevantissimi aspetti .
Il primo profilo attiene al c.d. metodo “autonomo” d’interpretazione , il quale impone che le clausole della Convenzione siano interpretate nel loro autonomo significato convenzionale (“within the meaning of the Convention”, “au sens de la Convention”), il quale non necessariamente corrisponde a quello attribuito alle stesse nozioni legali negli Stati contraenti. Così la Corte, ai fini della ricostruzione della nozione convenzionale di “indipendenza del potere giudiziario” , come della nozione di “accusa penale” ai sensi dall’art. 6 CEDU, non solo ha condotto un’approfondita ricognizione comparativa del significato assunto da tali nozioni nei diversi Stati membri del Consiglio d’Europa, ma ha anche preso in considerazione gli elementi interpretativi offerti da una vastissima gamma di strumenti di diritto internazionale, cogens e soft, quali ad esempio, solo a citarne alcuni, le risoluzioni del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, i reports degli Special Rapporteurs delle Nazioni Unite, i rapporti e le opinioni della Venice Commission, le raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, le decisioni di organi giurisdizionali non facenti parte degli ordinamenti sovranazionali europei (ad esempio la Corte Interamericana dei Diritti Umani). Le analisi di diritto comparato ed internazionale, ma anche di diritto giurisprudenziale sui precedenti della stessa Corte EDU, svolgono spesso un ruolo sinergico ai fini dell’istruzione del caso sub iudice. L’interrelazione dei tre profili tematici è ben percepibile nella motivazione della sentenza di Grande Camera Paradiso e Campanelli c. Italia del 24 gennaio 2017, il cui fulcro decisorio fondamentale è costituito dall’individuazione della linea di demarcazione intercorrente tra i concetti di “vita privata” e “vita familiare”, entrambi contemplati dall’art. 8 della Convenzione. La Corte ha ritenuto di ricostruirne il significato facendo tesoro sia del proprio bagaglio giurisprudenziale in tema di vincoli familiari de facto, sia dell’esame comparatistico dei differenti regimi legali, più o meno permissivi, adottati dagli Stati europei in materia di gestazione per conto terzi . Ma si osservi anche l’importanza strategica rivestita dall’analisi delle fonti del diritto internazionale sviluppata nell’opinione concorrente dei giudici De Gaetano, Pinto De Albuquerque, Wojtyczek e Dedov la quale, muovendo dall’esame di alcuni principi di diritto contenuti in particolare nella Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 sulla protezione dei minori e nel Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, giunge a conclusioni ancor più rigorose, per quanto adesive, rispetto a quelle cui è pervenuta la Grande Camera .
Il secondo aspetto attiene all’influenza conformativa abitualmente esercitata dagli strumenti di soft law, oltre che dal metodo comparatistico, nella determinazione del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati membri nel discostarsi dal trend europeo nella regolamentazione delle situazioni ricadenti nell’ambito applicativo della Convenzione , a seconda che si riconosca o meno l’esistenza di un comune consensus in materia .
Nel quadro di tale approccio ricostruttivo devono essere valorizzati i richiami contenuti nella giurisprudenza della Corte EDU alla Carta Sociale Europea e soprattutto, per quanto interessa ai fini della presente analisi, alle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali . Del resto, tra Corte di Strasburgo e Comitato Europeo dei Diritti Sociali esiste una particolare vicinanza istituzionale, atteso che entrambi gli organi sono incardinati in seno all’ordinamento del Consiglio d’Europa .
Non appare quindi coerente con tali presupposti sistematici l’asserzione che le decisioni del Comitato siano spogliate di qualsivoglia diretto effetto conformativo sull’ordinamento interno, quando esse invece concorrono ad esercitare un’influenza conformativa determinante sul contenuto della giurisprudenza di Strasburgo, la cui vincolatività interpretativa sul diritto nazionale è ovviamente pacifica. Da ciò non si vuol dedurre la pretesa che le decisioni del Comitato debbano essere assistite dalla forza vincolante propria del ius cogens, bensì riconoscerne un peso orientativo soft sull’interpretazione del diritto interno.
Condizione necessaria dell’operatività di tale effetto conformativo, per quanto soft, è che il diritto in gioco sia “coperto” dalla Convenzione EDU o, altrimenti detto, che quest’ultima sia applicabile ratione materiae alla fattispecie. Come già chiarito supra, la Convenzione EDU non riconosce e garantisce i diritti sociali e del lavoro, tanto che il termine “lavoratore” nemmeno è presente all’interno del testo convenzionale. La tutela della persona sul lavoro si realizza invece per mezzo di tutele indirette, di natura collaterale ovvero occasionale. Esempio di tutela collaterale è quella stabilita dall’art. 4 CEDU, il quale interdice la schiavitù e il lavoro forzato. “Collaterale” vuol significare che essa non è una tutela specifica del lavoratore nel rapporto di lavoro, bensì protegge l’individuo in quanto tale da ciò che “lavoro” non è . Forme di tutela occasionale sono invece assicurate ad esempio dagli artt. 2 CEDU (diritto alla vita) , 8 CEDU (diritto alla vita privata) , 10 CEDU (libertà di pensiero, di coscienza e di religione) e 14 CEDU (divieto di discriminazione). Si tratta di diritti la cui protezione è garantita trasversalmente in ogni situazione della vita, ivi compreso il lavoro, il quale può divenire in questo senso luogo “occasionale” di tutela .
Nell’ambito di tali coordinate concettuali la Corte EDU ha riconosciuto che anche il licenziamento può costituire atto di interferenza nell’esercizio del diritto alla vita privata. Pertanto, nonostante il diritto al posto di lavoro non abbia di per sé una diretta copertura convenzionale, le modalità con cui il lavoratore ne sia spogliato e la struttura del regime rimediale stabilito dal diritto interno possono assumere comunque rilevanza, nel loro insieme, quali atti di interferenza nel godimento di diritti protetti della convenzione, in primis il diritto alla vita privata.
Se vale quanto detto, non esistono insuperabili ragioni di principio per escludere che i parametri assiologici posti a fondamento delle decisioni Finnish Society e CGIL possano e debbano esercitare un proprio effetto conformativo, per quanto soft, anche ai fini della determinazione del quantum dell’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo. Ciò in pratica significa che, ogniqualvolta il giudice sia chiamato ad effettuare un bilanciamento dei parametri indicati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 194/2018, un maggior peso ponderale dovrà essere attribuito ai criteri di quantificazione idonei a valorizzare l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto (ad esempio la durata del rapporto lavorativo, la possibilità effettiva di reimpiego), piuttosto che i criteri espressivi dell’interesse del datore di lavoro alla conservazione del patrimonio e dell’organizzazione aziendale (ad esempio le modeste dimensioni dell’impresa). In questo senso potrebbe forse essere inteso l’inciso contenuto nella sentenza n. 194/2018 ove la Corte riconosce alle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali un’autorevolezza peculiare di cui tener conto (§ 14).
Vi è anche da dire che la stessa Corte Costituzionale, nell’analizzare la struttura funzionale dell’indennità forfettizzata stabilita dal Jobs Act, ne ha valorizzato la funzione dissuasiva, in quanto orientata a distogliere il datore di lavoro dall’intento di licenziare senza valida giustificazione, così da controbilanciare la “primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato” (§ 12.2). Alla luce di questo conclusivo angolo prospettico, è possibile intravvedere un ulteriore punto di convergenza valoriale, quantomeno tendenziale, tra l’approccio ricostruttivo fatto proprio dalla Corte costituzionale e l’opzione interpretativa cui è approdato il Comitato Europeo dei Diritti Sociali nei casi Finnish Society e CGIL.