Testo integrale con note e bibliografia

1. Considerazioni introduttive
La sentenza in rassegna, resa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, prospetta una pluralità di questioni, che attengono al rapporto di lavoro ed al sistema previdenziale da un lato, ed all’indipendenza dei giudici da un altro. Essa si inserisce in un più ampio contenzioso, originato dalla riforma del sistema giudiziario posto in essere dalla Repubblica di Polonia nel 2017, che ha suscitato molte critiche nella comunità internazionale e sta impegnando notevolmente le istituzioni europee .
I profili lavoristici, che qui specificamente interessano, si collegano alle disposizioni della riforma che hanno ridotto l’età di collocamento a riposo dei giudici dei tribunali ordinari, dei giudici della Corte suprema e dei pubblici ministeri, fissandola al raggiungimento dei 60 anni per le donne e dei 65 anni per gli uomini . La riduzione dell’età pensionabile ha costituito oggetto di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 258 TFUE, per violazione dell’articolo 157 TFUE e degli articoli 5, lettera a), e 9, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.
La pronuncia in esame, che accoglie le richieste della Commissione, ripercorre il percorso giurisprudenziale che ha condotto all’elaborazione delle nozioni di “retribuzione” e di “trattamento previdenziale” secondo il diritto europeo, e riafferma il principio di parità uomo-donna nel rapporto di lavoro ed il conseguente divieto di discriminazione in ragione del sesso. Per l’effetto, essa fornisce l’occasione per riesaminare queste problematiche, anche alla luce di altre sentenze recentemente emesse dalla Corte di Giustizia UE nella materia. Dall’indagine si potranno desumere opportuni spunti di riflessione, che consentono di focalizzare alcuni temi di attualità, inerenti ai trattamenti pensionistici nell’ordinamento interno.
2. La nozione di “retribuzione” secondo il diritto europeo
Al fine di verificare se la riforma della disciplina del rapporto di servizio dei magistrati polacchi introdotta nell’anno 2017 realizza un regime discriminatorio in materia di occupazione ed impiego in ragione del sesso, è necessario individuare l’esatta nozione di “retribuzione” offerta dal diritto europeo. Da tale definizione si desume infatti la tipologia dei diritti che sorgono a favore del lavoratore dipendente al momento della cessazione del rapporto di impiego e deriva, di riflesso, l’applicabilità o meno dei principi generali che riguardano il trattamento retributivo, quale fondamentale obbligazione inerente al rapporto di lavoro.
In questa prospettiva, occorre evidenziare che l’articolo 157, secondo paragrafo, del TFUE (che corrisponde all’articolo 119, secondo paragrafo, del Trattato CEE), dispone che: «Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo». La norma assume dunque una portata assai ampia, perché comprende nel concetto di retribuzione qualunque utilità che sia conferita in qualsiasi modo al lavoratore, in base a disposizioni di legge o di contratto, in corrispettivo dell’attività lavorativa da lui svolta. Ciò trova costante conferma nella giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, secondo la quale «la nozione di “retribuzione”, ai sensi dell’articolo 157, paragrafo 2, TFUE, dev’essere interpretata in modo estensivo. Essa comprende, in particolare, tutti i vantaggi, in contanti o in natura, attuali o futuri, purché siano pagati, sia pure indirettamente, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo, in forza di un contratto di lavoro, di disposizione di legge oppure a titolo volontario […] (sentenze del 6 dicembre 2012, Dittrich e a., C-124/11; C-125/11 e C-143/11, EU:C:2012:771, punto 35, nonché del 19 settembre 2018, Bedi, C-312/17, EU:C:2018:734, punto 33) .
L’ampiezza della definizione consente di ricomprendere nella nozione di retribuzione anche le prestazioni che maturano al termine dell’attività lavorativa, ma che trovano la loro causa giustificativa nel lavoro prestato. La giurisprudenza europea precisa infatti che «la circostanza che talune prestazioni siano corrisposte dopo la cessazione del rapporto di lavoro non esclude che esse possano avere carattere di retribuzione», perché la norma in esame comprende in tale nozione «tutti i vantaggi pagati direttamente o indirettamente […] al lavoratore in ragione dell'impiego di quest’ultimo» .
Come corollario, devono essere ricondotte nella categoria della “retribuzione”, tra l’altro, le indennità concesse dal datore di lavoro al lavoratore in occasione del suo licenziamento, alle quali il lavoratore ha diritto in ragione del suo impiego, ma che gli vengono versate al momento della cessazione del rapporto, al fine di rendere più agevole il suo adattamento alle nuove situazioni che ne conseguono . Alla stregua dei medesimi principi, occorre stabilire se ed a quali condizioni rientrano nella nozione di retribuzione i trattamenti previdenziali liquidati al momento della cessazione del rapporto di lavoro, in guisa che risulti ad essi applicabile la disciplina generale dettata per l’intera categoria delle obbligazioni retributive (e, segnatamente, il divieto di discriminazione in ragione del sesso disposto dall’art. 157, paragrafo 1, TFUE, e dalla direttiva 2006/54 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, che costituisce oggetto della procedura di infrazione definita con la sentenza in esame).
3. La distinzione tra regimi di sicurezza sociale pubblica e regimi pensionistici professionali
Come emerge dalla sentenza che si esamina, al fine di stabilire se un trattamento previdenziale rientra nella lata categoria delle prestazioni a carattere retributivo, occorre distinguere i regimi di sicurezza sociale pubblica dai regimi pensionistici professionali. Questa differenza è chiaramente evidenziata dal diritto europeo. Afferma l’Avvocato Generale Jacobs al punto 42 delle conclusioni presentate nella causa C-7/93, Beune, che «[la] giurisprudenza della Corte (…) in merito al nesso tra le prestazioni previdenziali e le disposizioni dell’articolo 119 [CEE] (…) si propone di operare una chiara distinzione tra i regimi generali di previdenza sociale e i regimi che operano nel contesto di un rapporto di lavoro» .
La nozione di “regime generale di previdenza sociale” si desume dalla direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, che – nel dettare disposizioni per la graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne nella materia, così come previsto dall’articolo 1, paragrafo 2 , della direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976 - include in questa categoria «i regimi legali che assicurano una protezione contro i rischi di malattia, invalidità, vecchiaia, infortunio sul lavoro e malattia professionale, disoccupazione» , e li distingue dai “regimi professionali”, per i quali ha rimesso ad una normativa autonoma l’attuazione del medesimo principio di parità di trattamento . Reciprocamente, la direttiva 2006/54 definisce quali “regimi professionali di sicurezza sociale” i sistemi di protezione contro i medesimi rischi (malattia, invalidità, vecchiaia, infortunio sul lavoro, malattia professionale, disoccupazione) , che sono estranei alla disciplina prevista dalla direttiva 79/7/CEE e che hanno lo scopo «di fornire ai lavoratori, subordinati o autonomi, raggruppati nell'ambito di un'impresa o di un gruppo di imprese, di un ramo economico o di un settore professionale o interprofessionale, prestazioni destinate a integrare le prestazioni fornite dai regimi legali di sicurezza sociale o di sostituirsi ad esse, indipendentemente dal fatto che l'affiliazione a questi regimi sia obbligatoria o facoltativa» .
La diversità di natura dei due regimi previdenziali è chiaramente espressa anche dalla giurisprudenza europea, la quale evidenzia che lo spartiacque tra le due categorie (e le due discipline) è rappresentato dalla connessione o meno con il rapporto di lavoro. I trattamenti previdenziali di sicurezza sociale sono concessi in base a «considerazioni di ordine politico, sociale, etico o di bilancio, come nel caso di regimi pensionistici che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 79/7» ; al fine di qualificare un regime professionale pubblico, invece, «l’elemento davvero determinante» è il rapporto di lavoro .
Questo principio si è mantenuto assai stabile per oltre un trentennio . In coerenza con tale orientamento, la Corte di Giustizia EU ha recentemente distinto «le pensioni che dipendono dal rapporto di lavoro che lega il lavoratore al datore di lavoro» da «quelle derivanti da un sistema legale al cui finanziamento contribuiscono i lavoratori, i datori di lavoro e, eventualmente i pubblici poteri in una misura che dipende meno da un rapporto di lavoro siffatto che da considerazioni di natura sociale». In particolare, «non possono essere inclusi in tale nozione i regimi o le prestazioni previdenziali, quali le pensioni di vecchiaia, direttamente disciplinati dalla legge al di fuori di qualsiasi concretamente nell’ambito dell’impresa o della categoria professionale interessata, e obbligatori per categorie generali di lavoratori (sentenza 22 novembre 2012, Elbal Moreno, C-385/11, EU:C:2012:746, punto 20, e giurisprudenza ivi citata)» .
Dalla analisi che precede si deduce in sostanza che la differenza tra i due regimi non è data dalle finalità di previdenza o dalla natura dei rischi che costituiscono oggetto di protezione, ma dalla tipologia dei beneficiari e della causa giustificativa del rapporto. Le gestioni di previdenza sociale erogano prestazioni per la generalità delle persone, in base alla legge e secondo criteri di solidarietà della protezione contro i rischi e del sostegno delle categorie più deboli; i regimi professionali forniscono prestazioni integrative o sostitutive di quelle fornite dai regimi legali di sicurezza pubblica a favore dei lavoratori che appartengano ad un’impresa, ad un ramo economico o ad un settore professionale, quale elemento integrante del proprio rapporto di lavoro.
La principale conseguenza di questa distinzione è rappresenta dalla diversa natura delle prestazioni erogate: nel primo caso, si configura una mera obbligazione ex lege; nel secondo, la prestazione assume i caratteri di un corrispettivo per l’attività svolta, differito nel tempo successivo alla sua cessazione. Pertanto, i rapporti di previdenza professionale, a differenza dai rapporti di sicurezza sociale, si collocano nell’ambito della disciplina dell’occupazione e dell’impiego e sono assoggettate alle regole generali che governano il rapporto di lavoro. Ne consegue, in particolare, che le prestazioni erogate hanno natura retributiva, in guisa che ad essi si estendono tutti i principi generali elaborati in relazione a tale genere di obbligazioni. Ne danno conferma i considerando 13 e 14 della direttiva 2006/54, secondo cui «il concetto di retribuzione ai sensi dell'articolo 141 del trattato non [include] le prestazioni sociali», mentre «i regimi pensionistici dei dipendenti pubblici rientrano nel campo d’applicazione del principio della parità retributiva se le relative prestazioni sono versate al beneficiario a motivo del suo rapporto di lavoro con il datore di lavoro pubblico».
4. Gli elementi distintivi dei regimi pensionistici professionali
L’elaborazione giurisprudenziale ha definito rigorosi criteri per discriminare le forme di previdenza “professionale”, che sono assoggettate alla disciplina in tema di occupazione ed impiego ed erogano prestazioni di natura retributiva, dalle altre forme di previdenza sociale. Il considerando 14 della direttiva 2006/54, già in precedenza citato, evidenzia che: «Secondo le sentenze del 28 settembre 1994, Beune (C-7/93, EU:C:1994:350), e del 12 settembre 2002, Niemi (C-351/00, EU:C:2002:480), questa condizione è soddisfatta se il regime pensionistico interessa una categoria particolare di lavoratori e se le prestazioni sono calcolate con riferimento all’ultimo stipendio del dipendente pubblico».
La sentenza che si esamina costituisce espressione di questo consolidato orientamento. Essa specifica che si configura un regime pensionistico professionale, avente natura retributiva ed assoggettato alle disposizioni della direttiva 2006/54, se ricorrono contestualmente le seguenti condizioni: (i) il regime interessa un regime particolare di lavoratori; (ii) le somme versate dopo il pensionamento sono direttamente correlate agli anni di servizio; (iii) le prestazioni sono calcolate in base alla retribuzione percepita per le ultime funzioni esercitate.
In base al primo requisito, si distinguono i trattamenti previsti da norme pubblicistiche per la generalità dei soggetti esposti a particolari rischi e meritevoli di corrispondenti prestazioni previdenziali, da quelli che sono riservati a specifiche categorie di lavoratori, in ragione dell’attività di servizio da essi espletata. La circostanza che il trattamento previdenziale sia riservato ad una specifica categoria di lavoratori, selezionati in base alla propria professione, manifesta la connessione con il rapporto di lavoro svolto ed imprime natura retributiva alle prestazioni erogate, secondo un criterio di corrispettività con l’attività lavorativa.
Tra le categorie di lavoratori, che maturano un trattamento previdenziale in virtù dell’attività svolta, sono inclusi i pubblici dipendenti. La sentenza in esame evidenzia infatti, al punto 61, che «emerge da giurisprudenza costante che i dipendenti pubblici che beneficiano di un regime pensionistico si distinguono dai lavoratori di un’impresa o di un gruppo di imprese, di un comparto economico o di un settore professionale o interprofessionale soltanto in ragione delle caratteristiche peculiari che disciplinano il loro rapporto di lavoro con lo Stato, con altri enti o datori di lavoro pubblici (sentenze del 29 novembre 2001, Griesmar, C-366/99 P, EU:C:2001:648, punto 31 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 26 marzo 2009, Commissione/Grecia, C-559/07, non pubblicata, EU:C:2009:198, punto 52 e giurisprudenza ivi citata)». Da ciò consegue che il trattamento previdenziale dei pubblici dipendenti deve essere considerato, nella ricorrenza degli altri requisiti, di natura professionale, e che le prestazioni ad essi erogate assumono natura di retribuzione differita.
Il secondo requisito dei trattamenti previdenziali professionali è rappresentato dalla correlazione delle prestazioni liquidate con gli anni di servizio. Anche questo elemento pone in evidenza la correlazione tra il trattamento previdenziale conferito e l’attività di lavoro svolta: i diritti acquisiti al momento della cessazione del rapporto di servizio costituiscono la risultante di una fattispecie a formazione progressiva che si sviluppa per l’intero arco di svolgimento dell’attività lavorativa e rappresentano una forma di remunerazione dell’attività prestata.
La correlazione di cui trattasi non deve essere intesa peraltro in modo rigoristico. Non è necessario un preciso rapporto matematico tra anni di servizio ed ammontare delle prestazioni, ma è sufficiente che la misura dei trattamenti sia connesso alla durata del rapporto di lavoro. In tal modo, è ravvisabile un’adeguata correlazione quando la pensione o l’indennità di anzianità siano liquidati in base all’ultima retribuzione-base, che sia a sua volta calcolata in base alla durata del servizio; parimenti, non osta alla configurabilità di tale connessione il riconoscimento di alcune annualità figurative, giustificate dalla onerosità del lavoro svolto, o l’imposizione di un tetto alle annualità riconoscibili ai fini del calcolo dei benefici. Invero, «occorre soltanto che le prestazioni pensionistiche professionali si basino su un certo numero rilevante di anni di servizio, prima che tale regime sia escluso dall’ambito di applicazione della direttiva 79/7. Infatti, nella sentenza Commissione/Grecia la Corte ha dichiarato che il fatto che le prestazioni pensionistiche oggetto di tale causa a volte varino con riferimento alla difficoltà del lavoro svolto o alla difficoltà delle circostanze in cui esso viene svolto non è sufficiente ad indebolire l’applicabilità della norma in base a cui le prestazioni erogate dipendono direttamente dal periodo di servizio prestato» .
Il terzo elemento rilevante è rappresentato dalla circostanza che il trattamento previdenziale sia conferito in base all’ultima retribuzione percepita. Anche questo fattore rivela l’intimo collegamento tra l’attività lavorativa svolta ed il trattamento previdenziale e manifesta l’intento di consentire al lavoratore di godere – sia pure in una più ridotta misura, determinata dal rapporto di conversione tra lo stipendio e la pensione – di un tenore di vita e di un prestigio sociale comparabili con quelli goduti nel periodo di servizio.
Occorre sottolineare che, secondo la giurisprudenza europea, per configurare un regime previdenziale di natura professionale è necessaria la contestuale presenza dei tre requisiti sopra esaminati. Afferma al riguardo l’Avvocato Generale Eugeni Tanchev nelle conclusioni relative alla causa decisa con la sentenza in esame, che «uno dei tre fattori per escludere un regime professionistico professionale dall’ambito di applicazione 79/7 è immutabile, nel senso che essi meritano un’interpretazione secondo cui anche un modesto scostamento da uno di essi rende necessario concludere che il regime in parola rientra nell’ambito di applicazione materiale della direttiva 79/7» .
5. La parità di trattamento ed il divieto di trattamenti discriminatori nei regimi previdenziali professionali e di sicurezza sociale.
La diversità della natura dei regimi previdenziali professionali rispetto a quelli di sicurezza sociale comporta l’applicazione di diversi principi e diverse discipline. In particolare, ad essi si applicano distinte direttive per assicurare la parità di trattamento tra uomini e donne.
In verità, la parità fra uomini e donne ed il divieto di discriminazione fondata sul sesso valgono per ogni genere di rapporto, perché costituiscono principi fondamentali del diritto dell’Unione, ai sensi dell’articolo 2 e dell’articolo 3, paragrafo 2, del trattato e della giurisprudenza della Corte di giustizia. Le predette disposizioni sanciscono la parità fra uomini e donne quale «compito» e «obiettivo» della Comunità e impongono alla stessa l’obbligo concreto della sua promozione in tutte le sue attività. Questo principio trova conferma negli articoli 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che vietano anch’essi qualsiasi discriminazione fondata sul sesso e sanciscono il diritto alla parità di trattamento fra uomini e donne in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione.
Tuttavia, questo principio fondamentale è declinato e graduato diversamente nei diversi ambiti ed ha avuto attuazione attraverso diversi interventi e testi normativi. Esso trova una base specifica nell’art. 119 del Trattato CEE (che corrisponde all’attuale art. 157 del TFUE), con riguardo ai trattamenti retribuitivi, ed è stato specificato, in relazione al rapporto di lavoro, mediante la direttiva 75/117/CEE del Consiglio, del 10 febbraio 1975 (relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all'applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile), la direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976 (che vi ha dato attuazione con riguardo all’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro), la direttiva 86/378/CEE, del Consiglio, del 24 luglio 1986 (riguardante il settore dei regimi professionali di sicurezza sociale) e la direttiva 97/80/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997 (che disciplina l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso). Tutte queste direttive sono poi confluite nella direttiva 2006/54, attualmente vigente, che contiene la disciplina generale sulla parità uomo-donna nei settori dell’occupazione e dell’impiego, in cui sono compresi – per le ragioni già esposte e per l’espresso disposto dell’articolo 1, paragrafo 2, lettera c) – “i regimi professionali di sicurezza sociale”.
Per quanto riguarda invece le prestazioni di previdenza sociale – che, come si è già evidenziato, sono escluse dalla nozione di “retribuzione” ai sensi dell’art. 157 TFUE – il principio di parità tra uomini e donne ha trovato attuazione mediante la direttiva 79/7 CEE, pure richiamata innanzi. Ciò non è privo di conseguenze sul piano giuridico, così come chiaramente rivela la sentenza in esame, che si incentra sulla decisiva questione dell’applicabilità dell’una o dell’altra direttiva.
Invero, l’art. 9, paragrafo 1, lett. f), della direttiva 2006/54/CE espressamente dispone che costituiscono forme di discriminazione, contrarie al principio di parità di trattamento, le disposizioni che stabiliscono «limiti di età differenti per il collocamento a riposo», a cui si collega la liquidazione dei trattamenti pensionistici e di fine rapporto. Viceversa, l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 79/7/CEE, invocato dalla Repubblica di Polonia nella controversia in esame, non pregiudica la facoltà di escludere dal suo campo di applicazione, tra altre ipotesi, «la fissazione dei limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni». Dalla condivisibile determinazione di ravvisare nel caso di specie un regime previdenziale di natura professionale, per la contestuale configurabilità di tutti gli elementi analizzati nel precedente paragrafo, la Corte di Giustizia ha tratto la logica conclusione che risulta applicabile la direttiva 2006/54/CE e che la determinazione di diversi limiti di età per il collocamento a riposo per gli uomini e le donne costituisce violazione del principio di parità di trattamento da essa affermata.
Giova infine avvertire che, secondo le disposizioni dell’art. 157, paragrafo 4, TFUE, il principio di parità di trattamento nella vita lavorativa deve essere attuato in modo «effettivo» e «completo». Ciò comporta che, mentre in condizioni di uguaglianza si devono assicurare uguali trattamenti, in presenza di situazioni differenziate occorre adottare misure compensative che rimuovano le condizioni di disuguaglianza. Pertanto, «il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali». Di ciò tiene adeguato conto la direttiva 2006/54/CE, che con il 21^ ed il 22^ considerando giustifica il mantenimento o l’adozione di simili misure asimmetriche ed evidenzia che, secondo la dichiarazione n. 28 al trattato di Amsterdam, gli Stati membri dovrebbero mirare a migliorare la situazione delle donne nella vita lavorativa.
Ciò peraltro non implica che, come pure sostenuto dalla Repubblica di Polonia nella causa in esame, possa ritenersi giustificata la fissazione di diverse età di collocamento a riposo di una categoria di pubblici dipendenti quali i magistrati o i rappresentanti del Pubblico Ministero in ragione del sesso. A tal proposito, la Corte di Giustizia chiarisce che i provvedimenti adottati dagli Stati membri ai sensi dell’art. 157, paragrafo 4, TFUE «devono contribuire ad aiutare la donna a vivere la propria vita lavorativa su un piano di parità rispetto all’uomo» , e sostiene che il collocamento a riposo anticipato non può essere considerato come una misura di favore, che compensi eventuali difficoltà incontrate dalle donne nel corso della loro carriera professionale.
6. Previdenza professionale e previdenza sociale nell’ordinamento interno.
La chiara distinzione elaborata dal diritto europeo tra i regimi previdenziali professionali e di sicurezza sociale non sembra assumere i medesimi contorni netti nell’ordinamento interno. Nella legislazione, nella giurisprudenza e nella prassi nazionali le linee di demarcazione appaiono sfumate e le due categorie tendono a sovrapporsi ed a confondersi.
In realtà, anche nel nostro ordinamento è astrattamente possibile distinguere i trattamenti previdenziali dell’uno e dell’altro tipo: da un lato si pongono le pensioni a favore dei lavoratori, alimentate dai contributi versati nel corso dell’attività lavorativa e gestite per oltre il 96% dall’Istituto Nazionale Previdenza Sociale e per la restante parte dalle Casse privatizzate per gli esercenti professioni autonome ; su un altro versante si pongono invece gli interventi assistenziali, che sono diretti ad assicurare sostegno ai soggetti più bisognosi, secondo criteri di mera assistenza. Tra questi ultimi si distinguono le prestazioni di natura interamente assistenziale (invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra) e prestazioni tipicamente assistenziali (integrazioni al trattamento minimo, maggiorazioni sociali, importo aggiuntivo e quattordicesima mensilità), che sono integrative di una pensione previdenziale .
L’intervento pubblico per il sostegno degli interventi di natura assistenziale avviene attraverso un’apposita “Gestione Interventi Assistenziali” (di seguito GIAS) istituita presso l’INPS ai sensi dell’art. 37, comma 3, lett. d), della l. 88/1989. Tale gestione ha registrato nel tempo una forte evoluzione sul piano normativo e applicativo, estendendo il suo raggio di azione a settori sempre più ampi della vita sociale . Se si esaminasse attentamente il bilancio della GIAS, sarebbe possibile distinguere efficacemente la spesa e le prestazioni di carattere tipicamente “previdenziale” (e cioè, secondo la qualificazione europea, i “regimi previdenziali professionali”) dai sistemi di natura “assistenziale” (corrispondenti, nel linguaggio dell’Europa, ai “regimi previdenziali di sicurezza sociale”).
Tuttavia, sia nella terminologia comune, sia nelle analisi economiche e statistiche, sia nell’elaborazione normativa e giurisprudenziale, i due fenomeni tendono a convergere in un unico coacervo, in cui diventa difficile discernere l’effettiva natura delle prestazioni ed i principi generali che le regolano. Il concetto di “trattamento pensionistico” viene sovente riferito promiscuamente sia alle pensioni liquidate in base al rapporto al rapporto di lavoro prestato ed ai contributi versati, sia alle erogazioni assistenziali concesse dallo Stato; il livello della spesa pubblica viene calcolato sommando le prestazioni a beneficio degli ex-lavoratori pensionati e gli interventi pubblici a sostegno delle politiche di assistenza; i giudizi e le valutazioni relative alla sostenibilità della spesa previdenziale sono sovente espressi in considerazione del complesso delle attività previdenziali ed assistenziali, e quelli inerenti ai livelli delle prestazioni si fondano normalmente sulla comparazione di elementi eterogenei, quali le pensioni “professionali” e quelle sociali a beneficio delle persone bisognose.
Questa commistione sembra insita nei ripetuti interventi legislativi, che possono ritenersi ormai consuetudinari, che prevedono la riduzione dell’indice di rivalutazione e/o l’imposizione di “tagli” o di “contributi di solidarietà” a carico dei beneficiari di pensioni “professionali” di importo più elevato , nell’intento di contenere la spesa pensionistica complessiva e di perequare i trattamenti pensionistici di ogni genere. La tendenza a coprire i maggiori costi della spesa assistenziale con corrispondenti risparmi di quella previdenziale, piuttosto che con il ricorso alla fiscalità generale, ed il progressivo livellamento dei trattamenti pensionistici, secondo criteri di adeguatezza alle ordinarie esigenze di vita, manifestano la predominanza di una concezione “assistenzialistica” che finisce per accomunare i regimi previdenziali di ogni tipo. Si smarrisce in tal modo il nesso tra i trattamenti pensionistici “professionali” ed il pregresso rapporto di impiego e si svilisce la loro natura retributiva, che impone invece di assicurare una persistente proporzionalità tra il loro ammontare e la qualità e la quantità del lavoro svolto.
In verità, la Corte Costituzionale ha sempre tradizionalmente affermato, in accordo con la giurisprudenza europea, che le pensioni maturate nel corso del periodo di lavoro hanno natura di «retribuzione differita» (sentenze n. 208/14; n. 116 del 2013; n. 30 del 2004, n. 409 del 1995 e n. 96 del 1991), in guisa che debbano essere salvaguardate le esigenze «relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta in seno alla categoria di appartenenza per effetto dell'attività lavorativa svolta» (sentenza n. 173 del 1986), nell’intento di offrire «una particolare protezione per il lavoratore» (sentenza n. 26 del 1980); e tuttavia, nell’ottica di contemperare una pluralità di contrapposte esigenze di carattere finanziario, anch’esse di rango costituzionale, essa ha più volte attenuato la rilevanza di questo principio, sostenendo che non va inteso «in modo indefettibile» (sentenza n. 173 del 2016»; che rimane affidata «alla discrezionalità del legislatore la possibilità di apportare correttivi di dettaglio» (sentenza n. 208 del 2014; n. 441 del 1993); che spetta alla discrezionalità del legislatore il «ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti nell'attuazione graduale di quei principi, compresi quelli connessi alla concreta e attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per far fronte ai relativi impegni di spesa» (sentenza n. 119 del 1991).
La flessibilità e l’indeterminatezza di questi criteri hanno finito per avallare la sempre più accentuata tendenza ad erodere i trattamenti pensionistici “professionali” (ed, in particolare, di quelli di importo più elevato, che di norma competono a chi abbia rivestito ruoli e funzioni di maggiore responsabilità e prestigio nel corso dell’attività lavorativa) a fronte della crescente esigenza di finanziare la spesa sociale, secondo una logica di solidarietà “interna” indistintamente riferita all’intero circuito previdenziale. Le direttive e la giurisprudenza europea, che si sono innanzi richiamate, ostano tuttavia alla commistione tra regimi che hanno diversa natura e che appartengono a diverse sfere giuridiche: la disciplina dell’impiego e dell’occupazione da un lato, le attività di assistenza, che appartengono all’ambito delle politiche sociali, da un altro.
I due regimi hanno diversa natura e non possono essere confusi. Una efficace differenziazione consentirebbe il perseguimento di un duplice obiettivo: sotto un primo profilo, permetterebbe di verificare con più rigore gli equilibri del sistema previdenziale, finanziato con i contributi versati nel corso dell’attività lavorativa, e di assicurare trattamenti pensionistici congruenti con la qualità e la quantità del lavoro svolto a beneficio dei lavoratori; sotto altro profilo, favorirebbe una più attenta e ponderata valutazione della spesa e degli oneri degli interventi assistenziali, in rapporto alla spesa pubblica complessiva, e metterebbe in chiaro che i relativi costi devono essere posti a carico della fiscalità generale, anziché della sola categoria dei pensionati “professionali”, che abbiano cessato l’attività lavorativa e non abbiano più la capacità di procurarsi nuove fonti di reddito.

 

 

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