Testo integrale con note e bibliografia
Testo dell'0rdinanza n.182/2020 corte cost.
1. Premessa. Investita da una serie di ordinanze “gemelle” della sezione lavoro della Cassazione delle questioni di legittimità costituzionale di due previsioni legislative da anni al centro di un nutrito contenzioso con l’INPS – l’art. 1, comma 25, l. n. 190/2014, relativo all’assegno di natalità, e l’art. 74 d.lgs. n. 151/2001, concernente l’assegno di maternità di base –, la Corte costituzionale ha, a sua volta, deciso di rivolgersi con procedimento accelerato alla Corte di giustizia per sottoporle la seguente questione pregiudiziale: se l’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) debba essere interpretato nel senso che le suddette prestazioni assistenziali rientrino nel suo ambito di applicazione, in base all’art. 3, par. 1, lettere b) e j) del regolamento di sicurezza sociale n. 883/2004, come richiamato dall’art. 12, par. 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, e se, pertanto, il diritto dell’Unione debba essere inteso nel senso di non consentire una normativa nazionale, quale quella scrutinata, che non estende agli stranieri titolari del permesso unico le dette provvidenze, che viceversa sono concesse a quanti posseggano un permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo.
La questione pregiudiziale così sollevata con l’ordinanza n. 182/2020, che a sua volta viene a intrecciarsi con una procedura d’infrazione già avviata dalla Commissione europea contro l’Italia , è tecnicamente complessa, non fosse altro perché si inserisce in un filone tra i più cospicui e controversi della recente giurisprudenza costituzionale (e sovranazionale) in tema di condizioni di accesso alle prestazioni di assistenza sociale da parte di cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea. Prima dunque di svolgere qualche considerazione critica sui termini in cui la Corte costituzionale ha deciso di formulare il quesito pregiudiziale, pare opportuno dar conto, succintamente, oltre che della specifica questione ora sottoposta al duplice vaglio di costituzionalità e di legittimità euro-unitaria , dello stato dell’arte di questa giurisprudenza, per poi concludere con qualche valutazione prognostica sul possibile esito di questo scrutinio e sui paralleli sviluppi legislativi in fieri.
2. Le prestazioni controverse. Le due provvidenze oggetto dei dubbi qualificatori e del conseguente quesito pregiudiziale della Corte costituzionale costituiscono esempi emblematici della frammentazione e del categorialismo disordinato (unprincipled, si potrebbe meglio dire prendendo a prestito la parola inglese) tipico del nostro ordinamento assistenziale, specialmente in questo àmbito .
La prima delle provvidenze in esame (il renziano bonus bebè) è prestazione introdotta al fine esplicito di incentivare la natalità e di contribuire alle spese per il suo sostegno ed è stata (ad oggi) disciplinata da ben quattro diversi interventi normativi per distinte generazioni di nascite: l’art. 1, commi 125-129, l. n. 190/2014 (la fonte istitutiva originaria) riconosce l’assegno con durata triennale per le generazioni di nati o adottati dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2017; l’art. 1, comma 248, l. n. 205/2017 ne ha previsto il riconoscimento per i figli nati o adottati dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre di quello stesso anno, limitandone la durata al compimento del primo anno di età ovvero del primo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito di adozione; l’art. 23-quarter del d.l. n. 119/2018, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2018, n. 136, ne ha stabilito la corresponsione per il 2019, prevedendo un aumento del 20 per cento dell’importo in caso di figlio successivo al primo; l’art. 1, commi 340-341, l. n. 160/2019 ha prolungato detta disciplina al 2020.
Anche la misura dell’assegno, che dipende dal valore dell’ISEE, è significativamente variata negli anni. In particolare, e limitandoci agli ultimi due anni, se l’importo annuo dell’assegno per le generazioni di nati o adottati fino al 31 dicembre 2019 è stato pari a 960 euro annui nel caso in cui il valore dell’ISEE minorenni non fosse superiore a 25.000 euro annui, e a 1.920 euro nel caso in cui detto valore non superasse i 7.000 euro, per i nati (o adottati) nell’anno 2020 la legge attualmente (e provvisoriamente) in vigore ne ha così rimodulato gli importi: 1.920 euro, nel caso in cui il valore dell’ISEE non sia superiore a 7.000 euro annui; 1.440 euro, nel caso in cui tale valore sia superiore a 7.000 euro annui e inferiore a 40.000 euro; 960 euro (gli originari 80 euro mensili), nel caso in cui il suddetto valore sia superiore a 40.000 euro.
Senz’altro più lineare, o quantomeno più stabile, al cospetto di quella appena vista, risulta la disciplina della seconda provvidenza qui in esame. L’assegno di maternità di base – introdotto dall’art. 66 della l. n. 448/1998 e poi disciplinato dall’art. 74 del testo unico approvato con il d.lgs. n. 151/2001 – è provvidenza rivolta, per ogni figlio nato e per ogni minore in affidamento preadottivo o in adozione senza affidamento, alle donne che non beneficino di indennità di natura previdenziale e che appartengano a nuclei familiari in disagiate condizioni economiche, valutate alla stregua dell’indicatore della situazione economica di cui al d.lgs. n. 109/1998. Concesso dai Comuni, è erogato dall’INPS (art. 74, commi 3 e 8, d.lgs. n. 151/2001).
Sia l’art. 1, comma 25, l. n. 190/2014 che l’art. 74 d.lgs. n. 151/2001 subordinano l’accesso degli stranieri alle provvidenze ivi previste al requisito del possesso del permesso per lungo-soggiornanti. Ed è naturalmente su questo requisito – fortemente selettivo oltre che prima facie (direttamente) discriminatorio – che si appuntano i sospetti di illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 31 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 CDFUE, sollevati dalla Corte di cassazione sul presupposto (invero assai chiaro, ancorché non sempre ugualmente esplicitato nelle ordinanze di promovimento) che tanto l’assegno di natalità quanto quello di maternità di base debbano essere senz’altro qualificati come prestazioni familiari di sicurezza sociale ai sensi del regolamento n. 883/2004, come richiamato dall’art. 12 della direttiva 2011/98. È il dubbio sulla correttezza di tale qualificazione alla stregua del diritto euro-unitario, apparentemente incontroversa per la Cassazione, che spinge invece la Corte costituzionale – «in un quadro di costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia […], affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico» – a interrogare la Corte di giustizia dell’Unione europea, focalizzando peraltro il quesito sull’art. 34 CDFUE, la previsione più periferica e meno rilevante – come diremo meglio più avanti – nel ragionamento svolto dai giudici di legittimità.
Qui giova rammentare che quel rigoroso requisito, non contemplato originariamente dalla previsione generale di cui all’art. 41 del d.lgs. n. 286/1998 – che si limitava (e formalmente ancora si limita) a richiedere, oltre alla carta di soggiorno, il permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno –, è stato gradualmente generalizzato come condizione di accesso degli stranieri extracomunitari alle principali prestazioni di assistenza sociale a partire dall’entrata in vigore dell’art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 (legge finanziaria 2001), approvato proprio allo scopo di limitare la portata applicativa della citata disposizione del testo unico sull’immigrazione. Da quel momento, infatti, ai fini dell’applicazione dell’art. 41 del d.lgs. n. 286/1998, l’accesso all’assegno sociale e più in generale alle provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione in materia di servizi sociali è stato per l’appunto subordinato al possesso della (sola) carta di soggiorno, poi divenuta il permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo introdotto dal d.lgs. n. 3/2007 in attuazione della direttiva 2003/109/CE.
È da lì che nasce gran parte di quel vasto contenzioso, poi alimentato anche da altri interventi legislativi (statali e regionali) improntati alla medesima logica restrittiva e limitativa, che, nel corso degli anni, è sempre più spesso giunto davanti alla Corte costituzionale e, talvolta, dinanzi alle stesse Corti europee .
3. L’ondivago orientamento della giurisprudenza costituzionale. La Corte costituzionale è stata così chiamata sempre più spesso – con un significativo crescendo di casi negli ultimi anni – a giudicare della legittimità dei sempre più restrittivi requisiti di accesso degli stranieri non comunitari alla variegata gamma di prestazioni e provvidenze di natura assistenziale frammentariamente previste dal legislatore statale come da quelli regionali.
La Corte ha stentato a trovare un criterio ordinatore nella propria giurisprudenza, che anche di recente ha fatto registrare oscillazioni di orientamenti talvolta contradditori o per lo meno non riconducibili a una ratio coerentemente unitaria . In parte ciò è spiegabile in ragione della oggettiva complessità e frammentarietà del quadro normativo – nazionale e regionale – oggetto di scrutinio; ma per altro verso un tale incedere asistematico e ondivago è imputabile alla crescente salienza politica delle questioni di giustizia redistributiva sottese alle questioni di legittimità costituzionale portate all’attenzione della Corte. Ci offre plastica evidenza di questa difficoltà di coerenza sistematica in nome della Realpolitik (e dei vincoli di bilancio) la assai discussa sentenza n. 50/2019 sull’assegno sociale , nella quale la Corte costituzionale – con la mente forse già rivolta alle ben più ardue censure che potrebbero essere prospettate per il reddito di cittadinanza – ha dovuto piuttosto acrobaticamente smentire se stessa per far salvo il concorrente (e, a quanto pare, cumulativo) requisito del possesso del permesso per lungo-soggiornanti e della continuativa residenza decennale nel territorio italiano .
Ma, a parte qualche discutibile cedimento o arretramento, qual è senza dubbio quello appena evocato , la giurisprudenza della Corte costituzionale pare in prevalenza orientata a un’applicazione in chiave espansiva del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. , con il suo corollario paritario in favore degli stranieri bisognosi di assistenza . La Corte è invero ferma nel muovere dall’assunto che l’introduzione di requisiti di accesso differenziati a carico degli stranieri possa avvenire «solo in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o arbitraria, che sia cioè giustificata, anche in virtù del principio solidaristico, da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio» . Ed è anche ferma – ancorché più oscillante e perplessa nelle applicazioni concrete (come appunto dimostra il citato caso dell’assegno sociale) – nell’esigere che gli eventuali requisiti differenziali previsti per gli stranieri incontrino comunque il limite del «nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona umana» , che si rinviene tutte le volte in cui la prestazione sia diretta a soddisfare bisogni primari, che attengono appunto alla sfera non comprimile della tutela della dignità (sociale) della persona.
La Corte si è dimostrata invece meno lineare nei suoi percorsi argomentativi quando ha dovuto confrontarsi con i parametri offerti dal diritto dell’Unione, sui quali è stata fino ad oggi piuttosto refrattaria a instaurare un “dialogo” con la Corte di giustizia. Donde l’importanza dell’ordinanza che si commenta, non fosse altro che per l’apertura di un dialogo diretto con la Corte di giustizia in una sfera normativa così densamente incisa dal diritto dell’Unione. La Corte sembra in ciò finalmente mostrare piena consapevolezza che, senza un siffatto confronto leale e costruttivo, difficilmente potrebbe fornire risposte coerenti e appaganti sui tanti punti di frizione con il diritto dell’Unione sempre più spesso messi allo scoperto da un contezioso giudiziario persistente e ramificato.
4. Il dialogo (ricercato) con la Corte di giustizia. Se una siffatta apertura al dialogo è da giudicare con favore, più problematica risulta invece la valutazione dei termini in cui la Corte costituzionale ha ritenuto di dover formulare il proprio quesito pregiudiziale, ponendovi al centro, come già notato, la previsione dell’art. 34 CDFUE.
È anzitutto dubbia, infatti, nella specie, l’effettiva rilevanza di questa previsione della Carta di Nizza, per quanto invocata dalla stessa Corte di cassazione nelle proprie ordinanze (ma essenzialmente ad colorandum e comunque senza alcuna indicazione utile a chiarirne l’effettivo rilievo parametrico in casu). Probabilmente, nel richiamare l’art. 34 CDFUE, sia la Corte costituzionale che, prima, la Cassazione hanno inteso ispirarsi all’uso che della disposizione – senz’altro tra le più neglette della Carta di Nizza – la Corte di giustizia aveva fatto nella nota sentenza Kamberaj , in cui effettivamente il terzo paragrafo della previsione in parola era stato evocato per rafforzare sul piano argomentativo l’interpretazione dell’art. 11, par. 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE . Ma, nella specie, almeno a giudicare da come la Corte ha formulato il quesito pregiudiziale, sembrerebbe che a rilevare, nella sua ottica, sia piuttosto il par. 2 dell’art. 34 («Ogni persona che risieda e si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali»): l’unico nucleo precettivo potenzialmente suscettibile – secondo l’opinione prevalente – di diretta applicazione nella misura in cui riconosce un vero e proprio diritto senza limitarsi, come i paragrafi 1 e 3, ad enunciare un mero principio (secondo la nota e discussa distinzione formulata dall’art. 52 della stessa Carta). Tanto parrebbe doversi desumere anche dalla perentoria affermazione che la Corte costituzionale fa in ordine alla “riconduzione” all’art. 34 CDFUE della direttiva 2011/98/UE (e, di riflesso, del regolamento n. 883/2004) .
Ma, se è così, il quesito pregiudiziale appare comunque mal formulato, nella misura in cui inverte i termini del discorso: l’art. 34 (anche volendo ammettere che sia effettivamente rilevante) è infatti del tutto silente al riguardo, visto che il suo significato dipende interamente dalla nozione di sicurezza sociale accolta dall’art. 3, par. 1, lettere b) e j), del regolamento n. 883/2004, siccome richiamato dall’art. 12, par. 1, lettera e), della direttiva 2011/98. Onde il quesito andrebbe esattamente rovesciato, dovendosi semmai chiedere alla Corte di giustizia se le citate disposizioni della direttiva e del regolamento, eventualmente lette alla luce dell’art. 34 CDFUE (per quanto appunto la norma possa rilevare sul piano interpretativo), ostino a che la normativa nazionale escluda dalle provvidenze in questione gli stranieri titolari del permesso unico di cui alla direttiva 2011/98, concedendole soltanto a quanti siano in possesso del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo.
La questione pregiudiziale così formulata dalla Corte suscita, poi, un secondo ordine di perplessità, se si vuole ancor più sostanziali di quelle testé prospettate. Si è ricordato come la Corte di cassazione non nutrisse invero dubbio alcuno – e a ben donde, per quel che diremo tra un momento – sulla natura delle provvidenze in questione: pur rappresentandosi la possibilità di procedere senz’altro alla disapplicazione della normativa nazionale per contrasto con il combinato disposto della direttiva 2011/98 e del regolamento n. 883/2004 , interpretati alla luce della CDFUE (ed in specie, sotto questo profilo, degli artt. 20 e 21) , la Corte nomofilattica ha giustamente preferito sollevare l’incidente di costituzionalità al fine di conseguire la «eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione» . È (solo) la Corte costituzionale a porsi il dubbio sulla natura delle due prestazioni, al lume dell’art. 34 CDFUE: con un qualche eccesso di cautela, o di zelo, si potrebbe però osservare .
A legger bene l’ordinanza, nemmeno la Corte costituzionale riesce infatti a spiegare le ragioni di tale dubbio, in specie per l’assegno di maternità di base di cui all’art. 74 del d.lgs. n. 151/2001, la cui natura di prestazione familiare di sicurezza sociale ai sensi dell’art. 3 del regolamento n. 883/2004, e quindi della direttiva 2011/98, appare invero difficilmente equivocabile, stando alla granitica giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo . Ma neppure per l’assegno di natalità – al di là del cenno alla sua valenza plurifunzionale ed ai conseguenti supposti «aspetti inediti rispetto alle prestazioni familiari già vagliate dalla Corte di giustizia» – l’ordinanza in commento offre indicazioni persuasive.
In conclusione, la nostra perplessità sull’ordinanza sta in ciò: che la Corte insinua dubbi su profili ampiamente dissodati e chiariti tanto dalla giurisprudenza interna quanto, a ben vedere, da quella europea, e lo fa richiamando un parametro di dubbia rilevanza, qual è quello offerto dall’art. 34 CDFUE, svalutando apparentemente – con una sorta di deviazione o di salto argomentativo – il cuore delle questione, che ha a che fare con l’applicazione (diretta) della direttiva 2011/98 e con il divieto di discriminazione e l’obbligo di parità di trattamento in essa contenuto.
5. Conclusione. Che questo sia il nocciolo del problema è, comunque, e per fortuna, finalmente chiaro allo stesso legislatore, che con il disegno di legge europea 2019/2020 attualmente in discussione si propone di sanare il contrasto con il diritto dell’Unione e di superare così la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione . Ove approvato nella formulazione proposta, l’art. 2 del disegno di legge supererebbe, infatti, questo contrasto (e quindi, almeno per il futuro, la stessa questione sollevata dalla, e dinanzi alla, Corte costituzionale), stabilendo che tanto ai fini dell’art. 74, d.lgs. n. 151/2001, quanto ai fini dell’art. 1, comma 125, l. n. 190/2014, il diritto alla prestazione (pacificamente di sicurezza sociale ai sensi del diritto dell’Unione) spetti anche ai titolari del permesso di soggiorno di cui al nuovo art. 41, comma 1-ter, d.lgs. n. 286/1998. La previsione si propone altresì di utilizzare la deroga consentita in materia di prestazioni familiari dall’art. 12 della direttiva 2011/98/UE in stretta coerenza con i limiti da questa autorizzati .
D’altra parte, è lo stesso disegno di legge delega relativo al c.d. Family act a ribadire tale principio ai fini dell’accesso alla futura prestazione familiare a carattere universale, ovvero che ad averne diritto saranno anche gli stranieri extracomunitari titolari del permesso di soggiorno per motivi di lavoro o di ricerca di durata almeno annuale, con un ritorno, dunque, dopo oltre vent’anni, alla ratio originaria dell’art. 41 del testo unico sull’immigrazione (salva, però, l’introduzione di un requisito di residenza biennale nel territorio italiano, di cui dovrà essere valutata la compatibilità, prima facie piuttosto problematica, con la citata direttiva) .
Occorre in definitiva auspicare che la futura decisione della Corte di giustizia, sollecitata dalla Consulta con l’ordinanza n. 182/2020, possa corroborare la linea interpretativa dominante tra i giudici comuni e come detto oramai recepita negli indirizzi assunti dal Governo in carica, che lo stesso Parlamento si appresta a fare propri.