TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il Manifesto pubblicato da Bruno Caruso, Riccardo Del Punta e Tiziano Treu è un documento prezioso, un testo interessante anche per l’ampiezza dei temi trattati. Riesce a compiere - in un quadro europeo e internazionale - una diagnosi chiara dei principali problemi che la cultura giuslavoristica deve affrontare in seguito alle trasformazioni subite dall’assetto novecentesco delle nostre società, e nello stesso tempo perviene, secondo un orientamento da «terza via», a proporre numerose e aperte soluzioni pratiche dei problemi descritti. Per molti aspetti si tratta di una vera e propria bozza di programma di governo della materia, nonché di proposte di comportamenti sindacali e padronali molto innovative. E quindi non rappresenta semplicemente il proposito, di per sé già assai impegnativo, di avanzare idee per rinnovare la disciplina. Proporrò una lettura del testo finalizzata a mettere in luce il contributo che più mi interessa, cercando di approfondire, anche indipendentemente dal testo, alcuni aspetti legati alle questioni trattate.
2. Il principale contributo del Manifesto mi sembra l’idea, complessa, variegata, ma unitaria, di lavoro che esso fornisce e riesce a trasmettere al lettore. Il testo offre un apporto significativo sul problema fondamentale che abbiamo di fronte: parliamo tanto, sempre di più, di lavoro, ma che cos’è oggi e forse domani il lavoro? Su questo piano Caruso, Del Punta e Treu ci forniscono un’idea senza rimuovere i molteplici aspetti di cui è costituita, riuscendo a parlare di molte forme di lavoro, indirizzandoci contemporaneamente ad una visione complessiva di questa attività. Non siamo ancora in grado, per molte ragioni, di sostituire il lavoro fordista – che ha impersonato le attività lavorative novecentesche - con un concetto di attività altrettanto precisa, ma ciò che gli autori abbozzano è un’idea di lavoro, cui accennano parlando di «lavoro sostenibile», che taglia trasversalmente i tanti lavori, a cui si era fermata, ad esempio, l’analisi post-fordista di Aris Accornero, e di cui la scena sociale sembra farci intravedere solo o soprattutto le diversità. D’altra parte attraversiamo una fase così acuta di transizione che non è semplice, e forse sarebbe anche azzardato, racchiudere tutte le dinamiche con una definizione. In ogni caso, opportunamente, gli autori non lo fanno, anche se non mancano di comunicare un senso unitario, un concetto generico, dell’oggetto di cui essi parlano e che si pone di fronte al diritto del lavoro.
Se ho ben capito le analisi degli autori, su cui non entrerò nei dettagli, questa concezione di lavoro, senza una precisa definizione, viene ritagliata su tre piani o, se si preferisce, attraverso tre categorie, strettamente intrecciate e trasformate dagli eventi degli ultimi decenni: a) l’ impiegabilità; b) l’ occupazione; e c) la subordinazione. Le quali, a loro volta, rimandano a condizioni sociali, di mercato e di rapporti di lavoro determinate dalle trasformazioni tecnologiche, organizzative e sociali che sono infine approdate alla “quarta rivoluzione tecnologica”.
a) Rispetto al fordismo, l’ impiegabilità è diventata, da un lato, una qualità sempre più complessa e costosa (anche per la sua obsolescenza), in termini di formazione, esperienze acquisite, capacità larghe, flessibili e soft - al punto che un gran numero di offerte di lavoro trovano difficilmente le professionalità adeguate -, e perché la selezione e formazione delle risorse deve corrispondere a criteri di crescente personalizzazione delle figure; e, dall’altro, una proprietà personale caratterizzata da capacità nervose e fisiche, più che intellettuali o conoscitive, richiesta per i poor works (per reddito e qualità), in genere di immediata impiegabilità e rapida formazione, spesso inquadrati in relazioni di lavoro digitalizzate ad alto controllo, prefigurabilità e valutazione delle performances, lavori soprattutto esecutivi e da svolgere in condizione di ubbidienza, anche se non privi di iniziativa e capacità di problems solving, che diviene la capacità principale nei lavori di relazione personale e di cura, basati più sull’empatia che sulle capacità cognitive. Quindi una impiegabilità polarizzata, ma non in senso assoluto, perché si presenta comunque con caratteri individualizzati e con una richieste generale di iniziativa personale, per cui le performances risultano sempre più difficilmente fissabili in mansioni o professionalità fisse e collettivamente stabilite: polarizzate ma unite dalla richiesta del coinvolgimento della persona, ancorché in diverse modalità. Oltreché unite, al di là dell’autonomia o della dipendenza, da una effettiva subalternità economica.
Inoltre, sia i lavori di elevata qualità, sia quelli di qualità più povera, rientrano solo parzialmente nei profili dei contratti nazionali e talvolta non sono collettivamente definibili neppure a livello aziendale. L’impiegabilità, in altre parole, definisce un lavoro sempre più indipendente dal posto di lavoro e dalla sua classificazione in termini di mansioni e di collocazione nel mercato. Quest’ultimo è sempre meno il luogo di uno scambio tra figure prestabilite collettivamente. Se la persona viene riproposta nei rapporti di lavoro, prima di tutto come espressione di una impiegabilità, mettendo in secondo piano l’erogazione di un tempo di lavoro astratto, la persona diviene anche la protagonista dello scambio e della selezione, ponendo inedite questioni di autonomia e quindi di libertà e di diritti personali – che vedremo parlando della crisi del concetto di subalternità – che l’erogazione di tempo di lavoro astrattamente uguale permetteva di aggirare. E che la digitalizzazione tayloristica dei lavori di bassa qualifica intende attuare al prezzo di una acuta contraddizione tra l’attività svolta e l’ irreversibile esigenza di autonomia personale scaturita in tutti i lavori dopo la crisi culturale e sociale del fordismo.
Il valore dell’impiegabilità rende la questione della regolazione per legge del salario minimo più complessa di quello che, mi sembra, appare ai tre autori. Nella misura in cui un’ora di tempo di lavoro crea sempre di più valori differenti da persona a persona impiegata in uno stesso lavoro, come è possibile stabilire un significativo e utile minimo salariale uguale per tutti per legge? Ovvero è possibile, evidentemente, ma complicato e forse poco utile, almeno per la fascia più qualificata dei lavori. Senza essere, mi sembra, un elemento di unificazione, in un momento in cui gli elementi puramente economici non hanno più il potere di stabilire uguaglianze e unità tra i lavoratori. L’impressione è che soltanto una contrattazione articolata, ed in certi casi definita anche per team e per persona, possa stabilire il valore del salario, e che le cornici collettive e nazionali debbano essere prima di tutto rispettate dalle parti mediante una flessibilità concordata e condivisa aziendalmente o territorialmente. La chiave sembra essere, prima di tutto, il rispetto assoluto degli accordi stabiliti e delle modalità della loro applicazione, che devono essere validi per tutti i soggetti in gioco. E tra queste modalità possono essere previste anche trasparenti e non arbitrarie specificazioni di gruppo e di persona, anche per periodi di tempo determinati e per risultato (ritornerò su questo punto quando, seguendo gli autori, toccheremo la questione della partecipazione nel paragrafo sulla subalternità). Un tipo di articolazione che una norma legislativa non appare in grado di poter realizzare. D’altra parte non è costituzionalmente pensabile un salario minimo solo per la fascia più bassa dei lavori. Per cui, su questo punto, fondamentale rimane lo strumento della contrattazione.
b) Rispetto al periodo fordista l’occupazione risulta prima di tutto assai meno stabile. L’innovazione e l’interconnessione tra produzione e mercato (consumi), incentivata dalla raccolta di dati e dall’impiego delle AI, hanno reso necessaria (ancorché in gradi diversi) una flessibilità (interna ed esterna alle imprese) dell’occupazione, determinando una diffusa incertezza occupazionale, che non solo nei lavori di minore qualità si è trasformata in precarietà strutturale - cui giustamente il Manifesto oppone politiche di flexicurity e altre politiche attive, accanto ad un rinnovamento dei sistemi delle tutele e degli ammortizzatori. Rimane il fatto che oggi l’occupazione non è stabile - talvolta anche per iniziativa del lavoratore che ricerca un’occupazione più consona - e che, almeno nel privato, se l’impiegabilità di qualità sollecita azioni di fidelizzazione (anche attraverso il welfare aziendale), in generale il lavoro è sempre più sottoposto alla flessibilità e alle forme ben conosciute e intollerabili di precarietà senza diritti. Occupabilità e precarietà sono quindi le due facce della stessa medaglia del lavoro, anche se iniquamente distribuite, nella società del lavoro flessibile, cui si aggiungono le continue trasformazioni delle competenze e abilità specifiche richieste dalla innovazione tecnologica e organizzativa.
L’attuazione di politiche attive di flexicurity del tipo prospettato dagli autori, che non prevedono il valore assoluto del posto fisso - il cui paradigma difenderebbe tutele e diritti indipendentemente dal contratto a tempo indeterminato - è la scelta che il nostro paese non è riuscito a fare. Esse favorirebbero l’ incontro di impiegabilità e occupazione, sia governando la flessibilità senza cadere nella precarietà, sia impiegando la stessa flessibilità (non solo interna all’azienda) come occasione per favorire nuova formazione e nuove acquisizioni di capacità in vista dell’elevazione della qualità dell’impiegabilità stessa, e quindi dell’occupazione. Ovviamente in cambio di una nuova effettiva sicurezza che prenda il posto di quella della stabilità occupazionale, una sicurezza che in caso di perdita del lavoro potrebbe arrivare a garantire, come ha sostenuto Tiziano Treu , lo stipendio sulla base di fondi alla cui costituzione concorrano le imprese e la fiscalità pubblica; nonché di politiche attive che accompagnino il lavoratore licenziato sul mercato del lavoro anche al fine di non disperdere l’esperienza acquisita nel lavoro effettuato. Solo in questo modo sarebbe disinnescato l’effetto di cattivo volano economico determinato dall’abbassamento dei costi salariali determinato dal mercato del precariato. Il quale, come sappiamo, riguarda in primo piano giovani e donne, determinando forme di ineguaglianza e discriminazione sociali intollerabili socialmente ed economicamente (bassa produttività sociale).
Accanto a queste politiche occorre ricordare il carattere decisivo, come fa anche il Manifesto, della questione, soprattutto per un paese come l’Italia, dell’aumento dell’occupazione, anche per la sostenibilità del welfare in tutti i suoi aspetti, nuovi e non nuovi. E qui entrano in gioco le politiche nei confronti dei giovani, delle donne, degli immigrati e il tema del pensionamento. Mi soffermo solo sull’ultimo punto. Sgombrato il campo dal falso argomento che la liberazione di posti di lavoro per raggiunti limiti di età apra le porte all’occupazione giovanile, la quale si incrementa attraverso gli investimenti di capitali che anche il lavoro del futuro pensionato contribuisce a realizzare, rimane che il budget previdenziale per le pensioni, anche per le problematiche demografiche richiamate dal Manifesto, è già oggettivamente in crisi, oltreché interamente a carico delle nuove generazioni. Le quali, a loro volta, e per una grande fascia di esse, come possono pensare di usufruire di una previdenza contributiva negata dalla precarietà e dalla discontinuità delle occupazioni in assenza di flexicurity? L’idea prospettata dagli autori di uscite flessibili dal lavoro per limiti di età, una volta fissate determinate soglie, appare interamente condivisibile. E potrà esserlo sempre di più quanto maggiore sarà la qualità e la soddisfazione che ciascuno potrà rivenire nel lavoro che svolge. In questo senso le flessibilità con cui il lavoro deve misurarsi, sono tre: quella interna, quella esterna e quella della pensione. Una triplice flessibilità che cambia non di poco l’idea fordista di una occupazione accettata nella sua degradazione in cambio, sia di un tempo libero quotidiano in cui consumare i prodotti di massa dell’industria manifatturiera e di quella dei servizi immateriali, sia di un tempo senza lavoro dopo la fine dell’occupazione.
c) Anche la subordinazione è mutata. Se dal lato dell’eterodirezione nei rapporti di lavoro la cultura manageriale ha maturato l’idea che l’innovazione richieda un lavoro più autonomo e responsabile - perché solo con una sufficiente libertà nel lavoro si possono realizzare le forme di coinvolgimento e di collaborazione indispensabili all’aumento della produttività -, rimane il fatto che questa cultura spesso propone una maggiore libertà nel lavoro in termini sostanzialmente retorici senza tradurre in prassi consolidata e in forme organizzative, cioè in concrete forme di partecipazione e condivisione attiva degli obiettivi aziendali, ciò che in linea di principio sembra sostenere. A tutto questo anche il Manifesto fa più di un riferimento. Cioè all’esigenza di un nuovo patto di collaborazione e di nuove forme di condivisione dei risultati, in cui l’organizzazione partecipata del lavoro, l’informazione e la discussione preventiva delle scelte aziendali, possano anche prevedere la partecipazione dei dipendenti, magari attraverso una parte variabile del salario, agli utili complessivi dell’impresa, anche sulla base delle performances individuali inquadrate in accordi collettivi. La partecipazione agli utili, in forma diretta anziché solo attraverso welfare aziendale o altri benefits, non è uno scambio monetario tra conflittualità e subordinazione, ma la realizzazione di una dialettica sui contenuti e le forme della produzione da cui far discendere una condivisione non arbitraria (paternalistica) e trasparente dei risultati.
Se questi sono i nuovi termini in cui la subordinazione fordista può essere superata nelle imprese che l’innovazione spinge verso il coinvolgimento dei dipendenti, cioè nel lavoro di qualità, in genere fortemente digitalizzato, rimane il fatto che forme nuove di subordinazione e di gerarchia permangono in tutti i lavori dipendenti, e non solo in quelli della impiegabilità più povera e nei lavori autonomi. Questi ultimi, soprattutto quelli di bassa e media qualità, e anche molte professione “liberali”, vengono svolti in forme di dipendenza economica e sociale che li avvicina al lavoro dipendente; professioni i cui minori diritti e tutele rendono altrettanto precarie dei poor works. Una subordinazione economica di fatto che unifica la stragrande maggioranza delle attività lavorative, indipendentemente dalla qualità della loro impiegabilità, e che si lega alla sottomissione delle attività sociali economicamente rilevanti operata dal «capitalismo di sorveglianza» (Shoshana Zuboff) e dal controllo digitale delle piattaforme delle nuove forme di business (Gig Economy) e di “lavoro agile”.
In questo quadro il superamento delle distinzioni tra lavoro dipendente e autonomo presenta un duplice e contraddittorio processo: da un lato il lavoro subalterno acquista forme di autonomia e individualizzazione, dall’altro il lavoro tradizionalmente autonomo perde autonomia economica e forza contrattuale sul mercato. In questa maniera si determina una vastissima area di lavoro né soltanto subordinato, né soltanto autonomo, in cui solo nuove forme di contratto, di diritti e politiche attive di tutela e formazione possono sostituire l’esito nefasto a cui le piattaforme e gli algoritmi di selezione e di redistribuzione degli utili prodotti dalle impiegabilità tendono, ed in cui esse avranno tutto lo spazio per esercitare il proprio potere. Se la maggiore libertà nel lavoro rende più sottili le distinzioni tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, in entrambe le direzioni, le generali condizioni sociali di dipendenza economica degli autonomi e di sorveglianza dei dipendenti (anche nelle forme di Smart Working), intrecciate con la raccolta dei dati non solo dei consumatori ma anche dei produttori (i “dipendenti clienti”), determinano i contenuti delle forme sociali di direzione delle attività e un mutamento nelle forme di subordinazione che costituiscono una sfida decisiva per il lavoro della rivoluzione digitale. Il quale può essere vincente solo attraverso la costruzione di una nuova unità delle diverse forme di lavoro post-subordinato costruita a partire dalle diverse impiegabilità delle persone. Impiegabilità che costituisce il valore del lavoro svolto dalla persona e il filo rosso con cui tessere l’unità flessibile e responsabile della sua azione. E nello stesso tempo la base di una autorealizzazione in un lavoro scelto che può accadere solo in presenza di gradi sempre maggiori di libertà nel lavoro.
3. Il lavoro, quindi, che la fine del fordismo ci presenta, possiede una grande e irriducibie complessità ed è attraversato da contraddizioni acute, ma è anche composto da diversità che ne costituiscono la ricchezza: richiede una impiegabilità sempre più sofisticata, ma è anche oggetto di qualità molto bassa e mal pagata; offre un’occupazione priva di certezze fino a trasformarsi in precarietà, ma la flessibilità si presente anche come occasione di realizzazione di capacità che intendono crescere persino nel tempo pensionabile; ha messo in crisi culturale, definitiva, l’eterodirezione fordista, anche se questa ritorna nei lavori precari e a livello sociale - che una volta era celebrato come il luogo del tempo libero e dell’autonomia fornitrice di identità -, nonché in forme nuove che occorre combattere anche con la partecipazione.
Le forme e le differenze tradizionali del lavoro sembrano scomparire: la subalternità si attenua radicalmente in nome di una maggiore autonomia del lavoro dipendente, pur rimanendo, mutata e diffusa, in nuove forme di dipendenza giuridicamente autonome; la qualità appare assediata dalla precarietà, dai lavori poveri, e da forme di lavoro autonomo in crisi di identità, ma rimane la massima aspirazione della persona che lavora, anche nei lavori più precari. Tutti lavori che sono attraversati dalle nuove tecnologie in grado di distribuirli e di condizionarli, anche se in nome di maggiori libertà circoscritte, talvolta reali altre volte meramente ideologiche.
In conclusione la storica «entrata in campo della persona» (Bruno Trentin) non appare bloccata dalle complessità e contraddizioni che abbiamo ricordato e che il Manifesto descrive. Si tratta di una persona che rivendica la possibilità di realizzarsi nel lavoro e che appare indisponibile a monetarizzare la non qualità della propria attività esattamente nella stessa misura in cui l’impresa ha bisogno di dipendenti campaci di essere coinvolti in un lavoro in cui si riconoscono e trovano un senso. Un lavoro tendenzialmente vicino all’ attività libera di Aritotele, perché capace di avere un fine in se stesso, piuttosto che al labour di Hanna Arendt.
In questo quadro, in cui la persona ha riconquistato posizioni su posizioni, rimane necessaria la centralità dell’impiegabilità, di cui il lavoro e l’economia non possono fare a meno, e che laddove si presenta in misura minore (o povera) rappresenta il punto da cui partire per rovesciare tale condizione e creare lavoro in grado di collaborare con le macchine e non di essere sostituito da queste. Occorre, in altre parole, accorciare la transizione, non accettare i tempi imposti dalla rivoluzione tecnologica e qualificare il lavoro articolandolo secondo un’ organizzazione dell’impiegabilità, della sua crescita universale, facendo della formazione, del rispetto delle vocazioni e degli interessi personali, il centro di uno sviluppo «sostenibile» sia per la Terra, sia per la persona e il suo desiderio di autorealizzarsi nel lavoro. Accorciare la transizione significa fissare i tempi sulla persona e la sua impiegabilità - come ha recentemente richiesto anche ILO citato dal Manifesto -, e non su quelli della tecnologia, che possono essere passivamente accettati nella loro rapidità solo se finalizzati alla capacità di sostituire il lavoro, anziché di creare un nuovo comando e una nuova collaborazione del lavoro autonomo e creativo nei confronti della macchina.
4. E’ chiaro che le nuove tecnologie digitali pongono al lavoro una sfida forse decisiva, almeno per tutto l’arco di tempo che possiamo pensare. Mi sembra ci siano due modi principali per perdere questa sfida. Il primo è quello di combattere una battaglia, anzi una guerra, contro la macchina in nome dei valori dell’ “uomo”. Si tratta di un’idea, non falsificabile, che contrappone l’uomo alla macchina in cui l’uomo ha collocato il proprio pensiero . Quindi è una battaglia dell’uomo contro una parte di sé, alienata, che egli ha paura di non riuscire a controllare. In fondo un timore di tipo feuerbachiano. In Ludwig Feuerbach le alienazioni prodotte dall’uomo – ad esempio Dio - dominano l’uomo perché egli ne ha scordato l’origine (umana): Dio domina l’uomo che ha scordato l’umanità di Dio (che Cristo testimonia all’uomo). Nel caso della macchina, non l’uomo ma la macchina che “pensa”, scorderebbe la dipendenza dal suo creatore, che essa tenderebbe a voler dominare, oggi col pensiero anziché col ritmo meccanico. Così l’uomo benché consapevole della propria creazione sarebbe dominato dalla forza del suo pensiero alienato e attivo fuori di sé. Il tragico sarebbe che l’uomo non può fare a meno di questa alienazione perché la distruzione di essa, cioè della macchina, che in linea di principio potrebbe compiere, coinciderebbe con la fine della società ormai fondata sul progresso di tale alienazione.
Ma le cose stanno veramente e semplicemente così? La macchina non pensa, neppure se scrive un articolo di giornale o vince una partita a scacchi. La macchina elabora un pensiero umano codificato. Anche se le macchine, che comunicano autonomamente, sono in grado di costruire una “società” della macchine, esse non possono essere dei cittadini, ma solo dei nodi. La paura delle macchine e della loro “società” è l’effetto negativo, o il fantasma feuerbachiano, della convinzione che l’uomo cresca solo attraverso l’alienazione, dell’idea della necessità dell’alienazione, cioè della produzione di un potere che coercitivamente faccia elevare l’uomo; che l’uomo e la società crescano solo attraverso un dominio esercitato su di loro (un Leviatano). Un totale pessimismo sulla spontaneità e la ricchezza innata dell’uomo. Quindi l’alternativa non è se accettare o distruggere la macchina, ma se accettare o superare l’idea di crescere attraverso l’alienazione, attraverso le diverse alienazioni di sé, necessarie e temibili nella loro autonomia. Viceversa l’impiego delle macchine al servizio e in collaborazione del lavoro è un punto in cui l’alienazione può lasciare il posto a forme di libertà e autorealizzazione nel lavoro. Cioè in un atto di oggettivazione della conoscenza compiuto in consapevole libertà e non in inconsapevole sottomissione.
Il secondo modo è quello di non intervenire nelle contraddizioni del neoliberismo. Quando Milton Friedman sostiene che il profitto è il solo fine dell’impresa, e quindi che il lavoro è solo un mezzo per questo fine, riduce il profitto a un mero calcolo matematico - valido in USA come in Cina - e il lavoro a salario, riconducendo il “capitale umano” alla categoria fordista di erogazione di tempo di lavoro astratto senza qualità. Se il fallimento dell’URSS ha dimostrato che la regolazione del mercato non produce efficienza e maggiore ricchezza, la Cina dimostra che la libertà politica non è indispensabile al profitto e all’efficienza del mercato. In altre parole che la partita si gioca prima di tutto sulla libertà del lavoro, da cui dipendono, sia la qualità delle attività lavorative, sia l’impiego sociale della ricchezza prodotta.
A sua volta la sfida può riuscire vincente almeno a due condizioni. La prima, che il fine di uno sviluppo «sostenibile» sia perseguito da tutti coloro che valorizzano l’impiegabilità, e cioè le persone che lavorano per le imprese e coloro che le imprese le hanno promosse investendoci capitali e imprenditorialità. Secondo che nel mercato del lavoro la persona sia sempre di più in grado di poter scegliere il lavoro e non sia invece costretta, per le ragioni che conosciamo, a svolgere un lavoro qualsiasi. Questo secondo punto può essere enunciato in maniera sintetica, anche se molto impegnativa, dicendo che occorrerebbe riscrivere l’Art. 1 della nostra Costituzione: la Repubblica italiana non dovrebbe essere «fondata sul lavoro», ma «fondata sul lavoro scelto». Una maniera per declinare efficacemente l’idea di lavoro «sostenibile» proposta dal Manifesto.