TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Prendendo le mosse dalla nota, complessa e a tratti inquietante vicenda polacca, tenterò di delineare, anche se soltanto per brevi cenni, il nuovo ruolo assunto dalla Corte di giustizia non solo nella tutela dei diritti fondamentali stricto sensu ma nella tutela di quei diritti come “ a social ordering”, per utilizzare l’espressione di Paul Craig, intervenendo, nel vuoto delle politiche, in misura incisiva, in particolar modo mediante lo straordinario strumento della Carta dei diritti fondamentali, come accennava Lello Sabato, nella tutela dello Stato di diritto negli Stati membri nei quali sussista il concreto pericolo di sovvertimento dei principi basilari della rule of law.
In questo percorso, oltre al rilievo da riconoscersi alle disposizioni della Carta, come vedremo, gioca un ruolo nodale l’obbligo di leale collaborazione che grava sui giudici nazionali ai sensi dell’art. 4 par. 3 TUE più volte richiamato dalla Corte soprattutto nelle pronunzie più recenti. Ma procediamo con ordine.
Il 20 dicembre 2017, la Commissione europea ha adottato, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo uno del trattato sull’unione europea, una proposta di decisione del consiglio sulla base di un evidente rischio di violazione grave dello stato di diritto da parte della repubblica di Polonia.
Tale proposta non ha mai raggiunto lo stato decisionale: la prospettiva di raggiungere la maggioranza richiesta per la decisione del Consiglio è apparsa da subito irrealista. Possiamo sin da ora sottolineare che questa è stata vista come una vicenda emblematica del fatto che le procedure di cui all’art. 7, volte a prevenire, accertare e sanzionare una grave violazione di quei valori dell’Unione che non solo sono comuni agli Stati membri ai sensi dell’art. 2 ma si applicano anche al di fuori dell’ambito di attuazione del diritto europeo e, quindi, anche nell’esercizio di competenze esclusive, sono mal congegnate e rischiano di realizzare il paradosso di uno Stato membro dotato di un sistema illiberale ne confronti del quale non vi sono, però, reali strumenti di accertamento e sanzione.
A tale insufficienza si è cercato di rimediare in vario modo soprattutto tenendo presente che la violazione dei valori dell’Unione da parte di uno Stato membro comporta, pressochè inevitabilmente, ulteriori violazioni di altre regole europee.
L’accertamento delle prime, di carattere sistemico, avviene esclusivamente attraverso le procedure stabilite dall’art. 7: di converso, le violazioni specifiche di altri obblighi europei, che pur conseguano alle politiche adottate da uno Stato in violazione dei valori dell’Unione, possono essere accertate e sanzionate attraverso le procedure ordinarie di garanzia previste dai Trattati, in particolare, attraverso la procedura di infrazione di cui all'art. 258 TFUE.
In varie occasioni la Corte di giustizia è stata chiamata ad effettuare un accertamento di questo tipo ed in alcuni casi il nesso fra violazioni sistemiche e violazioni specifiche si è fatto assai esplicito.
E’ quanto è avvenuto con il caso polacco.
Con sentenza in data 24 giugno 2019, (causa C- 619/18) la Corte di giustizia ha accertato la difformità della legislazione polacca, che aveva disposto il pensionamento anticipato dei giudici della Corte Suprema e la loro sostituzione attraverso procedimenti riservati alla discrezionalità di organi politici, rispetto all’obbligo degli Stati membri di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. Chiave di volta della pronunzia, quindi, non solo l’obbligo che incombe sugli Stati ai sensi dell’art. 19 TUE, ma, soprattutto, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali che assicura, nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, il diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale; si tratta di una chiara dimostrazione della centralità di quella norma in ordine alla quale hanno da tempo iniziato a circolare spinte applicative anche di tipo orizzontale.
Nella successiva decisione del 19 novembre 2019 (cause riunite C- 585/18, C- 624/18 e C- 625/18) la nota A.K., resa in seguito ad un rinvio pregiudiziale disposto dalla Corte Suprema polacca, la Corte ha interpretato l’art. 47 della Carta in combinato disposto con l’art. 9, par. 1, della Direttiva 2000/78/CE in materia di parità di trattamento nelle condizioni di lavoro nel senso che le due disposizioni garantiscono ai singoli il diritto a un ricorso equo ed imparziale. Secondo la Corte, tale diritto sarebbe violato da una legislazione, quale quella polacca, che riservi la competenza a definire le controversie, in relazione alle norme sul pensionamento anticipato dei giudici, ad una sezione speciale della Corte Suprema, composta da membri nominati da organi politici sulla base di criteri discrezionali. L’esistenza di un controllo politico sulla nomina dei giudici che compongono la sezione speciale potrebbe minare, infatti, l’indipendenza e l’imparzialità di tale organo al punto da “ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare a detti singoli in una società democratica”. La Corte ha indicato espressamente che “le garanzie di indipendenza e di imparzialità del giudice “presuppongono l’esistenza di regole relative, in particolare alla composizione dell’organo, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo rispetto ad elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti (sulla stessa linea della giurisprudenza Piersack cui si riferiva prima Raffaele) (par. 123).
In seguito, la Corte Suprema polacca remittente, nelle sentenze del 5 dicembre 2019 e del 15 gennaio 2020, ha dichiarato specificamente che, alla luce delle circostanze e modalità con cui è stata costituita, dell'entità dei suoi poteri, della sua composizione e del coinvolgimento del Consiglio Nazionale della Magistratura nella sua costituzione, l'Izba Dyscyplinarna non può essere considerata un tribunale ai fini né del diritto dell'UE né del diritto polacco; si tratta, lo ripeto, di una Camera la cui giurisdizione concerne i casi disciplinari riguardanti i giudici della Corte Suprema e, in appello, quelli relativi ai giudici dei tribunali ordinari.
Dopo tali sentenze, tuttavia, l'Isba Dyscyplinarna ha continuato a svolgere le sue funzioni giudiziarie.
Ritenendo che la Polonia non avesse dato esecuzione alla sentenza, la Commissione ha adito nuovamente la Corte, nell’ambito di un procedimento di infrazione. Con l’ordinanza dell’8 aprile 2020, causa C- 791/19, Commissione europea c. Repubblica di Polonia, la Corte ha ordinato alla Polonia, questa volta in via cautelare, di sospendere l’applicazione della legge controversa e di astenersi dal rimettere le cause pendenti alla Sezione speciale ad altro giudice che non soddisfi i requisiti di indipendenza indicati nella sentenza AK.
In particolare, nell’ordinanza dell’8 aprile 2020, la Grande Sezione della Corte di giustizia ha accolto l’istanza cautelare avanzata dalla Commissione e, ritenendo giustificata l’adozione di misure provvisorie, ha disposto l’immediata sospensione, da parte della Polonia, dei poteri riconosciuti alla Camera disciplinare della Corte suprema in ordine alle cause disciplinari riguardanti i giudici.
Questione centrale sollevata dalla Polonia era quella concernente la dedotta insussistenza della competenza della Corte ad ordinare le misure provvisorie controverse: la Corte ha sottolineato che, sebbene l'organizzazione della giustizia negli Stati membri rientri nella competenza degli stessi, nondimeno, nell'esercizio di tale attività, gli Stati membri sono tenuti ad adempiere ai loro obblighi derivanti dal diritto dell'UE.
Riguardo al fumus boni juris la Corte ha ritenuto prima facie non infondati gli argomenti addotti dalla Commissione a sostegno dell’assenza di indipendenza ed imparzialità dei procedimenti disciplinari nei confronti di magistrati, mentre, con riferimento al periculum in mora, lo ha ravvisato nel rischio di pregiudizio grave e irreparabile agli interessi dell'Unione, che possano realizzarsi e produrre i propri effetti prima che sia presa la decisione finale.
Ed arriviamo così all’ultima puntata – almeno per ora – della saga polacca.
Si tratta della decisione adottata dalla Grande Sezione della Corte di giustizia il 2 marzo scorso nella causa C- 824/18, AB.
In primo luogo, la Corte nel suo più autorevole consesso dichiara che sia il sistema di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte, stabilito all’articolo 267 TFUE, sia il principio di leale cooperazione, enunciato all’articolo 4, paragrafo 3, TUE, ostano a modifiche legislative simili a quelle, sopra citate, effettuate nel 2018 in Polonia, qualora risulti che esse hanno avuto lo specifico effetto di impedire alla Corte di pronunciarsi su questioni pregiudiziali come quelle sollevate dal giudice del rinvio e di escludere qualsiasi possibilità che un giudice nazionale ripresenti in futuro questioni analoghe. La Corte precisa, a tale riguardo, che spetta al giudice del rinvio valutare, prendendo in considerazione l’insieme degli elementi pertinenti e, in particolare, il contesto in cui il legislatore polacco ha adottato tali modifiche, se ciò avvenga nel caso di specie.
La Corte considera, poi, che anche l’obbligo degli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, previsto all’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, può ostare a questo stesso tipo di modifiche legislative. Così è nel caso in cui risulti – circostanza che, ancora una volta, spetta al giudice del rinvio valutare sulla base dell’insieme degli elementi pertinenti – che tali modifiche sono idonee a suscitare dubbi legittimi nei singoli quanto all’impermeabilità dei giudici nominati, sulla base delle delibere della KRS, il Consiglio nazionale della Magistratura, rispetto a elementi esterni, in particolare rispetto a influenze dirette o indirette dei poteri legislativo ed esecutivo, e quanto alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti.
Per giungere a questa conclusione, la Corte ricorda che le garanzie di indipendenza e di imparzialità richieste in forza del diritto dell’Unione presuppongono l’esistenza di norme che disciplinino la nomina dei giudici. Peraltro, la Corte sottolinea il ruolo determinante della KRS nel processo di nomina a un posto di giudice della Corte suprema, in quanto l’atto di proposta da essa adottato costituisce una condicio sine qua non per la successiva nomina di un candidato.
Pertanto, il grado di indipendenza di cui gode la KRS rispetto ai poteri legislativo ed esecutivo polacco può assumere rilevanza, secondo la Corte, al fine di valutare se i giudici da essa selezionati saranno in grado di soddisfare i requisiti di indipendenza e di imparzialità.
A tale riguardo, la Corte precisa che se il giudice del rinvio, sulla base dell’insieme degli elementi pertinenti da esso menzionati nella sua decisione di rinvio e, in particolare, delle modifiche legislative che hanno recentemente inciso sul processo di designazione dei membri della KRS, tutti di nomina parlamentare, dovesse concludere che quest’ultima non offre sufficienti garanzie di indipendenza, l’esistenza di un ricorso giurisdizionale a disposizione dei candidati non selezionati risulterebbe necessaria per contribuire a preservare il processo di nomina dei giudici interessati da influenze dirette o indirette ed evitare, in definitiva, che possano sorgere i dubbi summenzionati.
Infine, la Corte dichiara che, se il giudice del rinvio dovesse giungere alla conclusione che l’adozione delle modifiche legislative del 2018 è avvenuta in violazione del diritto dell’Unione, il principio del primato di tale diritto imporrebbe a quest’ultimo giudice di disapplicare tali modifiche, siano esse di origine legislativa o costituzionale, e di continuare ad esercitare la competenza, di cui era titolare, a pronunciarsi sulle controversie di cui era investito prima dell’intervento di dette modifiche.
Orbene in questo contesto si inserisce la Grande sezione del 20 aprile scorso sulla vicenda di nomina dei giudici maltese in cui la Corte ha escluso le violazioni prospettate. Centrale il link fra art. 2 e art. 19 ancora più rimarcato rispetto al caso dei giudici polacchi: dall’articolo 2 TUE discende che l’Unione si fonda su valori, quali lo Stato di diritto, che sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata, in particolare, dalla giustizia. Evidenza la Corte, al riguardo, che la fiducia reciproca tra gli Stati membri e, segnatamente, i loro giudici, si basa sulla premessa fondamentale secondo cui gli Stati membri condividono una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, come precisato nel suddetto articolo. Ne consegue che il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori sanciti dall’articolo 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro. Uno Stato membro non può quindi modificare la propria normativa in modo da comportare una regressione della tutela del valore dello Stato di diritto, valore che si concretizza, in particolare, nell’articolo 19 TUE [ chiaro il richiamo alla sentenza del 2 marzo 2021, A.B. e a). Quindi sull’onda lunga dell’art. 19 l’art. 2 prende corpo ed impedisce agli Stati di adottare qualsiasi misura che violi la clausola di non regresso rispetto ai valori fondanti dell’Unione.
Orbene conclusivamente due sono gli aspetti che in questo rapido excursus sul cuore della indipendenza ed imparzialità come nucleo della funzione giurisdizionale, maggiormente mi preme qui evidenziare, soltanto con poche, rapide, battute:
Il primo, il ruolo centrale del giudice che, anche nella vicenda polacca, si trova a dover conciliare l’inconciliabile per usare l’icastica espressione dell’Avvocato Pojares Maduro nella causa Arcelor Atlantique et Lorraine: sull’onda del fondamentale principio del primato, due sono, senza dubbio, in base ad un sommario studio statistico, le più ricorrenti affermazioni contenute nelle sentenze della Corte di giustizia: la prima, “spetta al giudice nazionale”; la seconda “nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali sono chiamati a interpretarlo per quanto più possibile, alla luce della lettera e dello scopo del diritto dell’Unione” - : due richiami costanti all’impegno del giudice nazionale.
L’obbligo di leale collaborazione di cui all’art. 4 n. 3 del Trattato, spinto alle estreme conseguenze e, nel caso che qui interessa, fino ad imporre al giudice del rinvio di disapplicare la norma interna successiva contrastante determinando una riespansione della normativa previgente – con un meccanismo similare alla nota vicenda Mangold - sottolinea la centralità del rinvio al giudice nazionale ed al suo gravoso impegno interpretativo quale chiave di volta del sistema ordinamentale integrato; in una parola : nella essenziale sinergia fra le Corti, il giudice nazionale si conferma quale organo di base dello spazio giudiziario europeo.
Il secondo profilo che mi interessa evidenziare è come la giurisprudenza della Corte sul caso polacco, ormai ampia, evidenzi come la Corte di giustizia, stimolata dalla Commissione, nonché dai giudici della corte Suprema di Polonia, sia ormai “sulla linea del fronte” nella battaglia per la garanzia del rispetto dei valori fondamentali dell’Unione. Emerge da tale giurisprudenza come il controllo sui valori fondamentali si stia trasformando in una sorta di controllo esterno rispetto agli ordinamenti nazionali e alla loro pretesa sovranità assoluta. Tale controllo assume, dunque, un pronunciato rilievo costituzionale e limita l’obbligo dell’Unione di rispettare l’identità politica e costituzionale degli Stati membri, formulato dall’art. 4 par. 2 TUE.
Nel caso AK, l’elemento che ha consentito alla Corte di operare è stato l’art. 19, par. 1, comma 2, TUE, il quale incardina i giudici nazionali nell’ambito della funzione giudiziaria europea. Posto che i giudici nazionali hanno il dovere di interpretare ed applicare il diritto europeo, una disciplina nazionale che ne mini l’indipendenza, pregiudicherà, altresì, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. Tale ancoraggio trova, poi, il proprio naturale sviluppo, nell’art, 47 della Carta che sembra diventato ormai il core business delle più recenti decisioni della Corte di giustizia: credetemi da ora in poi ci si dovrà sempre più concentrare sullo studio di questa disposizione per così dire trasversale, quasi un metaprincipio del diritto dell’Unione al pari dell’uguaglianza e della non discriminazione perché è su di essa nelle sue miriadi di sfaccettature che si sta costruendo il futuro del sistema giurisdizionale integrato.
Infine, Attraverso il ponte dell’art. 19 (ma ci si potrebbe interrogare sul se esistano altre norme in grado di consentire una tutela per cosi dire mediata dei valori espressi dall’art. 2 TUE) la Corte nella vicenda maltese enfatizza il proprio ruolo centrale decidendo essa stessa per la illegittimità di qualsiasi violazione della clausola di non regresso nella tutela dei principi della rule of law europea, tutela di cui essa Corte sa di essere prima e fondamentale depositaria.