Testo integrale con note e bibliografia

1. Da dove partire?
La globalizzazione dei mercati, combinata con i più recenti processi di digitalizzazione dell’economia, crea continue tensioni sul piano della regolazione e della tutela dei lavoratori, determinando, anche in ragio-ne della sempre più diffusa transnazionalità delle relazioni di lavoro, una sorta di “polverizzazione” degli spazi normativi.
Vengono così amplificandosi i rischi che insistono sul lavoro e sulla sua disciplina giuridica, e, per quanto qui interessa, sul destino dei di-ritti dei lavoratori all’interno della catena di montaggio globale.
Le liaisons dangereuses tra le trasformazioni dei modelli imprenditoria-li, la multipolarizzazione delle relazioni di lavoro, e la loro “commercia-lizzazione” su scala globale rappresentano la vera sfida per il diritto del lavoro del futuro. Una sfida resa ancora più evidente dall’impatto che la pandemia ha determinato a tutti i livelli.
Il dato da cui partire riflette, quindi, un terreno di analisi estrema-mente eterogeno nel quale i confini dell’impresa , e con essi il suo pe-rimetro territoriale di azione, vengono resi fluidi per effetto dei noti fenomeni delle esternalizzazioni, del decentramento produttivo, e an-cora delle aggregazioni nella forma dei gruppi societari e delle reti.
La pressione della concorrenza internazionale, la crisi delle sovranità statuali, la perdita di potere delle organizzazioni sindacali e, da ultimo, la crisi pandemica, sono solo alcuni dei fattori che descrivono un con-testo scosso da reiterati sciami sismici che colpiscono, in particolare, i lavoratori.
La disgiunzione dei tradizionali nessi tra lavoro, creazione di valore e localizzazione geografica, combinata con l’asimmetria di potere che domina le reti di produzione globale, amplifica infatti la vulnerabilità dei lavoratori, in un contesto naturalmente ostile a qualsiasi istanza di regolazione a livello nazionale o internazionale.
La dispersione geografica della produzione e la divisione internazio-nale del lavoro si sono quindi imposti come fattori di destrutturazione della normativa di tutela del lavoro, contribuendo ad inasprire le dina-miche concorrenziali che pervadono il mercato globale.
Il cambiamento che ne è derivato ha determinato una nuova divi-sione del lavoro su scala globale, e ridisegnato i rapporti tra Paesi in via di sviluppo ed economie avanzate. Mentre queste ultime si sono specializzate in attività ad alta intensità di competenze, le economie emergenti si sono, per lo più, concentrate in produzioni ad alta intensi-tà di capitale. Questa distinzione, come noto, è apparsa in tutta la sua drammaticità durante la pandemia, determinando l’impossibilità di di-sporre di beni di primaria necessità in quanto realizzati pressochè esclusivamente nei paesi chiusi per il lockdown.
Partendo da queste brevi note il contributo intende rappresentare, sia pur sinteticamente, i percorsi regolativi che sono stati avviati al fine di governare le imprese, ed indirizzarle verso modelli di business so-stenibili e inclusivi .
La complessità della trama emerge in tutta la sua valenza nelle paro-le di Meyer e Gereffi: la globalizzazione economica è un sottoprodotto della produzione internazionale e delle reti commerciali organizzate da imprese transnazionali, ed è interessata da una complessità di regola-mentazioni che sono in parte espressione delle sovranità nazionali, in parte delle istituzioni internazionali e per altra parte del ruolo regolati-vo assunto dall’attore economico .
2. Gli interventi regolativi tra tradizione e innovazione
Il potere acquisito dalle multinazionali nello scenario globale trova, come noto, linfa vitale in quei modelli organizzativi che accentuano lo “stato di impermeabilità” dell’attore economico dinanzi agli ordina-menti giuridici dei Paesi in cui opera.
In questa prospettiva, l’autonomia negoziale finisce per giocare an-che nel settore del diritto del lavoro la medesima funzione già svolta in altri settori dell’ordinamento, vale a dire “deterritorializzare la discipli-na applicabile, consentendo al datore di lavoro di scegliere, insieme alla sua collocazione territoriale, anche la legge del rapporto” .
Le delocalizzazioni rappresentano, in questo senso, un prodotto del-le dinamiche di internazionalizzazione della globalizzazione dei mercati e dalla finanziarizzazione dell’economia ma, dall’altro lato, possono tradursi, e i casi di cronaca lo dimostrano chiaramente, in una minaccia per i livelli occupazionali e per i sistemi normativi più evoluti.
Le istanze di regolamentazione si scontrano altrimenti con l’esigenza di bilanciare la libertà di iniziativa economica, e quindi il po-tere dell’impresa di determinare come e dove produrre, con gli interes-si dei lavoratori e delle comunità locali coinvolte.
Si è parlato in questo senso di un “offshoring dilemma” in quanto, per un verso, le delocalizzazioni sono espressione naturale dell’evoluzione del mercato ed hanno un impatto positivo sulle imprese e sui consu-matori; ma, per altro verso, esse incidono sui livelli occupazionali, met-tendo in crisi il tessuto economico dei paesi di origine e suscitando, conseguentemente, forti resistenze soprattutto sul versante sindacale.
Alla luce delle criticità poc’anzi richiamate, viene in evidenza, negli ultimi anni, un’accelerazione dei processi regolativi in atto, nel conte-sto nazionale e sovranazionale, che hanno per obiettivo, ad un tempo, la responsabilizzazione dell’attore economico e la definizione di pro-cessi di controllo del loro operato, al fine di mitigare gli effetti avversi prodotti dal business sui lavoratori e, più in generale, sulla comunità in cui opera.
Si tratta, come altri ha detto, di ragionare su nuovi assetti regolativi capaci di “forzare il capitale irresponsabile verso un mondo responsa-bile” .
In termini generali le analisi sin qui condotte dalla migliore dottrina hanno sottolineato che l’inscrizione dell’impresa entro coordinate glo-bali comporta, sotto il profilo dell’indagine giuridica, una sommatoria di fonti regolative aventi diversa origine e varia natura, collocate “in un ambiente di pluralismo giuridico” in cui le fonti stesse sono non solo misurabili “con il discrimine hard law soft law, ma anche con molte re-gole e regulation prodotte da soggetti economici privati” .
Alle modificazioni della struttura e della strategia dell’impresa fini-sce per corrispondere, quindi, una geografia delle fonti altrettanto de-strutturata e variegata.
L’ambiente normativo si mostra pluriforme, vuoi se consideriamo i livelli regolativi che entrano in gioco, e che rimandano alla legislazione domestica e alle disposizioni di diritto sovranazionale, vuoi se ci sof-fermiamo sulla natura degli strumenti regolativi, manifestandosi inedite commistioni tra hard law e soft law.
3. Le azioni di contrasto alle delocalizzazioni: cenni sul conte-sto nazionale negli sviluppi più recenti
Focalizzando l’analisi, sia pur per brevi cenni, sull’ordinamento ita-liano, possiamo osservare che le previsioni in tema di delocalizzazione sono state per lo più animate da istanze dirette a favorire la permanen-za delle imprese nel nostro paese. Si è trattato, prevalentemente, di mi-sure di carattere sanzionatorio e/o incentivante, rivolte esclusivamente alle imprese che intendono richiedere o sono risultate beneficiarie di agevolazioni ed incentivi erogati con fondi pubblici.
Vanno colte in questa prospettiva le misure introdotte con la l. n.80/2005 e, in particolare, le c.d. clausole di salvaguardia volte a con-dizionare l’erogazione di risorse pubbliche a favore delle imprese che si impegnano a mantenere l’attività in Italia, e le misure per promuovere il c.d. reshoring.
Importante è inoltre richiamare l’art. 1 c.60 l. n. 147/2013 (legge di stabilità 2014) per effetto del quale “le imprese italiane ed estere ope-ranti nel territorio nazionale che abbiano beneficiato di contributi pubblici in conto capitale, qualora, entro tre anni dalla concessione de-gli stessi, delocalizzino la propria produzione dal sito incentiva-to a uno Stato non appartenente all'Unione europea, con conse-guente riduzione del personale di almeno il 50 per cento, decado-no dal beneficio stesso e hanno l'obbligo di restituire i contributi in conto capitale ricevuti”.
Con Direttiva del 25 novembre 2015 il Ministero ha poi definito le modalità e i tempi di restituzione dei contributi in conto capitale eroga-ti alle imprese in caso di delocalizzazione della produzione in uno Stato non appartenente all'Unione europea ma, ad oggi, non risulta rilasciato alcun provvedimento di revoca dei contributi.
Altri provvedimenti finalizzati a porre un argine alle delocalizzazioni hanno interessato settori specifici (per i call center l’art. 1 c. 243 l.n. 147/2013) o sono intervenuti a livello regionale .
Il dato normativo sommariamente richiamato presenta non secon-dari profili di debolezza.
Per un verso viene oscurato il distinguo, invero necessario, tra i processi di internazionalizzazione che sono il riflesso di “fisiologiche scelte imprenditoriali” e le c.d. delocalizzazioni selvagge, diversamente espressione di scelte opportunistiche delle imprese animate da istanze di “take and go”.
Per altro verso, si tratta di interventi che mettono chiaramente in luce l’assenza di un disegno unitario e strutturato sul piano degli stru-menti volti a prevenire le delocalizzazioni “pirata”. Ciò vale sia per quanto concerne le misure adottate, distinguendosi tra sanzioni, mec-canismi premiali, vincoli di mantenimento, sia con riferimento al loro ambito di applicazione, rilevando la delocalizzazione come fenomeno poliedrico ed irriducibile a qualsiasi tentativo di categorizzazione.
3.1. Il Decreto Dignità e la Proposta di modifica
L’incertezza che discende dal quadro sommariamente richiamato, e con essa il rischio che si tratti di provvedimenti in concreto poco effi-caci, caratterizza anche le disposizioni del Decreto Dignità (d.l. n. 87/2018 convertito con modificazioni dalla l. n. 96/2018).
Se, sul piano formale, le “misure per il contrasto alla delocalizzazio-ne” contenute nel suo capo II intendono rispondere, da differenti an-goli di osservazione, ad istanze di salvaguardia dei livelli occupazionali, sul piano sostanziale si tratta di previsioni che presentano non secon-dari profili di criticità.
Basti in questa sede richiamare le difficoltà insite nell’individuare il perimetro definitorio delle delocalizzazioni. Le imprese beneficiarie di aiuti decadono dal beneficio “qualora l’attività economica interessata dallo stesso o una sua parte venga delocalizzata” in Stati non apparte-nenti all’Unione europea (art. 5 c. 1 Decreto Dignità) o in “ambito na-zionale, dell’Unione europea e degli Stati aderenti allo Spazio economi-co europeo” (art. 5 c.2 Decreto Dignità).
Sul punto il legislatore ha adottato una nozione a maglie larghe sta-bilendo che le delocalizzazioni si identificano nel “trasferimento di at-tività economica o di una sua parte dal sito produttivo incentivato ad altro sito, da parte della medesima impresa beneficiaria dell’aiuto o di altra impresa con la quale vi sia rapporto di controllo o collegamento ai sensi dell’art. 2359 del codice civile” (art. 5, c.6).
Il nodo interpretativo centrale ruota intorno al concetto di “trasfe-rimento di attività economica o di una sua parte”. Posta l’esigenza di colpire le delocalizzazioni indipendentemente dalla forma giuridica as-sunta, il trasferimento potrà realizzarsi per effetto di una delle nume-rose operazioni societarie che consentono la cessione ad altro soggetto dell’attività economica o di una sua parte - pensiamo al trasferimento d’azienda, alla fusione, etc. con l’unica particolarità che, trattandosi di operazione transfrontaliera, si porrà il problema di capire la normativa applicabile a tutela dei lavoratori -, ma potrà altresì derivare dalla costi-tuzione di una nuova società all’estero - a fronte della chiusura dell’attività in Italia con conseguente licenziamento dei lavoratori coin-volti -.
Al di là comunque dei profili interpretativi sollevati dal Decreto Di-gnità , il dato di realtà registra l’assenza di provvedimenti di recupero dei contributi erogati.
Ed è proprio partendo dall’ineffettività delle previsioni normative che è stato presentato il DDL S.2021 “Misure per il contrasto alle de-localizzazioni e la tutela dei livelli occupazionali” con cui si propone di modificare il Decreto Dignità, in particolare nel suo Capo II.
Nella Proposta si chiede l’abrogazione dell’art. 5 c.6 del Decreto Dignità, nel punto in cui definisce il perimetro della delocalizzazione, proponendo di identificare la stessa nell’ ”avvio, entro cinque anni dal-la conclusione degli investimenti per i quali c'è stata la concessione di un contributo in conto capitale da parte di una pubblica amministra-zione, presso un'unità produttiva ubicata in uno Stato estero anche ap-partenente all'Unione europea, della produzione di uno o più prodotti già realizzati con il sostegno pubblico presso un'unità produttiva ubica-ta in Italia, da parte dell'impresa beneficiaria del contributo stesso o di altra impresa con la quale vi sia un rapporto di controllo o collegamen-to ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile, in concomitanza con la riduzione dei livelli produttivi presso la predetta unità in Italia e la con-seguente riduzione dei livelli di occupazione, anche laddove la delocalizza-zione avvenga tramite cessione di ramo d'azienda o di attività produttive appaltate a terzi, con riduzione o messa in mobilità del personale dell'impresa” (art. 4- ter DDL S.2021).
La Proposta introduce anche una serie di vincoli sia per le pubbli-che amministrazioni che, nel concedere un contributo in conto capita-le, sono tenute a richiamare le norme di cui al Decreto Dignità, sia per le imprese che devono inviare all’amministrazione erogatrice del con-tributo una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, nella quale sia attestata l'assenza di delocalizzazione e sia assunto l'impegno a comu-nicare tempestivamente alle predette amministrazioni l'eventuale delo-calizzazione, nonché a restituire il contributo (art. 4-quater).
L'articolo Art. 4-quinquies istituisce il “Nucleo operativo per il con-trasto alle delocalizzazioni degli impianti produttivi presso il Ministero dello sviluppo economico, con il compito di effettuare il monitoraggio delle delocalizzazioni di impianti produttivi da parte delle imprese ita-liane ed estere, operanti nel territorio nazionale, che hanno beneficiato di contributi pubblici in conto capitale e dei risultati delle procedure per la restituzione dei benefici fruiti”.
In attesa di vedere quale sorte avrà la proposta di modifica del De-creto Dignità poc’anzi richiamata, si tratta in ogni caso di misure che ad oggi non hanno avuto effetti evidenti, pur nella condivisibile finalità di contrastare l’utilizzo improprio di fondi pubblici attraverso la previ-sione di vincoli di permanenza sul territorio nazionale dell’attività de-stinataria dell’aiuto. Oltre a ciò si tratta di interventi che non vanno al-la radice del problema. Resta infatti aperta la questione delle misure da adottare per contrastare le delocalizzazioni realizzate per meri fini di abbattimento dei costi del lavoro da imprese che non sono beneficiarie di aiuti di stato.
Su questo la Proposta di legge contenente “Disposizioni per soste-nere i livelli occupazionali e produttivi e per contrastare la pratica della delocalizzazione delle attività produttive”, presentata lo scorso 5 otto-bre 2021, potrebbe auspicabilmente determinare un cambio di passo nel dibattito sulle delocalizzazioni, anche se le prime reazioni del mon-do imprenditoriale non fanno ben sperare. Così come qualche segnale incoraggiante a livello europeo viene dalla Direttiva UE 2018/957 del 28 giugno 2018 recante modifica della direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, nonché dalla Proposta di Direttiva sul salario minimo.
4. Due diligence e trasparenza quali leve di promozione di un nuovo modello di business?
Volgendo lo sguardo ad altre dinamiche, invero intimamente legate a doppio nodo con le questioni da cui siamo partiti, può essere interes-sante richiamare alcune previsioni che vanno nella direzione di respon-sabilizzare, potremmo dire anche educare, le imprese nel rapporto con l’ambiente di riferimento, sia esso inteso nell’accezione di ambiente in-terno che esterno.
Lo abbiamo detto più volte: le imprese manipolano i propri “confi-ni” e la propria struttura organizzativa come viatico attraverso cui mo-dificare gli ambiti delle proprie responsabilità giuridiche .
La principale sfida risiede nell’identificazione del potere, quale che sia la sua tenuta e il suo detentore, e conseguentemente nell’orientare il percorso evolutivo della comprensione giuridica dei fenomeni collegati alla struttura complessa dell’attività economica, specie se su scala in-ternazionale, nella direzione del riconoscimento di un “diritto dell’organizzazione” .
Emergono quindi percorsi diversi di “responsabilizzazione” dell’attore economico, orientati ad includere l’intero assetto organizza-tivo entro cui si sviluppa l’attività economica. Sotto questo profilo ap-pare condivisibile l’osservazione secondo cui è necessario “ajuster la re-sponsabilité au pouvoir” in quanto “impératif de justice qui implique de recom-penser les mécanismes d’imputation de responsabilité” .
Come dire che la responsabilità datoriale, che pure “risponde ad esigenze di responsabilizzazione dell’impresa in ordine a valori, principi e norme costituzionali che hanno una valenza diversa a seconda degli equilibri complessivi che l’ordinamento deve assicurare considerando le diverse angolazioni da cui posso essere guardati” , non deve neces-sariamente seguire il principio della soggettivizzazione, ma può e deve adattarsi alla morfologia della catena del valore, non sempre “imputa-bile” ad un solo soggetto.
Sinora, non senza difficoltà, l’ordinamento giuridico è riuscito a tu-telare i diritti dei lavoratori stabilendo una connessione stabile tra rapporto di lavoro e organizzazione produttiva, in modo tale da “anestetizzare” il rapporto di lavoro rispetto alle vicende del datore di lavoro mediante alcuni principi fondamentali, quali il divieto di dissociazione tra titolari-tà formale e titolarità sostanziale del rapporto o il principio di insensi-bilità del rapporto di lavoro rispetto ai mutamenti nella titolarità dell’attività economica organizzata.
Ma nel momento in cui il modello organizzativo dell’impresa cambia radicalmente i sui tratti genetici, il connubio rapporto di lavoro e organiz-zazione produttiva tende a dissolversi, e le stesse tecniche di tutela risul-tano inefficienti ed inidonee a garantire le istanze di protezione dei di-ritti dei lavoratori coinvolti nella nuova morfologia dell’attore econo-mico.
Le risposte degli ordinamenti alla “spinta centrifuga” innescata dai processi di decentramento sull’organizzazione imprenditoriale sono di-versificate sia nell’approccio regolativo, distinguendosi i sistemi che muovono da una prospettiva rimediale di contrasto alle pratiche elusi-ve connesse a tali processi, dai modelli normativi che hanno adottato una chiave di lettura più avanzata, con meccanismi regolativi struttura-ti che spaziano dalla responsabilità solidale alla parità di trattamento, dalla codatorialità alle responsabilità condivise .
Se gli ordinamenti di civil law, come è noto, hanno per lo più intra-preso percorsi centrati sull’unicità della figura datoriale, virando negli sviluppi più recenti verso un principio regolativo fondato sulle “re-sponsabilità congiunte” (nella disciplina in tema di sicurezza così come in materia di appalto e somministrazione, nei gruppi societari, nella contrattazione collettiva di rete/ distretto, etc.), i sistemi di common law si sono orientati verso il modello del “joint employment” riconoscendo la responsabilità delle imprese che esercitano una forma di influenza sui rapporti di lavoro, pur non configurandosi come parti contrattuali nella relazione di lavoro.
La matrice risarcitoria/rimediale che accomuna buona parte delle disposizioni regolative intervenute sui fenomeni di decentramento ed esternalizzazione, nelle loro pluriformi rappresentazioni, riflette un at-teggiamento sostanzialmente oppositivo dei legislatori nei confronti di tali prassi, in quanto considerate patologicamente elusive delle tutele e delle disposizioni lavoristiche. Prevalgono altrimenti tecniche punitive volte a proteggere i lavoratori dinanzi a tutti quei processi che muovo-no da istanze di “deresponsabilizzazione industriale”, quale principale movente della c.d. fabbrica multisocietaria.
Diversamente, negli sviluppi più recenti, sembrano farsi strada istanze centrate sull’esigenza di regolare tali fenomeni, intendendoli sia nella loro versione patologica che nella loro dimensione fisiologica.
Sullo sfondo l’esigenza di “perforare i nuovi ambiti d’immunità dei poteri datoriali e di individuare nuove regole primarie e secondarie di tutela di trasparenza” , sul presupposto che l’azione imprenditoriale organizzativa e gestionale è svolta entro confini sempre più ampi ri-spetto a quelli giuridico-organizzativi formali dell’impresa.
Qui si sono aperte due strade che, in questa sede, possiamo solo ri-chiamare .
Un primo percorso regolativo indugia sulla responsabilizzazione dell’impresa. Si tratta di un approccio regolativo che ha trovato terreno fertile di affermazione sia a livello internazionale che nazionale, varia-mente emergendo, pur nelle diverse tecniche, la necessità di ampliare il perimetro dei soggetti responsabili, a fronte della disarticolazione pro-duttiva ed organizzativa a cui ricorrono le imprese.
In questa prospettiva, che suggerisce l’adozione di una nozione fun-zionale di datore di lavoro, tale da permettere all’interprete di spingersi oltre lo stretto perimetro del rapporto contrattuale, rilevano le misure volte a riconoscere la responsabilità dell’impresa leader della filiera glo-bale, vuoi nei confronti dei lavoratori delle proprie sussidiarie, vuoi nei confronti dei lavoratori dei propri fornitori.
Alla base di questo percorso analitico vi è l’idea secondo cui le rela-zioni di potere tra imprese e, in particolare, il controllo esercitato dall’impresa dominante sulle altre imprese, può essere considerato il presupposto in ragione del quale attribuire la responsabilità giuridica all’impresa leader anche nei confronti dei dipendenti delle imprese con-trollate, o nei confronti delle quali l’impresa dominante esercita un’influenza significativa.
In questa direzione vanno lette le misure introdotte dagli Stati in at-tuazione dei Principi Guida dell’ONU sul business e i diritti umani che vede la Francia apripista con la legge francese sul devoir de vigilance del 27 marzo 2017 e, da qui, altri stati si sono attivati nella stessa direzio-ne. Da ultimo è intervenuta la Germania lo scorso 21 giugno 2021 promulgando il Supply Chain Due diligence Act del 21 giugno 2021. Di fondamentale importanza, proprio per segnalare un cambio di passo nel dibattito sulla responsabilizzazione delle imprese, è poi la Proposta di Direttiva in tema di due diligence del 10 marzo 2021.
Il secondo ambito di azione trova il suo nucleo costitutivo in quelle istanze di trasparenza e sostenibilità che animano sempre più le dina-miche del mercato, e che condizionano diffusamente le scelte strategi-che delle imprese.
Se, in principio, la società civile nelle sue varie forme più o meno orga-nizzate (ONG, Organizzazioni sindacali nazionali ed internazionali, or-ganizzazioni di consumatori ecc.) ha reagito dinanzi agli scandali, e alle violazioni dei diritti dei lavoratori perpetrate dai grandi gruppi econo-mici, con forme di boicottaggio e campagne di sensibilizzazione verso i consumatori, negli sviluppi più recenti le istituzioni nazionali e sovra-nazionali sono intervenute a vario titolo per definire standard di tra-sparenza e obblighi di reporting in capo alle società.
In questi termini si pone la Direttiva 2014/95/UE per quanto riguarda la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di in-formazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni. Lo scorso 21 aprile la Commissione ha presenta-to una proposta di Revisione della Direttiva sulle informazioni non fi-nanziarie (rinominata Direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità) al fine di rendere maggiormente incisive ed efficaci le previsioni in essa contenute.
Le ragioni di questo interventismo normativo sono evidentemente molteplici, ma possono ricondursi sia a fattori di “mercato”, vale a dire al peso crescente attribuito dagli investitori alla sfera reputazionale del-le imprese, nonché alla scelta di partner commerciali affidabili per evita-re di danneggiare l’immagine aziendale ed i suoi profitti, sia a fattori “morali”, che vanno identificati in una rinnovata attivazione di prassi sociali collettive e rivendicative volte a sensibilizzare la sfera pubblica (e giuridica in genere) a fronte delle più intollerabili “distorsioni” del mercato.

 

 

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