TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il caso
La sentenza che qui si commenta è l’ultimo atto, in ordine temporale, ma non il conclusivo, della vicenda relativa all’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica. I fatti risalgono all’anno scolastico 2008-2009 quando al Professor C., docente di ruolo presso un istituto professionale di Stato, veniva applicata la sanzione disciplinare della sospensione dall’insegnamento per 30 giorni perché, prima dell’inizio delle sue ore di lezione, rimuoveva il crocifisso appeso alla parete dell’aula, per poi riappenderlo al termine delle stesse, contravvenendo così a una circolare del dirigente scolastico che aveva recepito una richiesta di affissione del crocifisso proveniente dalla maggioranza degli alunni riuniti in assemblea.
La lunga e argomentata sentenza può essere divisa in tre parti: nella prima, la Corte si domanda se è compatibile con la Costituzione l’obbligo di esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche; nella seconda, viene affrontata la questione della possibilità di esporre il crocifisso, a seguito della richiesta degli studenti; nella terza, viene infine deciso se vi è stata o meno una condotta discriminatoria nei confronti del Professor C.
Nel presente commento si passeranno in rassegna le tre parti. Merita, tuttavia, di essere da subito sottolineata la ricca argomentazione della sentenza, che non solo richiama numerosi precedenti della Corte costituzionale, dei giudici di legittimità e dei tribunali amministrativi, ma si sofferma anche su rilevanti decisioni delle corti straniere e sovrannazionali, e dimostra una profonda conoscenza della dottrina in materia.
2. L’incompatibilità dell’obbligo di esporre il crocifisso con il principio di laicità dello Stato
La prima parte della sentenza è, a parere di chi scrive, la più condivisibile. Le sezioni unite fanno chiarezza su una serie di questioni centrali nel dibattito sulla presenza del crocifisso nelle aule della scuola pubblica.
In primo luogo, i giudici di legittimità si soffermano sul «quadro normativo fragile, sia per il grado non primario della fonte che detta esposizione contempla, sia, soprattutto, per l’epoca pre-costituzionale della emanazione della relativa disciplina, un’epoca segnata, tra l’altro, da un confessionalismo di Stato e da una struttura fortemente accentrata e autoritaria dello Stato stesso» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 7).
La Corte offre un’interpretazione conforme al dettato costituzionale degli artt. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e 119 R.D. 26 aprile 1928 n. 1297 che prevedono l’esposizione del crocifisso rispettivamente nelle aule delle scuole medie ed elementari.
Facendo riferimento all’interpretazione prevalente della dottrina , la Cassazione chiarisce che «il termine “istruzione media”, che compare sin dal titolo del regio decreto n. 965 del 1924, deve essere letto secondo la strutturazione del sistema scolastico al momento della introduzione della disciplina. E in quel contesto gli istituti medi di istruzione erano di primo e di secondo grado» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 11.2); di conseguenza, la disposizione deve ritenersi applicabile anche agli istituti superiori.
Occorre, tuttavia, considerare che, con l’avvento della Costituzione repubblicana, «l’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato. L’obbligo di esporre il crocifisso – prosegue la pronuncia in commento – è espressione di una scelta confessionale. La religione cattolica costituiva un fattore di unità della nazione per il fascismo; ma nella democrazia costituzionale l’identificazione dello Stato con una religione non è più consentita» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 11.6; in senso conforme v. Cass. pen., sez. IV, 1 marzo 2000, n. 4273).
Nell’argomentare questa posizione, la Cassazione ricorda le varie norme in cui si materializza il principio di laicità dello Stato. Richiamando la Corte costituzionale (30 settembre 1996, n. 334; 10 novembre 1997, n. 329), viene così chiarito che la religione non può considerarsi strumentale alle finalità dello Stato e che gli ordini dello Stato e delle confessioni devono tenersi necessariamente distinti.
Il principio di laicità impone poi alle pubbliche istituzioni di mantenere un’imparzialità e un’equidistanza nei confronti di tutte le religioni, indipendentemente dal maggiore o minore numero degli appartenenti all’una o all’altra di esse. Il pluralismo religioso, corollario del principio di laicità, si oppone dunque all’esposizione obbligatoria di un simbolo religioso, quale il crocifisso, che comporterebbe l’identificazione dello Stato con uno specifico credo (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 11.6; in senso conforme v. Cass. pen., sez. IV, 1 marzo 2000, n. 4273; Cass., sez.un., ordinanza 10 luglio 2006, n. 15614). La Cassazione precisa così che «il crocifisso è un simbolo religioso» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 11.8; in senso conforme v. Cass., sez.un., ord. 10 luglio 2006, n. 15614; Cass. pen., sez. IV, 1 marzo 2000, n. 4273; C. cost., 10 novembre 1997, n. 329), rigettando l’ondivaga giurisprudenza dei tribunali amministrativi sul significato “civile” di tale simbolo (v. in particolare C. Stato, sez. VI, 13 febbraio 2006, n. 556) .
L’affissione autoritativa del crocifisso non può neppure considerarsi un’esplicazione della libertà religiosa positiva: la libertà religiosa è infatti «una posizione giuridica soggettiva degli individui» e non del potere pubblico . Del pari, l’affissione autoritativa del crocifisso «comprime la libertà religiosa, nella sua valenza negativa, del non credente» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 11.6). Anche su quest’ultimo punto (la tutela della libertà religiosa negativa al pari della libertà religiosa positiva), la Cassazione richiama la copiosa giurisprudenza della Corte costituzionale (2 ottobre 1979, n. 117; 18 ottobre 1995, n. 440).
Sul principio di laicità (o neutralità) dello Stato vengono infine menzionate le decisioni del Tribunale costituzionale federale tedesco (decisione del 16 maggio 1995) e del Tribunale federale svizzero (sentenza del 26 settembre 1990), che hanno ritenuto non conformi a tale principio gli ordini di affissione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica.
Al termine di questa ricca argomentazione, le Sezioni unite concludono che, «in base alla Costituzione repubblicana, ispirata al principio di laicità dello Stato e alla salvaguardia della libertà religiosa positiva e negativa, non è consentita, nelle aule delle scuole pubbliche, l’affissione obbligatoria, per determinazione dei pubblici poteri, del simbolo religioso del crocifisso» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 30). Ciò tuttavia non si traduce «in un divieto di affissione del simbolo» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 13).
3. La libertà (?) degli studenti (quali?) di esporre il crocifisso (e anche altri simboli religiosi?)
«La disposizione regolamentare [l’art. 118 r.d. n. 965 del 1924] non può più essere letta come implicante l’obbligo di esporre il crocifisso nelle scuole, ma va interpretata nel senso che l’aula può accoglierne la presenza allorquando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, nel rispetto e nella salvaguardia delle convinzioni di tutti, affiancando al crocifisso, in caso di richiesta, gli altri simboli delle fedi religiose presenti all’interno della stessa comunità scolastica e ricercando un ragionevole accomodamento che consenta di favorire la convivenza delle pluralità» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 12.1). Con questa frase prende avvio la seconda parte della sentenza che, a parere di chi scrive, è fitta di dubbi.
In primo luogo, non è chiaro se la scelta (di esporre o meno il crocifisso o altro simbolo religioso) debba essere espressione della maggioranza degli alunni, come risulta dalla ricostruzione dei fatti, o se invece sia richiesta l’unanimità . La Cassazione specifica che la scelta deve essere effettuata «con la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti e con il metodo della ricerca del più ampio consenso» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 12.1). Tuttavia, per essere legittima, la decisione non può basarsi «sulla semplice applicazione della regola di maggioranza» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 19). «Privilegiare un approccio dialogante rivolto alla ricerca, in concreto, di una pratica concordanza con il più ampio consenso significa – prosegue la Corte (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 20) – non appiattirsi su una logica maggioritaria, dove i molti scelgono e decidono e i pochi soccombono». La libertà religiosa, appartenendo al novero dei diritti fondamentali, non può infatti essere governata dal criterio della maggioranza, ma deve essere garantita a ogni persona, quale che sia la confessione di appartenenza (C. cost., 18 ottobre 1995, n. 440 e 10 novembre 1997, n. 329).
La scelta non deve dunque essere espressione della maggioranza, ma deve tenere conto dell’opinione di tutti, senza che però sia riconosciuto «un potere di veto assoluto e paralizzante» al singolo (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 21.1). Invero, la regola di maggioranza, così come il potere di veto del singolo «non rispondono all’idea della tolleranza verso l’altro orientata dalla capacità di ascolto e dalla disponibilità di ciascuno di rendersi punto mediano e di mediazione tra due opposti apparentemente inconciliabili» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 21.1). Il problema è (e rimane) che, tra questi due poli estremi (la maggioranza pro-crocifisso e il singolo che non lo vorrebbe), le soluzioni possibili sono numerose. Come deve essere trovato il bilanciamento tra gli opposti interessi? È evidente che la risposta a questa domanda dipende dal tipo di interessi coinvolti; si tratta cioè di trovare, caso per caso, un equo contemperamento tra gli interessi in gioco, con una conseguente “leopardizzazione” della scuola pubblica .
Sorgono poi numerosi dubbi sul fatto che la richiesta di esporre il crocifisso rifletta una ‘vera’ scelta della comunità scolastica . Dalla ricostruzione dei fatti apprendiamo che nella classe vi erano «anche ragazzi musulmani e provenienti dall’Europa orientale» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 2). Sarebbe legittimo chiedersi se questi studenti del terzo anno delle superiori si sentissero veramente liberi di esprimere la loro opinione all’interno di una discussione in cui la maggioranza dei compagni (dobbiamo presumere, di religione cattolica e italiani) aveva espresso la volontà di esporre il crocifisso in classe. Ed è quando meno significativo che, nella scuola, nessuno studente professante una religione diversa dalla cattolica abbia richiesto l’esposizione del proprio simbolo religioso. Si sentiva davvero libero di chiederlo? Analogamente, potremmo chiederci se un insegnante non di ruolo avrebbe mai osato domandare al dirigente scolastico di affiggere sulla parete della classe il simbolo della propria religione o di rimuovere il crocifisso. Insomma, nel contesto scolastico, tutte le identità e le istanze religione hanno effettivamente il diritto di esprimersi?
Un altro aspetto non chiaro dell’impostazione proposta dalla Cassazione è quali siano i limiti della scelta della comunità scolastica: tale comunità può scegliere quello che vuole o invece ci sono delle scelte che non le sono consentite?
Sul punto, occorre in primo luogo domandarsi se la scelta di esporre il crocifisso in un’aula di una scuola pubblica può considerarsi espressione della libertà religiosa degli studenti, come pare dalla lettura della sentenza in commento . Abbiamo già detto che la libertà religiosa è una libertà del singolo, per avendo una dimensione collettiva tutelata. Diremo tra poco che riconoscere al singolo studente il diritto di vedere esposto il proprio simbolo religioso nelle aule di una scuola pubblica crea non pochi problemi. Quel che è certo è che il diritto del singolo di manifestare la propria religione non può tradursi nel vilipendio della fede da altri professata (Cass., sez. I, 17 aprile 2020, n. 7893), né può compromettere il principio di laicità dello Stato. Il bilanciamento degli opposti interessi in gioco non può dunque comportare il sacrificio della libertà religiosa altrui e del principio di laicità dello Stato.
Nel caso di specie, la Cassazione liquida la questione del rispetto del principio di laicità dello Stato con un’affermazione apparentemente apodittica: richiamando la decisione della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo in Lautsi , afferma che «il crocifisso appeso al muro di un’aula scolastica è un simbolo essenzialmente passivo, perché non implica da parte del potenziale destinatario del messaggio alcun atto, neppure implicito, di adesione ad esso» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 14.4). Il crocifisso non avrebbe dunque «una influenza sugli allievi paragonabile a quella che può avere un discorso didattico o la partecipazione ad attività religiose», né «interferisce con la possibilità di ciascun insegnante di prospettare la propria concezione del mondo, della vita e della posizione in esso occupata dall’uomo, o più in generale di manifestare le proprie convinzioni in materia religiosa nell’ambito scolastico» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 14.4).
Quello del carattere passivo del crocifisso è uno dei passaggi più criticati nella sentenza Lautsi , su cui il giudice Malinverni ha espresso opinione dissenziente (a cui ha aderito la giudice Kalaydjieva). Si tratta infatti di un’affermazione del tutto indimostrata, su cui la Seconda Sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo si era espressa in modo opposto . Nell’opinione dissenziente di Malinverni si fa notare poi la contraddittorietà dell’argomentazione della Corte che, in un caso precedente, aveva ritenuto che il velo islamico indossato da una docente potesse essere considerato come «segno esterno forte» .
L’apoditticità dell’affermazione sul carattere passivo del crocifisso è sorprendente anche alla luce dei tanti precedenti giurisprudenziali richiamati dalle sezioni unite che sottolineano la particolare rilevanza del principio di laicità nella scuola pubblica che è obbligatoria per tutti, a prescindere dalla religione (Tribunale federale svizzero, sent. 26 settembre 1990), e mettono in luce come, in virtù di tale principio, il luogo pubblico debba essere «neutrale» e tale debba permanere nel tempo (Cass. pen., sez. IV, 1 marzo 2000, n. 4273).
Occorrerebbe poi domandarsi se la laicità per addizione (o laicità pluralista) possa effettivamente realizzare «la massima espansione della libertà di tutti» (Corte cost., 7 marzo 2017, n. 67 e n. 254/2019). Si è già detto che è quantomeno dubbio che tutti dispongano di un’effettiva libertà di richiedere l’esposizione del proprio simbolo religioso. Visto il numero indefinito delle religioni, e dunque dei relativi simboli, potrebbe poi sorgere un problema di spazi e di collocazione all’interno della parete. Vi potrebbero anche essere religioni che non hanno simboli e che dunque non potrebbero beneficiare della sommatoria. Non è da escludere poi che vi sia un conflitto tra i diversi simboli religiosi; l’esposizione di un simbolo potrebbe cioè offendere i fedeli di altro credo. La presenza del simbolo religioso (o dei simboli religiosi) pare infine inconciliabile con la posizione dell’ateo o dell’agnostico che, appunto, quel simbolo (o quei simboli) rifiuta, e che, a sua volta, non si identifica in alcun simbolo .
Stridono altresì con la «laicità per addizione» i richiami alle «profonde radici cristiane» del nostro paese e sul carattere universale dei valori richiamati dal crocifisso, come tali condivisibili «anche da chi non è credente» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 11.8). La laicità dovrebbe infatti tradursi, per usare le stesse parole della Cassazione, «nel riconoscimento a tutti del pari pregio dei singoli convincimenti etici nella costruzione e nella salvaguardia di una sfera pubblica nella quale dialogicamente confrontare le varie posizioni presenti nella società pluralista» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 13.1). Perché dunque i valori richiamati dal crocifisso, e non quelli evocati da altri simboli religiosi, dovrebbe avere carattere universale?
Vi è infine un problema nell’uso dell’accomodamento ragionevole, strumento che, nel nostro ordinamento, si lega al diritto antidiscriminatorio (v. infra), ma che la Cassazione utilizza solo come garanzia procedurale . A parere dei giudici di legittimità, l’accomodamento ragionevole va inteso come «ricerca, insieme, di una soluzione mite, intermedia, capace di soddisfare le diverse posizioni nella misura concretamente possibile, in cui tutti concedono qualcosa, facendo, ciascuno, un passo in direzione dell’altro» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 19).
In questo modo, le Sezioni unite slegano il mezzo (l’accomodamento ragionevole) dal fine a cui esso è strumentale (la tutela del diritto a non subire discriminazioni), con l’effetto paradossale di dichiarare l’illegittimità della circolare del dirigente scolastico che aveva ordinato l’esposizione del crocifisso e l’invalidità della sanzione disciplinare inflitta al docente, senza però rilevare, come si dirà subito, alcuna discriminazione. L’accomodamento ragionevole diviene un mero obbligo procedurale, la ricerca di un «equo contemperamento» tra la pluralità di interessi e dei valori in gioco . L’illegittimità della circolare dipende perciò dal fatto che il dirigente scolastico non aveva aiutato gli studenti e il docente «a trovare una soluzione di compromesso da tutti sostenibile e rispettosa delle diverse sensibilità» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 22), e non dalla violazione del diritto antidiscriminatorio che, appunto, per la Corte non c’è stata.
La Cassazione giunge anche a prospettare tre modalità di esposizione del crocifisso ritenute ragionevoli: l’affissione, accanto al crocifisso, di un simbolo o una frase capace di testimoniare l’appartenenza al patrimonio della nostra società anche della cultura laica; la diversa collocazione spaziale del crocifisso; l’uso non permanente della parete, con il momentaneo spostamento del crocifisso in modi formalmente e sostanzialmente rispettosi del significato del simbolo per la coscienza morale degli studenti, durante l’orario di lezione dell’insegnante dissenziente (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 22). Quest’ultima pare proprio la condotta tenuta dal Professor C. il quale, tuttavia, a parere della Cassazione, non ha subito alcuna discriminazione. E arriviamo così alla terza parte della sentenza.
4. Il sindacato antidiscriminatorio
In tutte le fasi giudiziarie della vicenda in esame, il diritto antidiscriminatorio ha subito un vero e proprio maltrattamento. Il Tribunale di Terni (sent. 29 marzo 2013, n. 122) si è soffermato sulla mancanza di intento discriminatorio, quando ben sappiamo che l’accertamento della sussistenza di una discriminazione prescinde dalla volontà del soggetto che ha posto in essere la condotta. La Corte di appello di Perugia (sent. 19 dicembre 2014, n. 165) ha ritenuto che l’ordine di servizio, in quanto indirizzato all’intero corpo docente, non abbia realizzato alcuna disparità di trattamento. Per lo stesso motivo (il carattere generale dell’ordine), la sezione lavoro della Cassazione ha ritenuto configurarsi una discriminazione indiretta. Questa convinzione è mantenuta anche dalle Sezioni unite che, in più, svincolano l’accomodamento ragionevole dalla tutela del diritto a non subire discriminazioni .
Per fare un po’ di chiarezza sul sindacato antidiscriminatorio è opportuno ribadire che «il diritto a non subire discriminazioni in ragione della religione copre ogni tipo di confessione religiosa, ma si applica anche all’ateo, all’agnostico, allo scettico o all’indifferente. Il diritto a non subire discriminazioni in ragione della religione è cioè uno strumento fondamentale per garantire la libertà religiosa, in tutte le forme in cui essa può manifestarsi» .
Occorre poi domandarsi se la circolare con cui si imponeva che il crocifisso fosse fissato alla parete (così da non potere essere temporaneamente rimosso dal docente) configurasse una discriminazione diretta o indiretta. Abbiamo già detto che, secondo la Cassazione (che richiama Achibita e Bougnaoui ), si tratterebbe di una discriminazione indiretta perché la circolare è indirizzata a tutto il corpo docente. La posizione della Corte di giustizia nelle due pronunce evocate (ribadita in WABE ) è stata contestata in dottrina, che ha messo in luce il carattere solo apparentemente neutro della condotta del datore di lavoro . Non pare, tuttavia, che nel caso di specie la circolare del dirigente scolastico possa dirsi neutra: si tratta infatti di un ordine di esposizione di un simbolo religioso .
A parere della Corte di giustizia, quando un datore di lavoro tratta un lavoratore meno favorevolmente di quanto lo sia, lo sia stato o lo sarebbe un altro dei suoi lavoratori in una situazione analoga e, alla luce di tutte le circostanze pertinenti del caso, consta che tale trattamento sfavorevole è effettuato sulla base di un fattore protetto, in quanto si basa su un criterio «inscindibilmente legato» a tale fattore, «un trattamento del genere è contrario al divieto di discriminazione diretta» (C. giust., 26 gennaio 2021, C-16/19, Szpital Kliniczny, § 48). È indubbio che il trattamento subito dal Professor C. sia inscindibilmente legato alla religione.
A parere della Cassazione, tuttavia, non vi è stato svantaggio perché, con l’esposizione del crocifisso, «il datore di lavoro pubblico non ha aderito ai valori della religione cattolica, né ha costretto o indotto i docenti non cattolici a svolgere l’attività di insegnamento in nome di valori propri di quel credo religioso, spingendoli ad allinearsi a, o a misurarsi con, una convinzione di fede che non è la loro» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 28.1). Non vi è alcuna evidenza, prosegue la Corte, che l’esposizione del crocifisso «sia suscettibile di evidenziare un nesso confessionale tra insegnamento e valori del cristianesimo» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 28.1).
Abbiamo già detto che questa affermazione è espressa in maniera apodittica (e difatti, la Sezione lavoro della Cassazione aveva concluso in maniera opposta) . Dobbiamo aggiungere ora che, nel giudizio antidiscriminatorio, un’affermazione del genere deve essere provata e che, a fronte di un trattamento che appare discriminatorio perché fondato su un fattore vietato e che ha creato un disagio al docente, l’onere di provare l’assenza dello svantaggio ricade sul datore di lavoro. Quale prova ha prodotto la scuola per dimostrare che il crocifisso è un simbolo passivo?
Altrove si è anche precisato che, per i docenti della scuola pubblica, il dovere di non interferenza del datore di lavoro rispetto alla libertà religiosa è ancora più marcato perché deve essere loro garantita la libertà di insegnamento, «intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente» (art. 1, d. lgs. n. 298/1994) . Quali sono gli elementi da cui risulta che la libertà e l’autonomia didattica del docente non sono stati pregiudicati?
Perché poi il fatto che l’affissione del crocifisso risultasse sgradita al docente non è sufficiente a configurare uno svantaggio? È certo che l’esposizione del crocifisso non ha prodotto l’effetto di convertire il docente al cattolicesimo, ma possiamo davvero dire che non gli ha prodotto alcun disagio il fatto di svolgere la propria attività in un ambiente connotato da un simbolo religioso? Non è prova sufficiente di tale disagio il fatto che il docente abbia, autonomamente (in autotutela), tenuto proprio quella condotta che le sezioni unite ritengono configurare un accomodamento ragionevole degli interessi in gioco?
A parere delle sezioni unite, «la percezione soggettiva del ricorrente non può da sola essere sufficiente a caratterizzare, e a integrare la situazione di particolare svantaggio» (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 28.2). L’affermazione non pare condivisibile: basti pensare che il diritto antidiscriminatorio prevede anche la molestia, ovvero un comportamento indesiderato, posto in essere per motivi di religione, avente «lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo» (art. 2 co. 3 d. lgs. 216/2003). I giudici di legittimità non ritengono che la presenza del crocifisso abbia creato un clima ostile perché questo è un simbolo passivo. Abbiamo già detto che questa affermazione, su cui si basa gran parte del ragionamento della Corte, è del tutto indimostrata.
I giudici di legittimità affermano altresì che, se «la presenza del crocifisso fosse suscettibile di connotare l’esercizio della funzione pubblica che si svolge nelle aule e di evidenziare che l’insegnamento si esercita sotto l’ala protettrice della fede», allora non vi potrebbe mai essere spazio per il crocifisso in un’aula scolastica (Cass., sez. un., 6 luglio 2021, n. 24414, § 28.1). Abbiamo già detto che la compatibilità della scelta della classe di esporre il crocifisso con il principio di laicità avrebbe dovuto essere verificata, evitando affermazioni apodittiche. Dobbiamo qui aggiungere che, nel caso di specie, si trattava semplicemente di «tutelare, nella fattispecie concreta, il diritto a non subire discriminazioni, imponendo le condotte necessarie al rispetto di tale diritto» . Non si discuteva, insomma, del divieto di esporre il crocifisso in virtù del principio di laicità dello Stato, ma del diritto del docente ateo di svolgere la propria attività non alla presenza di quel simbolo.
Sorprendente è poi il modo in cui il caso di specie viene distinto da quello del Sole delle Alpi in cui il Tribunale di Brescia aveva riconosciuto che la possibilità del docente di operare in un ambiente laico era in modo radicale pregiudicata dall’esposizione del simbolo politico, «dovendo confrontare un modello educativo per sua natura ‘aperto’ (ossia capace di porsi in relazione dialettica con una pluralità di istanze educative) con una situazione che invece tale apertura sminuisce e contraddice, suggerendo la prevalenza di una visione di parte» (Trib. Brescia, 29 novembre 2010, n. 2798). A parere della Cassazione, la vicenda bresciana si distingue da quella in commento perché là si trattava di un simbolo di un partito politico, mentre qui si discute di un simbolo religioso che si lega all’esperienza vissuta di una comunità e alla tradizione culturale di un popolo. Sembra dunque che l’esito del giudizio sarebbe stato diverso in caso di esposizione di un altro simbolo religioso, non espressione della tradizione culturale italiana. Ma allora che fine fa la laicità per addizione che deve garantire l’aggiunta di simboli di varie religioni, poste sullo stesso piano?
Ritorniamo infine agli accomodamenti ragionevoli. Ai sensi dell’art. 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (richiamata dall’art. 3 co. 3 bis d. lgs. 216/2003 che recepisce l’art. 5 dir. 2000/78), «per “accomodamento ragionevole” si intendono le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». In senso lato, l’accomodamento ragionevole si può indentificare con le misure da adottare per evitare che «some individuals, because of an inherent characteristic (for instance, disability, sex, age, race, culture or language), face barriers to full participation in society on an equal footing» .
Qualora volessimo applicare il rimedio dell’accomodamento ragionevole (che, ripetiamo, nel nostro ordinamento è espressamente previsto solo per la disabilità) al fattore religione , dovremmo affermare che il datore di lavoro ha l’obbligo di adottare misure per consentire a chi pratica una certa religione (il sikh, nel caso Multani) di non subire uno svantaggio dall’applicazione di una regola generale e astratta (il divieto di portare armi, nel caso Multani) .
Nella vicenda in esame, la regola generale (l’obbligo di esposizione del crocifisso) è stata ritenuta, dalla Cassazione, incompatibile con il principio di laicità dello Stato (v. supra). Si potrebbe comunque considerare che la regola stabilita dalla maggioranza degli studenti della classe, e recepita dal dirigente scolastico, di esporre il crocifisso ha posto il decente ateo in una posizione di svantaggio, con il conseguente obbligo per il datore di lavoro di adottare le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati per garantire a chi non professa la religione cattolica il godimento e l’esercizio, su base egualitaria, della propria libertà religiosa.
Come affermato in giurisprudenza, l’onere di provare l’esatto adempimento di tale obbligo grava interamente sul datore di lavoro, non spettando «al lavoratore, o tanto meno al giudice, individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli» (Cass., sez. lav., 9 marzo 2021, n. 6497). Qualora il datore di lavoro non provi l’adempimento dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, si deve concludere che vi è stata violazione del divieto di discriminazione .
Nel caso di specie, le Sezioni unite ritengono che l’accomodamento ragionevole sia la procedura da seguire per garantire l’equo contemperamento degli interessi in gioco. Un rimedio configurato per garantire l’effettiva tutela di un diritto sostanziale (il diritto a non subire discriminazioni) si trasforma così in un mero obbligo procedurale. Di conseguenza, nonostante l’illegittimità della circolare del dirigente scolastico (per violazione della corretta procedura) e la conseguente invalidità della sanzione disciplinare inflitta al docente, questi non ha ottenuto alcuna soddisfazione del suo diritto soggettivo a non subire discriminazioni basate sulla religione. Eppure aveva fatto proprio quello che le sezioni unite hanno suggerito di fare e ha perseverato per più di vent’anni per sentirselo dire.

 

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