TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Confesso che ho accettato senza entusiasmo l’invito del Direttore Martello di unire la mia ad altre voci per un (breve) commento di questa Proposta (da qui, Direttiva) anzitutto perché ho da subito trovato in essa accentuate la verbosità, ripetitività, uso di un linguaggio approssimativo e scarsamente tecnico-giuridico purtroppo ricorrenti nella fonte comunitaria.
Attesa l’insistenza con cui nella Relazione e nei Considerando si parla espressamente di “subordinazione” e di “lavoratori subordinati” nonché di “subordinazione giuridica” (Considerando n. 24) è difficile dubitare che i redattori della Direttiva si siano collocati nella prospettiva dell’attrazione di ogni lavoro svolto tramite piattaforme nell’ambito delle tutele previste, in particolare, nel nostro ordinamento, per i rapporti riconducibili alla fattispecie dell’art. 2094 c.c. e quindi in una prospettiva di pan-subordinazione assai poco “giuridica”. Anche per questo è difficile altresì fugare l’impressione che gli Uffici della Commissione Europea abbiano potuto valersi del contributo di qualche brillante mente di formazione dottrinale italica, votata alla esplorazione di un “diritto del lavoro neo-moderno” .
Nel testo della Direttiva tuttavia si parla sempre, e solo, genericamente, di “contratto di lavoro o rapporto di lavoro” e di “lavoratori”. Ciò, verrebbe a prima vista da pensare, per una sorta di self restraint suggerito dalla consapevolezza che, al di là della libera circolazione, non esiste, né può esistere, una nozione comunitaria di lavoratore subordinato, essendo essa lasciata alla “<sussidiarietà>, cioè ai legislatori nazionali, in quanto funzionale all’applicazione di alcuni statuti garantistici del diritto comunitario in sede di trasposizione delle direttive di armonizzazione dell’Unione” .
Del resto, ripetendo quanto a più riprese compare nella Relazione e nei Considerando, la Direttiva precisa di avere come destinatarie “tutte le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali nell’Unione e che hanno, o che sulla base della valutazione dei fatti si può ritenere abbiano un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore negli Stati membri, tenuto conto della giurisprudenza della Corte di giustizia”.
Ma la delega ai legislatori nazionali notoriamente è spesso accompagnata da “una serie di limiti posti dallo stesso legislatore sovranazionale”; limiti intorno ai quali la Corte di giustizia suole svolgere poi le sue operazioni ermeneutiche. Pertanto il richiamo al suo ruolo quale arbitro di quei limiti prova che il self restraint testuale della Direttiva è meramente terminologico e dove è scritto lavoro tout court deve intendersi, in realtà, lavoro subordinato, per così dire, all’italiana.
Non a caso, peraltro, la Direttiva va ben oltre la posizione di limiti ai poteri (discrezionali) degli Stati membri. Impone loro infatti di introdurre una presunzione di lavoro subordinato, o comunque di lavoro destinatario delle tutele per esso previste negli ordinamenti interni, in presenza di taluni elementi dell’attività, alcuni dei quali intrinseci a qualsiasi prestazione di servizi . Viene, è vero, precisato enfaticamente che dovrà essere solo una presunzione semplice . Ma se la prova contraria dovesse ritenersi ammissibile solo per negare la sussistenza di tali elementi, essendo essi costitutivi della presunzione, non si tratterebbe di vera prova contraria e di presunzione semplice ma di presunzione iuris et de iure.
Se invece la prova contraria, come postulato da una presunzione semplice, potesse riguardare altri elementi, la questione qualificatoria si riaprirebbe giacché resterebbe da individuare gli elementi idonei a fondare la prova contraria.
Ma non è quel che la Direttiva pare visualizzare. Avendo come dichiarato obiettivo, con riguardo “alle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali, “la corretta determinazione della loro situazione occupazionale”, pare piuttosto sollecitare, almeno per tali persone, sulla base degli elementi pur indicati come fondativi di una presunzione semplice, per quanto ci riguarda, una riscrittura, (o una sterilizzazione), dell’art. 2094 del nostro codice civile. Con l’avvertenza, volendo attribuire valenza a quanto implicitamente ma chiaramente risulta dal Considerando n. 25, che gli elementi idonei a contrastare la presunzione non possono essere “la libertà di scegliere l’orario di lavoro o i periodi di assenza, di rifiutare incarichi, di ricorrere a subappaltatori o sostituti o di lavorare per terzi” malgrado sia riconosciuto che tale libertà “è una caratteristica del vero lavoro autonomo”.
Di più, a complicare lo scenario, mentre a tutto l’impianto della Relazione e dei Considerando, appare sottesa la manichea contrapposizione lavoro subordinato/lavoro autonomo (genuino), si ammette (Considerando n.19) l’eventualità che “la situazione occupazionale corretta corrisponda al lavoro autonomo o a una forma di lavoro intermedia (neretto mio) quali definiti a livello nazionale”, nel qual caso “dovrebbero applicarsi i diritti e gli obblighi pertinenti per tale situazione occupazionale”. Tipo, nel nostro ordinamento, la collaborazione coordinata e continuativa senza subordinazione.
Leggendo la Direttiva non si può tuttavia ignorare che le opinioni, nei palazzi di Bruxelles, sono assai radicali quanto alla preponderanza della fonte comunitaria nei confronti di quelle interne di qualunque livello.
Per rendersene conto è utile, uscendo dal tema specifico, fermare l’attenzione su una recentissima sentenza della CGUE riguardante l’applicazione di una Direttiva la quale, nell’imporre l’introduzione di un divieto, rileva la Corte, ”concede agli Stati membri un certo margine di discrezionalità nel definire il regime sanzionatorio applicabile in caso delle violazioni nazionali adottate in attuazione“ della Direttiva stessa; ma, aggiunge, “un siffatto margine di discrezionalità trova i propri limiti nel divieto, enunciato in termini generali e inequivocabili da detta disposizione, di prevedere sanzioni sproporzionate”.
Dunque, prosegue la, Corte [essendo il requisito di proporzionalità incondizionato e sufficientemente preciso, quindi idoneo a produrre un effetto diretto], il giudice, pur non potendo adottare “un’interpretazione contra legem del diritto nazionale”, deve tuttavia “garantire la piena efficacia delle prescrizioni [del diritto dell’Unione] nell’ambito della controversia di cui è investito disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi normativa o prassi nazionale, anche posteriore, contrarie a una disposizione del diritto dell’Unione che abbia effetto diretto, senza dover chiedere o attendere la previa rimozione di tale normativa o prassi nazionale in via legislativa o mediante un qualsiasi altro procedimento costituzionale”. La Corte conclude che in tal caso “è sufficiente disapplicare le disposizioni nazionali nei soli limiti in cui esse ostano all’irrogazione di sanzioni proporzionate, al fine di garantire che le sanzioni irrogate all’interessato siano conformi a tale requisito”, con la conseguenza che rientra nei poteri dello stesso giudice ricondurle a proporzione.
Ponendo abilmente l’accento sulla disapplicazione parziale (“nei soli limiti”) la Corte consegue il risultato di distogliere l’attenzione dal preconizzato contenuto di un’operazione giudiziale che oggettivamente si sostanzia nella creazione della nuova norma avente come contenuto la sanzione proporzionata (senza che il legislatore nazionale gliene abbia attribuito il potere). La Corte può così passare a tranquillizzare gli Stati membri: “siffatta interpretazione non è messa in discussione dai principi della certezza del diritto, della legalità dei reati e delle pene nonché della parità di trattamento”.
Temo allora che tutto sia apparecchiato per un diritto sempre più “liquido” . Difficile infatti che possa valere a porre un argine la recente riconferma, da parte delle S. U. della nostra Suprema Corte che, il giudice non può creare nuove norme: “se è certo che la funzione assolta dalla giurisprudenza è di natura dichiarativa, per essere riferita ad una preesistente disposizione di legge, della quale è volta a riconoscere l’esistenza e l’effettiva portata, con esclusione di qualunque efficacia direttamente creativa, è altrettanto certo che l’attività interpretativa, anche se non consente di superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, consiste nel compito di contribuire a determinare l’effettivo contenuto della disposizione, alla luce e in applicazione dei principi generali dell’ordinamento, fissati dalla Costituzione, dalle Carte sovranazionali e internazionali e dal complesso di disposizioni che lo compongono”
Spero di non apparire irriverente se continuo a sostenere che il superamento o meno dei “limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato”, id est la distinzione tra interpretazione <orientata> di una norma e creazione di una norma nuova, dipende dalla quantità e qualità della manipolazione dell’enunciato. E che, su questo terreno quel che, alla stregua della c.d. Costituzione materiale, può ritenersi concesso al Giudice delle leggi non dovrebbe potersi ritenere concesso anche al giudice ordinario.
Tornando alla Direttiva, posso ora esporre la ragione principale della mia riluttanza a commentarla. Ed è la consapevolezza che ogni riflessione critica su di essa e sulla materia che ne è oggetto è destinata a risolversi in uno sterile esercizio scolastico. Tutto depone infatti perché l’operazione ermeneutica condotta dalla Suprema Corte sull’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015 nell’esclusiva ottica dei diritti con obliterazione dell’ottica dei doveri sia vista (e adottata) da dottrina e giurisprudenza quale salutare conformazione, per così dire preventiva, del nostro ordinamento alla fonte comunitaria.