TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Il caso.
L’ordinanza in esame è di particolare interesse perché fonda l’annullamento del licenziamento per giusta causa – irrogato al lavoratore, per non essersi presentato in servizio presso la sede del soggetto distaccatario – sull’illegittimità del distacco.
L’assenza del lavoratore è stata ritenuta giustificata, priva di rilevanza disciplinare e non legittimante il recesso datoriale, con la conseguenza che la società convenuta è stata condannata alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e alla corresponsione di un’indennità, commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra, con il limite di 12 mensilità, in applicazione del regime della c.d. “tutela reintegratoria attenuata”, essendo il lavoratore stato assunto prima dell’entrata in vigore del Jobs Act.
Nel trattare la questione assume rilevanza centrale la condotta del lavoratore che rifiuta di prendere servizio presso la sede di destinazione, sulla base dell’illegittimità del distacco; tema strettamente connesso all’inadempimento di una delle parti del contratto a prestazioni corrispettive, nell’alveo del quale, come noto, è riconducibile, ai sensi dell’art. 2094 c.c., il contratto di lavoro.
1. Evoluzione giurisprudenziale dei requisiti legittimanti il distacco.
La disciplina giuslavoristica dell’istituto del distacco – mutuata dalle norme di diritto pubblico sul “comando presso altra amministrazione” di cui agli articoli 56 e 57 del DPR 10 gennaio 1957, n. 3 – è contenuta nell’articolo 30 del d.lgs. n. 276/2003, in base al quale ‹‹un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa›› . Pertanto, il legislatore consente di ricorrere alla fattispecie de qua qualora sussista lo specifico interesse, anche non esclusivo, ma comunque prevalente, dell’impresa distaccante di trasferire, temporaneamente, la prestazione professionale contrattualmente dovuta dal proprio dipendente presso il soggetto distaccatario .
L’evoluzione giurisprudenziale ha portato a ritenere che l’interesse datoriale al distacco, quale presupposto di legittimità dell’istituto, può anche essere di natura non economica o patrimoniale in senso stretto, ma di tipo solidaristico, e consistere, ad esempio, nell’utilità ad incrementare la polivalenza funzionale individuale dei lavoratori e a non disperdere il patrimonio professionale dell’impresa, specie se occasionato da un contesto di temporanea crisi aziendale .
Tale prospettiva è assai più ampia della precedente, consentendo l’utilizzo del distacco anche in una serie di ipotesi non necessariamente coincidenti con le “ragioni produttive”, propriamente dette e oggettivamente qualificate, come il mantenimento del rapporto di lavoro e l’opportunità di favorire la crescita professionale del proprio dipendente, intesa quale acquisizione di capacità lavorative differenti .
Del resto, la scelta del legislatore di utilizzare un’espressione generica (“per soddisfare un proprio interesse”) rende indispensabile, ai fini della valutazione circa la legittimità del distacco, un’indagine approfondita della fattispecie concreta da parte dell’interprete .
Qualora, peraltro, il distacco comporti un trasferimento ad un’unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il lavoratore è adibito non è più sufficiente che sussista l’interesse del distaccante, ma è necessaria la sussistenza di un requisito ulteriore e diverso, consistente nell’esistenza di ‹‹comprovate esigenze tecniche, organizzative, produttive o sostitutive›› a sostegno del provvedimento datoriale.
Infatti, l’art. 30, comma 3, del D.lgs. n. 276 del 2003 – sovrapponibile alla previsione dell’art. 2103, comma 8, codice civile, in materia di trasferimento – dispone che ‹il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive››.
Le predette ragioni – precisano entrambe le disposizioni – devono essere comprovate. Ciò significa che, laddove vengano contestate, grava sul datore di lavoro dimostrarne l’effettiva sussistenza in giudizio.
Tale requisito costituisce il presupposto individuato ex lege per il corretto esercizio del potere di conformazione in relazione al luogo di svolgimento della prestazione e prescindono, quindi, dall’interesse manifestato dal dipendente alla loro esistenza .
In assenza delle prescritte ragioni tecniche, organizzative e produttive, il distacco è illegittimo ed il rifiuto del lavoratore lecito .
2. Rifiuto del lavoratore al distacco e buona fede.
Tuttavia, la questione del rifiuto del lavoratore al distacco e dell’inadempimento contrattuale circa lo svolgimento della prestazione lavorativa richiede di essere più dettagliatamente illustrata.
L’art. 1460, comma 2, codice civile, secondo il quale ‹‹nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non può rifiutare l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario a buona fede››, esprime il principio dell’equivalenza tra l’inadempimento altrui e l’adempimento che viene rifiutato, affinché il primo giustifichi il secondo. Ad avviso della giurisprudenza di legittimità, occorre procedere ad una comparazione degli opposti inadempimenti, avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto ed alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse.
Pertanto, il rifiuto del lavoratore al distacco, per essere legittimo, deve essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, configurandosi altrimenti l’arbitrarietà dell’assenza dal lavoro .
Per contro, si è escluso che il rifiuto del lavoratore, per risultare legittimo, debba sempre essere preventivamente avallato in via giudiziale per il tramite eventualmente dell’attivazione di una procedura in via d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c., in quanto ciò significherebbe porre a carico del lavoratore un onere di entità non indifferente e ciò in difetto di una specifica previsione normativa che lo supporti .
Tra gli elementi che possono agevolare l’indagine volta a verificare che il rifiuto del lavoratore non sia contrario al principio di buona fede viene dato rilievo alla ‹‹concreta incidenza dell’inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale e formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore sull’organizzazione aziendale e più in generale sulla realizzazione degli interessi aziendali›› .
Chiarita la liceità della condotta del lavoratore, il recesso datoriale fondato sulle assenze ingiustificate, che ingiustificate non sono, segue le sorti della dichiarazione di illegittimità del distacco .
3. Conclusioni.
L’ordinanza si inserisce, quindi, nel filone giurisprudenziale in base al quale il mutamento della sede lavorativa deve essere giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, in mancanza delle quali è configurabile una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore, sia in attuazione dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento in giudizio (Cass. 24/07/2017, n. 18178; Cass. 16/05/2013 n. 11927; Cass. 30/12/2009 n. 27844).
Il Giudice del Lavoro ha dapprima valutato la sussistenza dei requisiti legittimanti il ricorso al distacco, ritenendo il provvedimento datoriale privo sia del giustificato interesse, specifico e temporaneo, al distacco del lavoratore, sia delle “comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive” necessarie ai sensi dell’art.30, comma 3, del D. Lgs. n. 276/2003.
Per non incorrere nella violazione dell’art. 30 del D. Lgs. n. 276/2003, il datore di lavoro avrebbe dovuto dettagliare le problematiche per la soluzione delle quali si rendevano necessarie le competenze del lavoratore e dimostrare che tale elemento fosse prevalente sull’interesse del soggetto ospitante, giudicato, invece, prevalente dal Tribunale di Brescia.
Mentre, sotto il profilo della condotta posta in essere dal lavoratore, lo stesso aveva tempestivamente comunicato alla datrice di lavoro il proprio rifiuto al richiesto distacco, rendendosi disponibile a svolgere la prestazione di lavoro, anche con attribuzione di mansioni diverse, presso la sede originaria.
Pertanto, l’assenza dal lavoro che era stata addebitata a motivo del recesso è stata giustificata ai sensi dell’art. 1460 codice civile, con la conseguenza che tale condotta fosse priva di rilevo disciplinare e non potesse, quindi, legittimare il licenziamento.