Fra i numerosi motivi di interesse della sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale, mi soffermerò su quello concernente l’innesto di enunciazioni di principio e argomenti adoperati in tema di automatismi legislativi in un consolidato indirizzo giurisprudenziale sul diritto al lavoro.
L’articolo 3, comma 1, d.lgs.n. 23 del 2015 viene infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo anzitutto per violazione del principio di eguaglianza, avendo ancorato l’indennità da licenziamento ingiustificato all’unico parametro dell’anzianità di servizio nonostante la prassi, la giurisprudenza e la stessa legislazione pregressa dimostrino come l’anzianità sia solo uno dei fattori da cui dipende il pregiudizio arrecato al lavoratore dal licenziamento ingiustificato, dovendosi considerare altresì le dimensioni dell’attività economica, il numero dei dipendenti occupati, il comportamento e le condizioni delle parti.
Per giunta, osserva sempre la Corte, la disposizione censurata si discosta da una costante tendenza legislativa “proprio quando viene meno la tutela reale”, salvo i casi indicati dal secondo comma dello stesso art. 3. E in “una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima. All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza. La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse”.
Sono enunciazioni che chiamano direttamente in causa la configurazione costituzionale del diritto del lavoro come diritto posto a tutela del contraente debole, all’indomani di una riforma che, almeno per le censure sollevate, aveva spostato l’equilibrio fra le parti a favore del datore di lavoro.
E’ vero che il terreno era in parte già arato da precedenti giurisprudenziali (richiamati al § 9.1.) nonché per altro verso da una legislazione che aveva a lungo ancorato a una pluralità di criteri la commisurazione dell’indennità. E tuttavia, se argomenti e tecniche erano disponibili, la soluzione non era per ciò stesso segnata.
Se il lunghissimo dibattito politico e mediatico che aveva preceduto la riforma del 2014-2015 si era incentrato sulla reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, peraltro già notevolmente ridimensionata da successive modifiche legislative, l’autentica posta in gioco della riforma era in realtà costituita dalla certezza dell’imprenditore in ordine all’ammontare dell’indennità da corrispondere al lavoratore colpito da licenziamento illegittimo. E una risposta inequivoca era stata fornita prima dalla nuova figura del contratto a tutele crescenti disegnata dalla legge di delegazione, dove si parla di “indennizzo certo e crescente” (art. 1, comma 7, lett. c), l.n. 183 del 2014), e poi dal decreto legislativo col ricorso al criterio dell’anzianità di servizio.
Che quella fosse la posta in gioco, lo si ricava per la verità dai passi della motivazione in cui la Corte rigetta la censura di violazione dell’eguaglianza ratione temporis, dove la ragionevole differenziazione fra lavoratori assunti prima e dopo l’entrata in vigore della disciplina impugnata viene ancorata alla dichiarata finalizzazione de “la predeterminazione e l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato”, ossia “di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo”, allo scopo di “favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo, e, in particolare, a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato” (§ 6.).
Il passo presenta una duplice valenza. Anzitutto, l’insufficienza di una differenziazione ratione temporis (ovvero fra lavoratori assunti prima e lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore della legge) ai fini della dichiarazione di illegittimità per violazione del principio di eguaglianza. La Corte è stata sul punto criticata per non aver voluto colpire le diseguaglianze che ne derivano, senza considerare però due elementi. Il primo è costituito dalla stessa giurisprudenza costituzionale, un tempo attestata sul mero rigetto di censure incentrate su diseguaglianze fra eguali situazioni soggettive prodotte da modifiche introdotte in via legislativa ed oggi invece, come attesta la sentenza in esame, volta a richiedere una ragionevole giustificazione della differenziazione. Il secondo elemento, connesso al primo e ancora più importante, è costituito dalle conseguenze di natura ordinamentale che scaturirebbero dall’accoglimento di ogni censura relativa a differenziazioni operate dal legislatore ratione temporis in quanto tali. E’ evidente che un tale indirizzo equivarrebbe a bloccare qualsiasi scelta legislativa, qualsiasi innovazione che si proponesse di modificare lo status quo ante, in un rilevantissimo numero di casi, con una altrettanto rilevante ricaduta di natura ordinamentale: la capacità del legislatore di innovare al diritto oggettivo ne sarebbe vulnerata irreversibilmente. Questo non vuol dire, naturalmente, che tali innovazioni possano risultare arbitrarie. Ma l’arbitrarietà è vizio che la Corte può colpire a seguito di uno scrutinio fondato sulla ragionevolezza della scelta legislativa compiuta nella specie, e in particolare del fine che il legislatore intendeva perseguire. Che è esattamente il tipo di scrutinio cui la Corte ha
fatto ricorso nel passo in esame.
Ecco perché non me la sento di criticare il rigetto di quella censura, su cui si sono addensate le obiezioni di una parte dei commentatori. Né per la stessa ragione, me la sentirei di criticare per incoerenza l’accoglimento delle successive censure fondate sulla lesione dell’eguaglianza e della ragionevolezza in quanto tali. Certo, i termini del bilanciamento vengono esposti in maniera più sfumata: la misura dell’indennità è connotata, “oltre che come «certa», anche come rigida, perché non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio” (§ 12.1.), e pertanto “non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro” (§ 12.3.).
Nondimeno, la diversa prospettazione dei termini del bilanciamento corrisponde all’oggetto delle censure. Perché se al momento di valutare la violazione dell’eguaglianza ratione temporis la Corte poteva addurre la congruità della differenziazione operata all’obiettivo generale perseguito dalla legge, nell’esaminare la disparità di trattamento fra lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore della legge in ragione di “un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse”, lo scrutinio doveva concentrarsi sulla violazione del nucleo primario, soggettivo, dell’eguaglianza, e non poteva pertanto non diventare più stretto. Si passa insomma, anche se la Corte non lo dice, da uno scrutinio deferential, come quello che per le ragioni esposte non può non riguardare le differenziazioni ratione temporis, allo strict scrutiny.
Le enunciazioni di principio che sorreggono la ritenuta violazione del nucleo primario e soggettivo dell’eguaglianza vengono riaffermate in sede di esame della ragionevolezza sub specie di “adeguatezza del risarcimento forfetizzato” a “realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto”, dove la Corte esclude una valutazione in termini quantitativi, fondata sulla idoneità del limite delle mensilità fissato quale soglia massima del risarcimento ad assicurare quel contemperamento, e ritorna sulla rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio.
Anche se la Corte non impiega il termine “automatismi”, i passi riportati autorizzano a collocare la pronuncia nell’ampio filone giurisprudenziale che colpisce i casi nei quali la legge impugnata configura, appunto, “un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse”, dove “all’irragionevole automatismo legale occorre dunque sostituire, quale soluzione costituzionalmente più congrua, una valutazione concreta del giudice” (fra le altre, sent.n. 7 del 2013).
In realtà, come hanno precisato giovani costituzionalisti quali Stefania Leone e Leonardo Pace, non tutte le regole costruite su meccanismi rigidi presentano una tale irragionevolezza: gli esempi del possesso di un certo diploma di laurea per accedere a un concorso pubblico o il superamento di una certa soglia di età per acquisire la titolarità del diritto, vengono contrapposti ad altri, quali il regime giuridico delle sanzioni penali o delle misure cautelari, o la disciplina delle vicende della responsabilità genitoriale, nei quali l’eventuale rigidità del meccanismo opera in settori che richiedono invece capacità di adeguamento ai casi della vita. Il ricorso esclusivo al requisito dell’anzianità di servizio ai fini della commisurazione dell’indennità in caso di licenziamento illegittimo rientra nel secondo gruppo di casi, per i quali la presunzione di irragionevolezza dell’automatismo potrebbe venire superata se, all’esito del bilanciamento, prevalga un altro controinteresse. E abbiamo riportato le ragioni per cui la Corte lo esclude nella specie.
Proprio l’assimilazione ai casi di automatismi legislativi irragionevoli consente di cogliere una differenza della sentenza in esame da quelle che con tali casi debbono misurarsi. Mentre in esse la soluzione decisoria prescelta è la sentenza additiva, nell’occasione la Corte ha optato per l’accoglimento parziale della questione. L’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015 viene dichiarato illegittimo “limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,»”. L’accoglimento è pertanto riferito al solo ricorso al criterio dell’anzianità di servizio, facendo salve le altre proposizioni e in particolare, per quanto interessa, la seguente: «il giudice [….] condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale [….] in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità».
Il vincolo giuridico che ne discende in capo al giudice consiste pertanto nella sola commisurazione dell’indennità fra quattro e ventiquattro mensilità, senza che, a rigore, egli debba tener conto di alcun criterio: né dell’anzianità di servizio né di altri. E’ vero che, all’ultimo punto della motivazione, si specifica che “il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio [….] nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)” (§ 15.).
Traendo spunto da quel “terrà conto”, Maria Teresa Carinci ha osservato che si tratta solo formalmente di una sentenza di accoglimento parziale, mentre dal punto di vista sostanziale andrebbe annoverata fra le sentenze additive. Tuttavia, per quanto sia plausibile che i giudici si atterranno di fatto a quanto indicato in motivazione, ciò non toglie, soprattutto dal punto di vista della Corte, che al riguardo non ci si possa basare sull’id quod plerumque accidit: se anche un solo giudice non si atterrà ai criteri indicati in motivazione adducendone l’assenza nel dispositivo, nulla gli si potrà obiettare sul piano giuridico. La scelta di pervenire a una sentenza di accoglimento parziale sarà pure dipesa dalla considerazione dell’impatto che il ricorso a una sentenza additiva, con inevitabile individuazione puntuale dei criteri testè riportati, avrebbe comportato sulla discrezionalità legislativa. Eppure il costo del ricorso all’accoglimento parziale mi pare tale da farne un rimedio peggiore del male che si è voluto evitare.