Testo Integrale con note e bibliografia Testo della Sentenza
Sommario: 1. Premessa. – 2. Sul mancato rinvio alle Sezioni Unite. – 3. Sull’esegesi della norma e l’interpretazione costituzionalmente orientata. – 4. La compatibilità con l’ordinamento europeo. - 5. Clausole generali e controllo giudiziale. – 6. Il diritto e l’interprete.
1.Premessa.
L’esame della sentenza della Cassazione del 7 dicembre 2016 n. 25201 consente di formulare alcune riflessioni che, almeno in parte, trascendono la materia in esame.
La sentenza prende posizione su due contrastanti orientamenti di legittimità su un tema di grande attualità: il licenziamento individuale per ragioni economiche.
Un primo orientamento ritiene che il licenziamento individuale per GMO deve essere giustificato dalla necessità di fare fronte a “sfavorevoli situazioni dell’impresa che non siano meramente contingenti e che inoltre in modo rilevante influiscano negativamente sull’attività produttiva” .
Per questo orientamento, il licenziamento è legittimo solo nella ricorrenza di “fattori esterni sfavorevoli , e si configura dunque come extrema ratio, descrivendo “la concatenazione tra i singoli fattori” (che compongono la fattispecie) “cioè le situazioni sfavorevoli, le scelte aziendali di riassetto organizzativo e la soppressione del posto di lavoro, in termini esclusivamente di necessità” , o di “inevitabilità”.
In sostanza, per tale orientamento la sfavorevole situazione economica in cui versa l’azienda assurge a requisito di legittimità intrinseco al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Secondo altro orientamento, invece, le ragioni inerenti l’attività produttiva di cui alla legge n. 604 del 1966, art. 3, possono derivare anche “da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti (…) opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dall’art. 41 Cost., per il quale l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell’apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il naturale interesse ad ottimizzare l’efficienza e la competitività” .
Si è altresì, considerato “estraneo al controllo giudiziale il fine di arricchimento, o non impoverimento, perseguito dall’imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento di utili a beneficio dell’impresa e, dunque, dell’intera comunità dei lavoratori” .
Con la sentenza in esame, la Corte ha dato continuità (“al fine di consolidarlo”) a questo secondo orientamento.
La sentenza , definita dal Primo Presidente della cassazione, nella Relazione della giustizia sull’anno 2016, una delle tre sentenze più importanti della sezione lavoro nel 2016 è stata paragonata “a una sentenza delle Sezioni unite”. L’orientamento si è, peraltro, consolidato nella giurisprudenza di legittimità del 2017 .
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2.Sul mancato rinvio alle sezioni unite.
Il richiamo alle Sezione Unite sollecita una prima osservazione, di carattere processuale.
Non è un mistero che, con la sentenza n. 25201/2016, si sia adottato un nuovo metodo deliberativo all’interno della sezione lavoro, secondo il quale la questione viene previamente approfondita e discussa tra tutti i magistrati della Sezione stessa , raggiungendosi così una soluzione interpretativa condivisa “dalla maggioranza dei componenti e da adottare successivamente da tutti i collegi giudicanti al fine di evitare orientamenti divergenti” .
Ma questo “metodo” può considerarsi in linea con il dettato dell’art. 374 c.p.c. il quale prevede che la Corte pronunci a Sezioni Unite su ricorsi che presentano una “questione di diritto già decisa in modo difforme dalle sezioni semplici” o che presentano una “questione di massima di particolare importanza” ?
Nella disposizione si riflette un bilanciamento tra due canoni costituzionali (la soggezione del giudice solo alla legge e l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge) che favorisce l’uniforme interpretazione della legge.
“Una sorta di principio attenuato di stare decisis”, come è stato definito , “perché non predica la vincolatività del precedente, come nei sistemi anglosassoni di common law, ma mira a rafforzare la uniformità della giurisprudenza e a tutelare l’affidamento nella stabilità dei principi di diritto”.
Nell’intervento delle Sezioni Unite sarebbe stato opportuno considerate le implicazioni di carattere costituzionale (il difficile bilanciamento tra libertà d’impresa e diritto del lavoro) e di diritto europeo (il ruolo dell’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali nella fattispecie) che il tema (licenziamento per ragioni economiche) solleva.
Ma così non è stato.
Sarebbe, viceversa, auspicabile che la Corte, nel rispetto dei ruoli (tra sezioni semplici e sezioni unite) affidi alle Sezioni unite la soluzione di contrasti giurisprudenziali su materie che richiedono un delicato bilanciamento tra diritti costituzionalmente protetti.
Scelta che la Corte (in maniera condivisibile) ha, peraltro, ritenuto di percorrere, di recente, nell’esame della questione della riconducibilità ad ipotesi di nullità o di temporanea inefficacia del licenziamento per superamento del periodo di comporto, intimato prima del compimento dello stesso .
Un mutamento di “metodo” (con un ritorno al passato) che, si auspica, si consolidi in futuro.
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3.Sull’esegesi della norma e l’interpretazione costituzionalmente orientata.
La motivazione muove (correttamente) dal dato esegetico della norma.
L’art. 3 della legge n. 604 del 1966 prevede, com’è noto, che “il licenziamento per giustificato motivo (..) è determinato (…) da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
L’interpretazione letterale della norma, si legge nella sentenza, “esclude che per ritenere giustificato il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere, ai fini della integrazione della fattispecie astratta, un presupposto fattuale – che il datore debba indefettibilmente provare ed il giudice conseguentemente accertare – identificabile nella sussistenza di situazioni sfavorevoli ovvero di spese notevoli di carattere straordinario, cui sia necessario fare fronte”.
Affermazione ineccepibile, salve le necessarie precisazioni in ordine alla natura della norma in esame (norma generale o clausola generale) su cui si tornerà.
La diversa interpretazione, prosegue la motivazione della sentenza, “non trova riscontro in dati interni al dettato normativo bensì viene patrocinata sulla base di elementi extra-testuali e di contesto e trae origine nella tesi dottrinale della extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l’uso del licenziamento dovrebbe essere socialmente opportuna”.
In questa prospettiva, infatti, i limiti al licenziamento per GMO sono enucleati in presa diretta con l’art. 41, comma 2, Cost. “avocando all’interprete l’arbitraggio tra l’utilità sociale, tutela del lavoratore e ragioni dell’impresa oppure indagando all’interno dell’ordinamento giuridico del lavoro subordinato alla ricerca di dati normativi capaci di curvare la disciplina del GMO piegandola ad una maggiore garanzia del posto di lavoro”.
Tale lettura “tuttavia non appare innanzitutto costituzionalmente imposta”, precisa la Corte.
“In una pluridecennale giurisprudenza la Corte costituzionale ha avuto occasione di affermare – in estrema sintesi e per quanto qui rileva – che nell’art. 4 Cost. non è dato rinvenire un diritto all’assunzione o al mantenimento del posto di lavoro; che l’indirizzo di progressiva garanzia del diritto del lavoro previsto dall’art. 4 e dall’art. 35 Cost. ha portato nel tempo ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro; che tuttavia tali garanzie sono affidate alla discrezionalità del legislatore, non solo quanto alla scelta dei tempi, ma anche dei modi di attuazione, in rapporto alla situazione economica generale. In assenza di una specifica indicazione normativa, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di riempire di contenuto la legge n. 604 del 1966, art. 3 sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra una migliore gestione aziendale ed il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l’imprenditore possa optare per la seconda soluzione solo a condizione che debba far fronte a sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi” .
In estrema sintesi, sembra possibile cogliere nelle parole dell’estensore della sentenza una velata critica all’impostazione metodologica (che stà alla base dell’orientamento non condiviso) che affida all’interprete, non appagato dal bilanciamento di interessi operato dal legislatore, di forzare il precetto legale per la ritenuta insufficienza degli esiti del bilanciamento operato in sede di legislazione ordinaria .
Sul tema, di per sé delicatissimo, torneremo alla fine .
L’interpretazione dell’art. 3 della legge n. 604/66 viene, peraltro, supportata, nella sentenza, da una lettura sistematica della stessa con l’art. 30, comma 1, della legge n. 183/2010 che. Com’ è noto, dispone che in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie del lavoro privato e pubblico “contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di (…) recesso, il controllo giudiziale è limitato, esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”.
Da quest’ultima norma si desume, come si legge in motivazione, che “una errata ricognizione del contenuto della fattispecie astratta mediante l’inserimento di un elemento non previsto” comporta la censurabilità della sentenza per violazione di norme di diritto a mente dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c..
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4. La compatibilità con l’ordinamento europeo.
L’interpretazione proposta nella sentenza “non palesa profili di tensione neanche con l’ordinamento dell’Unione europea”.
Vengono richiamate, sotto questo profilo, gli art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’art. 24 della Carta sociale europea.
L’art. 30 della Carta, peraltro, non sembra trovare applicazione nella fattispecie.
La Corte di giustizia, con un orientamento costante , ritiene che la violazione del Trattato può essere fatta valere dinanzi alla Corte soltanto nel caso in cui vi sia una norma interposta, da intendersi come fonte normativa che espressamente disciplini la materia (ad es. una direttiva).
Nel nostro caso, anche se la materia dei licenziamenti è tra quelle di competenza dell’Unione, ai sensi dell’art. 153 del trattato di funzionamento dell’UE, l’unica direttiva esistente riguarda i licenziamenti collettivi e non quelli individuali.
In ogni caso, è utile ricordare che la disposizione della Carta (art. 30 ) si limita a proclamare il diritto del lavoratore ad una tutela in caso di licenziamento ingiustificato , lasciando al legislatore comunitario ed a quello nazionale il compito di dare concretezza al contenuto ed agli scopi del principio enunciato .
La disposizione si “ispira”, come si legge nelle spiegazioni relative alla Carta , “all’art. 24 della Carta sociale riveduta .
Disposizione che prevede che:
“Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti si impegnano a riconoscere:
a.Il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio.
b. Il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.
A tal fine, le Parti si impegnano a garantire che un lavoratore, il quale ritenga di essere stato oggetto di una misura di licenziamento senza un valido motivo, possa avere diritto di ricorso contro questa misura davanti ad un organo imparziale”.
L’ultimo comma della disposizione trova riscontro, all’interno della Carta, nell’art. 47 che assicura il diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale.
La prima parte della disposizione “ispira” , viceversa, l’art. 30 della Carta.
Anche l’art. 24 della Carta sociale europea, peraltro, si limita a stabilire l’impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo e tra essi pone quello “basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa”.
In dottrina si è ipotizzato l’uso di tale disposizione come norma interposta per una lettura costituzionalmente orientata del giustificato motivo oggettivo.
Lo stesso Tribunale di Roma, nell’ordinanza del 27 luglio 2017, ha utilizzato l’art. 24 della Carta sociale come norma interposta (con riferimento all’art. 117 Cost.) al fine di sollevare, sotto molteplici profili, l’illegittimità costituzionale dello Jobs Act .
Anche il Consiglio di Stato, nell’ordinanza del 4 maggio 2017, n. 2043, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs n. 66 del 2010 (codice militare) nella parte in cui vieta ai militari di costituire associazioni professionali di carattere sindacale o di aderire ad associazioni sindacali, in riferimento all’ art. 117, comma 1, Cost. utilizzando come norme interposte, gli artt. 11 e 14 della CEDU e l’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea.
Resta il fatto che, allo stato, la Corte costituzionale non ha utilizzato l’art. 24 della Carta sociale come norme interposta.
Nella stessa sentenza menzionata nell’ordinanza del Tribunale di Roma (la n. 178 del 2015), la Corte Costituzionale si limita a richiamare la Carta sociale Europea quale fonte sovranazionale di cui occorre tenere conto nell’interpretazione della fonte costituzionale interna.
Ed è lo stesso Consiglio di Stato, nell’ordinanza già citata, ha precisato che compete alla Corte costituzionale” stabilire se effettivamente sussista tale contrasto, previo accertamento che la norma di diritto internazionale convenzionale tratta dall’art. 5 della Carta sociale europea riveduta sia idonea ad integrare un parametro di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost.” .
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5.Clausole generali e controllo giudiziale
La sentenza ha cura di sottolineare alcuni tratti comuni ad entrambi gli orientamenti esaminati.
Gli stessi attengono al controllo “giudiziale del ridimensionamento e sul nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato. Parimenti costituisce limite al potere datoriale costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità quello identificato nella non pretestuosità della scelta organizzativa”.
L’affermazione, al di là delle esemplificazioni contenute in motivazione, richiede un approfondimento.
Il legislatore italiano, nell’art. 30 della legge n. 183/010, annovera il giustificato motivo tra le clausole generali. E la stessa giurisprudenza di legittimità è orientata in tal senso
Ma la qualificazione in dottrina è tutt’altro che scontata.
Parte della dottrina giuslavorisitica, infatti, preferisce optare per l’inquadramento nell’ambito delle norme generali .
La norma generale, secondo Mengoni , “è una norma completa, costituita da una fattispecie e da un comando, ma la fattispecie non descrive un singolo caso o un gruppo di casi, bensì una generalità di casi genericamente definiti, mediante una categoria riassuntiva, per la cui concretizzazione il giudice è rinviato volta a volta a modelli di comportamento e a stregue di valutazione obiettivamente vigenti nell’ambiente sociale in cui opera (…). Questa tecnica legislativa lascia al giudice un margine maggiore di discrezionalità, e così ammette un certo spazio di oscillazione della decisione; ma si tratta di una discrezionalità di fatto, non di una discrezionalità produttiva o integrativa di norme” .
Le clausole generali, viceversa, “sono norme incomplete, frammenti di norme; non hanno una propria autonoma fattispecie, essendo destinate a concretizzarsi nell’ambito dei programmi normativi di altre disposizioni (…). Nell’ambito normativo in cui si inserisce la clausola generale introduce un criterio ulteriore di rilevanza giuridica, a stregua del quale il giudice seleziona certi fatti o comportamenti per confrontarli con un determinato parametro e trarre dall’esito del confronto certe conseguenze giuridiche, sovente ai fini dello scioglimento di antinomie sorte in quell’ambito” .
La distinzione è, ovviamente, estremamente, rilevante, perché nel caso di norme generali la tecnica legislativa lascia al giudice solo una discrezionalità di fatto e non una discrezionalità produttiva o integrativa di norme.
Non solo.
Nell’applicazione delle clausole generali, il meccanismo di sussunzione opera alla rovescia.
“E’ il fatto concreto che và sussunto nella norma”, “è il giudizio di fatto (espresso sulla base di parametri extralegali (…) a riempire il contenuto e a concretizzare la clausola generale” .
Aderendo alla qualificazione del GMO come “clausola generale” occorre ricordare l’insegnamento della Cassazione che si è formato alla fine del secolo scorso.
La Suprema Corte, fin dal 1998 , ha elaborato, infatti, una serie di principi (in tema di giusta causa) che devono servire da guida per l’operatore di diritto.
In particolare, la Corte ha chiarito che:
a) Nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica “il giudice di merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (…) in quanto da concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quanto dal lavoratore un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorchè la legge richieda tale elemento”;
b) Tale “giudizio valutativo – e quindi di integrazione giuridica – del giudice del merito deve (…) conformarsi oltre che ai principi dell’ordinamento, individuati dal giudice di legittimità, anche ad una serie di standars valutativi esistenti nella realtà sociale che assieme ai predetti principi compongono il diritto vivente, ed in materia di rapporti di lavoro la c.d. civilità del lavoro”;
c) “la valutazione di conformità – agli standars di tollerabilità dei comportamenti lesivi posti in essere dal lavoratore – dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito della funzione nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida ”.
Si tratta di affermazioni di grande rilievo in cui si coglie la valorizzazione dei c.d. standards valutativi esistenti nella realtà sociale che insieme ai principi generali offrono supporto (e legittimazione) all’attività di integrazione giuridica della norma posta in essere dal giudice di merito.
E la “conformità ai principi generali dell’ordinamento”, non a caso, è ribadita nell’art. 30 del collegato lavoro.
Aderendo a tale ricostruzione va approfondito il tema del controllo giudiziario sul GMO in base ai tratti comuni dei due orientamenti esaminati nella sentenza in commento.
Occorre ribadire, infatti:
a) che il potere organizzativo può incontrare dei limiti di natura legale (il divieto di effettuare un decentramento produttivo) o contrattuale (la contrattazione collettiva, ad esempio, può imporre un numero minimo di addetti per gestire un certo servizio).
La Cassazione (Cass. 5 settembre 2000, n. 11718) ha ritenuto, ad esempio, illegittimo un licenziamento per GMO disposto a seguito di un decentramento organizzativo realizzato dal datore di lavoro in violazione dei limiti posti dalla contrattazione collettiva.
Le stesse “valutazioni tecniche”, secondo alcune opinioni, sembrano rientrare (almeno in parte) nell’ambito del controllo giudiziale allorchè appaiono inattendibili “attraverso un controllo di ragionevolezza e coerenza tecnica del provvedimento datoriale teso ad accertarne l’attendibilità sul piano scientifico”
b) Gli stessi contenuti delle ragioni produttive o organizzative non sono esenti da controlli.
Nella soppressione del posto è il riassetto organizzativo il prius e la soppressione del posto di lavoro il posterius .
Come si legge in Cass. 28.9.2016, n. 19185, infatti, vi è “la necessità di verificare il rapporto di congruità causale tra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all’origine del licenziamento anziché costituirne un effetto di risulta”.
c)Occorre, peraltro, un rapporto di causa-effetto tra la decisione organizzativa ed il licenziamento del lavoratore. In ossequio alla giurisprudenza dominate non basta accertare l’esistenza di una logica connessione tra scelta e licenziamento (una delle diverse possibili connessioni) ma occorre verificare che il licenziamento risulti casualmente necessitato (unica e necessaria conseguenza dell’opzione organizzativa)
d) Le ragioni del licenziamento vanno, infine, esternate in forma scritta nella lettera di licenziamento (art. 2, comma 2, l. n. 604/66 come modificato dall’art. 1, comma 37, della l. n. 92/12) in modo specifico con la conseguenza che una motivazione generica ne può comportare, di per sé, l’illegittimità (come nel caso esaminato dal Tribunale di Roma nell’ordinanza di rimessione alla Consulta).
e) A ciò deve aggiungersi la lungimirante indicazione contenuta nella sentenza in commento (n. 25201/16) che, dopo aver affermato la sufficienza per la legittimità del GMO delle ragioni “che determinano un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa” precisa “ove però il licenziamento sia stato motivato richiamando l’esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall’imprenditore”.
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6.Il diritto e l’interprete.
Un’ultima notazione.
Nella sentenza si legge:
“Compete al legislatore sancire se il fine sociale cui può essere coordinata o indirizzata l’attività economica, anche privata, nella scelta tra una più efficiente gestione aziendale ed il sacrificio di una singola posizione lavorativa, debba seguire la strada di inibire il licenziamento individuale, fermo restando che chi legifera può diversamente ritenere che l’interesse collettivo dell’occupazione possa essere meglio perseguito salvaguardando la capacità gestionale delle imprese di fare fronte alla concorrenza nei mercati e che il beneficio attuale per un lavoratore a detrimento dell’efficienza produttiva possa piuttosto tradursi in un pregiudizio futuro per un numero maggiore di essi. Non spetta al giudice, in presenza di una formula quale quella dettata dall’art. 3 (…), surrogarsi nella scelta, con riferimento alla singola impugnativa di licenziamento, tenuto conto altresì della mancanza di strumenti conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la migliore opzione per l’impresa e la collettività”.
E’ altamente istruttivo porre a confronto queste affermazioni con quelle contenute in un’altra sentenza fondamentale della Cassazione del 2016 (la n. 14188), sempre a sezione semplice, che, dopo circa 50 anni, ha mutato la qualificazione della natura della responsabilità precontrattuale (riconducendola nell’area della responsabilità contrattuale anziché extracontrattuale).
Afferma la Corte (nella sentenza n. 14188/16) che “il significativo ampliamento dell’area di applicazione della responsabilità contrattuale (…) è certamente frutto di un’evoluzione nel modo di intendere la responsabilità civile che dottrina e giurisprudenza hanno operato, nella prospettiva di assicurare a coloro che instaurano con altri soggetti relazioni significative e rilevanti, poiché involgenti i loro beni ed interessi – sempre più numerose e diffuse nell’evolversi della società, dei bisogni e delle esigenze dei cittadini – una tutela più incisiva ed efficace rispetto a quella garantita dalla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.”.
Nelle parole della Corte, in quest’ultima sentenza, emerge l’esigenza di dare soddisfazione a bisogni di tutela via via emergenti e non rinvenienti un’adeguata tutela nelle norme in cui tradizionalmente venivano sussunte.
In questa affermazione si avverte un distacco dalla fattispecie che disvela un bisogno, un’esigenza di tutela che la fattispecie non ha avuto la volontà di individuare.
Fattispecie è species facti. “descrizione o immagine, non di un fatto già accaduto e quindi accertabile mercè un giudizio storiografico, ma di un fatto futuro o di una classe di fatti futuri, che la norma considera dotati di un qualche grado di probabilità”.
Due fenomeni mettono in crisi il concetto della fattispecie.
A) Lo spostarsi dei criteri di decisione giudiziaria al di sopra della legge. L’innalzarsi dalle leggi ordinarie alle norme costituzionali (che, in linea di massima, sono norme senza fattispecie).
B) Il “salire” dal diritto ai valori, cioè a criteri supremi che si celano o si calano nelle norme costituzionali .
I valori valgono in sé e per sé, non hanno bisogno di altre norme o di tramiti, ma si appoggiano soltanto su stessi. Le parti non espongono al giudice eventi riconducibili a casi “stati di fatto contrari al diritto”, ma “situazioni di vita”, contenuti di esperienza e domande e risposte nel segno dei valori.
Il fatto non ha più bisogno di convertirsi in caso, poiché il valore non richiede un tipo di evento, ma una situazione di vita da approvare o disapprovare. Il giudizio di valore non assegna predicati, ma piuttosto reagisce a una situazione della vita.
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Ma la crisi attuale non investe, solo, la categoria della fattispecie ma, più in generale, le categorie (soggetto, beni, atto di autonomia, responsabilità) sulle quali era costruito l’impianto delle “Dottrine generali del diritto civile” di Francesco Santoro Passarelli.
Non a caso si afferma che è in atto una rivisitazione di quell’impianto non per contestarne l’originario equilibrio, ma per rendere esplicito ciò che troppo spesso rimane sottinteso “che il diritto civile, sede privilegiata di raffinate ricostruzioni operative ricostruttive, deve liberarsi dal letto di Procuste di categorie assunte come degli a priori, perché ciascuna di esse può essere legittimamente configurata (e, al limite, rimodellata o accantonata) solo all’esito del procedimento interpretativo, ormai definitivamente libero dal preconcetto che il suo punto di riferimento oggettivo sia soltanto un sistema di enunciati posti”. Operazione che richiede un radicale mutamento di prospettiva. “non più un diritto che nasce dall’alto, nella rarefatta atmosfera di palazzi dove si fa sintesi dei conflitti sociali (…) ma semmai dal basso nei luoghi in cui questi conflitti si consumano e trovano soluzioni o in difficili mediazioni socio-economiche o nel delicato crogiolo del giudizio” (pag. 7).
Ciò implica non soltanto la necessità di rivedere le tradizionali categorie ordinanti, ma impone “all’uomo di diritto di intendere le novità di un ruolo che non gli chiede più di limitarsi a dati da altri posti (nell’esercizio che pretende comunque di imporsi alla società), ma lo sollecita a rendersi artefice di una tessitura per il cui risultato finale spetta fondamentalmente a lui mettere insieme la trama delle regole dettate con l’ordito delle situazioni concrete, consapevole peraltro che l’incomparabilità delle persone esclude il riferimento a paradigmi astratti applicabili in maniera indifferenziata”.
Il paradigma del valore “si sposta dalla legge al giudizio, assegnando al giurista (teorico o pratico) una funzione che era rimasta soltanto implicita nella stagione delle grandi omologazione assiologiche (pag. 3). Spostamento che, secondo questa impostazione, impone di liberarsi della falsa convinzione che la decisione in base alla razionalità sussuntiva offra maggiori certezze di quella radicata su valori.
In definitiva, il problema sta in ogni caso nella misura di condivisibilità della soluzione. “Nella realtà del postmoderno il dettato normativo tende inevitabilmente ad essere un punto di arrivo, non un punto di partenza. Né c’è più necessità di nascondersi dietro lo schermo della precomprensione, perché ormai anche le Corti costituzionali e i massimi consessi giurisdizionali (…) dichiarano esplicitamente che l’oggetto delle loro analisi non sono solo i testi, ma contesti, non sono dettati da esperienze, non sono parole ma fatti” (pag. 5).
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Rivisitazione di categorie e di ruoli che trova riscontro nelle posizioni dell’attuale Presidente della Corte costituzionale espresse, da ultimo, nella lezione inaugurale dei corsi di formazione per l’anno 2017 della “Scuola Superiore della Magistratura”.
In particolare, nel saggio sulla odierna incertezza del diritto , Paolo Grossi invita a liberarci della “forca caudina” costituita dalla netta antitesi certo/incerto.
“La certezza quale principio sommo di cui parla Lopez De Onate deve essere colto come strettamente collegato a una civiltà improntata a un fermo assolutismo giuridico (…) deve essere, insomma, vista come strumentale alla autorità investita del potere di produrre le norme”.
Poiché non era in discussione la giustizia dei contenuti della norma ci si doveva arrestare all’inestimabile bene della certezza.
Oggi non è più così.
“La rilettura dei testi delle leggi ordinari alla luce dei principi raccolti nella Costituzionale ha, infatti, consentito di fare esprimere all’interprete la loro potenzialità e ricchezza, ignota a ogni proposizione legale” (pag. 71).
Basti pensare all’uso del principio di ragionevolezza e alle sue molteplici applicazioni della Consulta per rendersene conto.
L’avventura costituzionale italiana, insomma, “ha rappresentato la salutare messa in discussione di una legalità unicamente legislativa e di una certezza unicamente formale” (pag. 75).
Una seconda svolta, epocale, è costituita, nel tempo postmoderno, dal “fertile laboratorio giuridico rappresentato dall’Europa” (pag. 75) “che ha consentito alla Corte di giustizia (attraverso l’applicazione di principi quali la proporzionalità) di dare voce alla comunità di diritto che stà alla base dell’Unione” (pag. 76).
L’asse portante della nostra civiltà post-moderna, conclude Grossi (pag. 81), “è necessariamente spostata da un nomo tema (troppo spesso impotente o sordo) all’interprete, soprattutto al giudice che per sua vocazione professionale ha di fronte la questione ed è chiamato a dirimere la controversia”.
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Di diverso avviso si mostra, però, IRTI negli scritti raccolti nel volume “Il diritto incalcolabile”.
Il pensare (e decidere) per valori – come che siano intuiti, immanenti o trascendenti, calati dall’alto o emersi dal basso – “è altezzoso soggettivismo concreto. Il giurista dei valori innalza a valori ciò che fa valere con l’energia della propria volontà, o d’una volontà comune a sé e d altri. (Nietzsche ci ha svelato questi percorsi interiori). Egli si pone di fronte alla “situazione di vita”, e risponde con la concreta immediatezza del valore” (pag. 15).
La crisi della fattispecie non è crisi della decisione.
“Il diritto sente orrore del vuoto e le società umane hanno sempre bisogno del giudizio” (pag. 31)
“La calcolabilità non esclude il nichilismo giuridico ma lo rinserra in vincoli procedurali e in coerenze argomentative: appunto, il salvagente della forma” (pag. 13 e135).
Cosa intenda IRTI con tale espressione viene chiarito nel saggio I cancelli delle parole (pag. 69-87).
Il punto di partenza del ragionamento consiste nella riaffermazione che “il testo normativo ha da essere punto di partenza e punto d’arrivo, poiché non c’è nulla al di sopra o al di sotto di esso: tutto è dentro il suo cerchio” (pag. 70).
Non a caso viene richiamato il monito di Adolf Merkl , la lingua è “il grande portone attraverso il quale tutto il diritto entra nella coscienza degli uomini”.
Due sono le indicazioni essenziali, in questo contesto.
Allargare la mediazione delle leggi ordinarie. La vena di irrazionalità “che oggi percorre l’ordinamento e affiora inattesa nelle decisioni dei singoli casi, sarebbe arginata o raffrenata, se norme e principi, generali o universali, si calassero in leggi ordinarie dotate di fattispecie” (pag. 71), liberando il giudice dalla solitudine della particolarità. La mediazione delle leggi ordinarie è, altresì, o forse soprattutto, mediazione del linguaggio tecnico, “poiché esse abbandonano parole solenni e vaghe (…) e scendono alla terminologia propria del diritto”. (pag. 73)
Restituire la sentenza ad applicazione di norme positive e fondare la decisione giudiziaria sull’antico e saldo terreno della fattispecie (pag. 72).
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Le considerazioni (e preoccupazioni) di IRTI sono condivise da ampi settori della dottrina e della giurisprudenza.
Basti qui ricordare (per la dottrina) le parole di Luigi Ferrajoli :
“l’ultima cosa di cui si avverte il bisogno è che la cultura giuridica, attraverso la teorizzazione e l’avallo di un ruolo apertamente creativo di un nuovo diritto affidato alla giurisdizione – inteso come creazione – contribuisca ad accrescere questi squilibri, assecondando e legittimando un ulteriore ampliamento degli spazi già amplissimi della discrezionalità dell’argomentazione e del potere giudiziario, fino all’annullamento della separazione dei poteri, al declino del principio di legalità e al ribaltamento in sopra-ordinazione della subordinazione dei giudici alla legge” (pag. 170).
Preoccupazioni condivise da VIDIRI laddove parla di “un diritto incerto” che trova origine da una “tecnica legislativa approssimativa e lacunosa” e da una giurisprudenza “non di rado anarchica e creativa ed anche ideologicamente condizionata” (pag. 7). Ed ancora che il tema della mediazione giudiziale, nell’applicazione del diritto del lavoro, è “infido e scivoloso dal momento che esso rischia di essere trattato (…) in chiave politico-ideologica”.
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Alla luce delle superiori premesse, una lettura, a specchio, delle due sentenze sopra citate e quanto mai illuminante.
Nella sentenza sulla responsabilità precontrattuale prevale un distacco dalla fattispecie che disvela un’esigenza di tutela che la fattispecie non ha avuto la capacità di individuare.
Il richiamo al dialogo tra dottrina e giurisprudenza (innalzata a fonte del diritto) assicurerebbe, in questo contesto, la tenuta, complessiva, del sistema giuridico. Nella sentenza sul licenziamento per GMO, viceversa, la decisione si fonda “sull’antico e saldo terreno della fattispecie”, pur nella consapevolezza che i risultati ermeneutici (fondati sull’esegesi del testo) devono fare i conti con un’interpretazione conforme alla Costituzione e alle fonti europee.
Approccio che, dal punto di vista metodologico, sembra, certamente preferibile.