Testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa.
Con una recente ordinanza la Corte di Cassazione ha ribadito alcuni principi in materia di trasferimento del lavoratore presso un’altra sede di lavoro, disposto dal datore di lavoro in seguito alla chiusura di un’unità locale. In tale contesto vengono in rilievo interessi contrapposti, da un lato quello imprenditoriale a massimizzare l’efficienza organizzativa, in un’ottica di corretta allocazione delle risorse e del personale per le finalità produttive, dall’altro l’interesse del lavoratore alla continuità del rapporto e alla permanenza presso una determinata sede di lavoro, spesso collegata alla realtà spaziale in cui si sviluppa la propria sfera personale e, in particolare, quella familiare (che assume, si rammenta, una dimensione costituzionale, a mente degli artt. 36 e 37 Cost.). L’art. 2103, comma 8, c.c. (nella formulazione prevista dall’art. 3, comma 1, del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81) ha introdotto la regola per cui “Il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. A seguito della novella è ora indubbia l’esistenza in capo al datore di lavoro del potere di modificare unilateralmente il luogo della prestazione, potendosi prescindere dal riconoscimento di tale facoltà in modo espresso nel contratto collettivo o individuale (a norma dell’art. 1182, comma 1, c.c.). Il datore non è però immune da vincoli esterni, atteso che la disposizione, ancorché non richieda il consenso del lavoratore per la legittimità del trasferimento, confina quest’ultimo alle ipotesi giustificate da ragioni “tecniche, organizzative e produttive”, che devono essere, oltre che esistenti, comunicate al lavoratore (“comprovate”). È evidente, sotto questo profilo, il richiamo letterale al “giustificato motivo oggettivo” in materia di licenziamento. Da tale analogia discende che, ferma la ragionevolezza della scelta imprenditoriale in ordine all’organizzazione dell’attività, nonché la sussistenza di un nesso di causalità tra la scelta organizzativa e il trasferimento (escludendo, quindi, trasferimenti a scopo ritorsivo o discriminatorio), al giudice è precluso il sindacato sull’opportunità del trasferimento (art. 41 Cost.). In capo al lavoratore non sussiste, quindi, un “diritto alla inamovibilità”, ma nemmeno il datore può disporre del potere di trasferimento in piena libertà. Questione nodale diventa perciò il bilanciamento fra le opposte esigenze poc’anzi richiamate. In primo luogo, anche in relazione alle potenziali controversie sul punto, va chiarito se la fattispecie di volta in volta considerata rientri nel campo di applicazione della disposizione: non ogni trasferimento, infatti, è aprioristicamente suscettibile di creare un effettivo disagio per il lavoratore tale da richiedere una giustificazione in capo al datore di lavoro (si pensi, ad esempio, al trasferimento di sede all’interno dello stesso comune). L’ordinanza in commento offre alcuni spunti di riflessione sul tema, con innegabili risvolti nella prassi e nel contenzioso, in ordine al rapporto tra il trasferimento e il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione nella nuova sede in relazione all’eventuale successivo licenziamento intimato dal datore, nonché sui limiti del sindacato in sede giudiziale delle censure avanzate dal lavoratore nei riguardi delle scelte imprenditoriali.
2. La vicenda processuale e l’eccezione di inadempimento del lavoratore.
La vicenda decisa dalla Cassazione origina dalla decisione di una nota società, operante nel settore delle telecomunicazioni, di chiudere un’unità organizzativa, comunicando al lavoratore il trasferimento in una nuova sede di lavoro. Il lavoratore rifiutava il trasferimento e si presentava presso la sede di provenienza ove la prestazione veniva, tuttavia, rifiutata e il lavoratore diffidato. In seguito, perdurando il rifiuto di presentarsi presso la nuova sede, il datore di lavoro comminava il licenziamento. Nel corso del giudizio di merito, introdotto dal lavoratore, venivano accolte le doglianze di quest’ultimo ed annullato il licenziamento. La controversia approdava in Cassazione, la quale riformava la sentenza di secondo grado, accogliendo il ricorso proposto dalla società. In particolare, la sentenza di appello aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, sindacando, tuttavia, le scelte organizzative della società, la quale era tenuta a dimostrare solo l’effettiva soppressione della sede posta alla base del trasferimento, dunque “non si era uniformata al principio consolidato secondo cui il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato deve essere diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell’impresa e non può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore”. In seguito, il giudice di appello, chiamato a pronunciarsi nuovamente, riformava il proprio precedente e concludeva per la legittimità del licenziamento. Il lavoratore interponeva quindi ricorso per la cassazione della sentenza di secondo grado, fra gli altri motivi, per violazione dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., poiché il giudice aveva omesso di considerare, ai fini della invalidità del licenziamento, le ragioni che legittimavano il lavoratore a rifiutare la prestazione, quali l’illegittimità del trasferimento e l’asserita “distanza usurante” per il lavoratore e per i propri familiari (c.d. eccezione di inadempimento). L’eccezione in parola, si rammenta, trova fondamento nella qualificazione quale contratto con prestazioni corrispettive del contratto di lavoro subordinato. L’art. 1460, comma 1, c.c. dispone che “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto”. Tuttavia, il 2° comma dell’art. 1460 c.c., dando specifica attuazione alla clausola generale (art. 1375 c.c.), stabilisce che non possa essere opposto il rifiuto se, avuto riguardo alle circostanze, esso risulti contrario a buona fede. Tale rimedio ha trovato legittimazione nella giurisprudenza all’infuori dell’inadempimento datoriale concernente la retribuzione ed è, quindi, ritenuto esperibile dal lavoratore a fronte dell’ordine datoriale di trasferimento illegittimo (Cass. civ., Sez. lavoro, sent., 10 gennaio 2019, n. 434; Cass. civ., Sez. lavoro, 16 luglio 2018, n. 18823).
3. La decisione della Cassazione.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi nuovamente sulla vicenda, ha rigettato il ricorso, confermando la sentenza di secondo grado che aveva ritenuto legittimo il licenziamento. In primo luogo, la Corte chiarisce una questione preliminare: “L’operatività dell’art. 1460 c.c., presuppone un inadempimento datoriale che, in caso di trasferimento legittimo, non ci sarebbe stato, per cui nessuna eccezione di inadempimento avrebbe potuto opporre il lavoratore per giustificare il suo rifiuto e la norma codicistica non avrebbe potuto trovare spazio”. In altre parole, in presenza di un trasferimento motivato da ragioni tecniche, organizzative e produttive aziendali, provate nel corso del giudizio, non sussiste l’inadempimento datoriale che consentirebbe al lavoratore di appellarsi alla clausola di inadempimento. Nel caso di specie il datore aveva dimostrato l’effettiva soppressione di un’unità locale (la cui opportunità, si ricorda, non è sindacabile in sede giurisdizionale). La Cassazione ha avuto altresì modo di ribadire, qualora il provvedimento di trasferimento effettivamente contrasti con l’art. 2103, comma 8, c.c. che “l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460 c.c., comma 2, alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede”. Il difetto delle comprovate ragioni che, a norma dell’art. 2103, comma 8, c.c. devono sorreggere la scelta gestionale del datore di lavoro è condizione necessaria, ma non sufficiente, a tenere indenne il lavoratore dai rischi connessi al rifiuto della prestazione. Dunque, solo se, a monte, sussiste l’inadempimento del datore (sotto il profilo della violazione di un obbligo di non fare, ossia il divieto di trasferire il lavoratore in assenza di esigenze aziendali ovvero laddove queste ragioni risultino solo apparenti o strumentalizzate ad altri fini), il lavoratore potrebbe, in astratto, rifiutare di prestare servizio presso la nuova sede. Tale circostanza non è, però, di per sé sufficiente a legittimare il rifiuto del lavoratore. Occorre che il giudice (di merito) operi, in concreto, un giudizio di bilanciamento fra gli opposti interessi in conflitto, teso a ravvisare se il rifiuto del lavoratore sia manifestamente contrario alla buona fede e “la relativa verifica dovrà essere condotta sulla base delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie” (conforme, Cass. civ. Sez. lavoro, sent., 13 agosto 2019, n. 21391). In sostanza “il rifiuto del lavoratore di assumere servizio presso la sede di destinazione deve essere proporzionato all’inadempimento datoriale” (Cass. civ., Sez. lavoro, 5 dicembre 2017, n. 29054). Solo a tali condizioni il rifiuto opposto dal primo potrebbe considerarsi legittimo e gli eventuali provvedimenti sanzionatori o il licenziamento comminati dal datore risulterebbero invalidi. Va però chiarito che, nel caso deciso, era stato accertato nel corso del giudizio di merito che il lavoratore aveva strumentalizzato il rifiuto di trasferimento per trarne un vantaggio economico nell’ambito di una trattativa con il datore di lavoro e, ciononostante, denunciava nel ricorso per cassazione l’omesso esame delle ragioni di carattere personale e la distanza usurante della nuova sede di lavoro rispetto al proprio domicilio. Tale specifica censura risultava pertanto, secondo la Corte, inammissibile, atteso che in sede di legittimità è preclusa la rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione, con susseguente reiezione del ricorso del lavoratore.
4. Conclusioni.
La pronuncia in commento consolida l’orientamento che, tramite l’eccezione di inadempimento, nel caso di modifica unilaterale del luogo di lavoro, amplia il sindacato giurisdizionale oltre la mera sussistenza delle ragioni di cui all’art. 2103, comma 8, c.c. Il giudizio di bilanciamento, che consegue all’inadempimento datoriale, laddove sia accertata la violazione dei presupposti legittimanti il trasferimento, dovrebbe essere operato caso per caso, secondo gli elementi di fatto espressamente introdotti dalle parti nel giudizio. Come per altri ambiti, tuttavia, la condotta del datore potrebbe essere oggetto di più ampia valutazione, secondo il criterio della ragionevolezza (in materia di licenziamento, Cass. civ., Sez. lavoro, sent., 9 marzo 2021, n. 6497). Di recente la giurisprudenza di merito, proprio nel caso di trasferimento, ha avuto modo di introdurre un giudizio di equivalenza: il giudice potrebbe confrontare la situazione organizzativa di provenienza con quella finale e censurare la scelta del datore che, fra più soluzioni equivalenti per l’impresa, non abbia preferito quella meno gravosa per il lavoratore, “secondo un meccanismo condivisibilmente corrispondente agli istituti del repêchage (nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo) e degli accomodamenti ragionevoli (in materia di lavoratori affetti da disabilità)” (Tribunale Bari, Sez. lavoro, sent., 23 gennaio 2022, n. 3026). L’estensione del giudizio di bilanciamento oltre il confine degli interessi strettamente personali del lavoratore trasferito, applicando i criteri della ragionevolezza o dell’equivalenza, amplia, anche in tale ambito, la portata del sindacato da parte del giudice in merito all’organizzazione datoriale.