Testo integrale con note e bibliografia
Dirò subito che mi trovo pienamente d’accordo con Valerio Maio e Michel Martone, che – presentando ai lettori questo ricchissimo volume di saggi di Mattia Persiani (Diritto del lavoro. Altri saggi 2004-2021, Cacucci, 2022) – esordiscono scrivendo che l’opera di Persiani non necessita di decifrazione alcuna: ché da sempre la nettezza di pensiero, la chiarezza delle formulazioni e la rigorosa coerenza dell’argomentazione hanno contraddistinto tutti i suoi scritti. E ancor più consentaneo mi trova la loro indicazione di attribuire rilievo decisivo al ‘metodo’ di Persiani, quasi a suggerire che il modo in cui egli scrive è altrettanto importante di ciò che egli scrive: semmai, mi verrebbe fatto di aggiungere che l’importanza degli scritti di Persiani si deve proprio a questo suo modo di scrivere di diritto, cioè di concepire la scienza giuridica: un modo che egli stesso, rileggendo a distanza di quasi cinquant’anni L’autonomia dei privati nel diritto dell’economia di Francesco Santoro-Passarelli, riassume dicendo che la funzione essenziale della scienza giuridica “è quella di costruire i concetti necessari all’interpretazione del diritto e di aggiornarli per tener conto dell’evoluzione non solo della legislazione, ma anche e soprattutto della realtà economica e sociale”.
“Ecce Persiani”, scrivono giustamente Maio e Martone, commentando questa affermazione del loro (e nostro) Maestro. Ma ecce anche Francesco Santoro-Passarelli: e non solo, e banalmente, perché Persiani, com’è a tutti noto, ne è stato tra i più importanti allievi, ma soprattutto perché è lo spirito delle Dottrine generali del diritto civile che egli ha penetrato come pochi: quell’ambizione teoretica che ne aveva fatto la prima trattazione di carattere generale in cui – come leggiamo nella Prefazione all’ultima edizione del 1966 – la ricca elaborazione dottrinale maturata sul codice civile del 1865 era stata messa a profitto per la costruzione di un sistema linearmente semplice, quale poteva desumersi dal nuovo codice civile del 1942.
Salvo che Persiani, diversamente dal suo Maestro, quel lavoro di sistemazione non ha potuto compierlo entro il “mondo della sicurezza” del codice civile: in quanto appartenente a pieno titolo a quell’epoca storica che, con felice e ormai invalsa espressione, chiamiamo “età della decodificazione”, ha dovuto misurarsi con l’incessante, magmatica proliferazione delle leggi speciali dettate in materia di lavoro e previdenza: e, specialmente, con la loro intrinseca attitudine a costituirsi come microsistemi normativi, dotati di logiche proprie e autonome rispetto al codice civile. E ha dovuto conseguentemente calare la “fatica del concetto” nell’esegesi delle norme speciali e nella ricostruzione dei microsistemi normativi cui esse danno vita: nella consapevolezza che l’“unità del diritto oggettivo nazionale”, che è postulata dall’art. 65 Ord. giud., si svolge e vive nella pluralità dei microsistemi normativi delle leggi speciali; e che il bisogno di razionalità e unità, che domina il lavoro del giurista, doveva anzitutto rivolgersi all’interpretazione e alla sistemazione del linguaggio di quelle leggi, in modo da esprimerne compiutamente le potenzialità normative dei fatti sociali che esse si propongono di disciplinare.
È per ciò che, da servitore anche lui della ragione (e della storica e concreta ragione della legge, non già del mito o dell’utopia di cui ambiscono a farsi servitori i nuovi sacerdoti del misticismo dei ‘valori’), Persiani si è sempre piegato sul testo linguistico della disposizione normativa, che – per dirla con quell’altro impenitente sostenitore dell’ortodossia positivista che è Natalino Irti – “non tollera evasioni, reprime impazienze interpretative, educa alla disciplina del discorrere e dell’argomentare”.
Il ‘lavoro’ del giurista Persiani assume infatti a proprio oggetto il discorso del legislatore e consiste nella costruzione di un linguaggio rigoroso mediante il quale l’osservazione del dato di realtà (ossia l’enunciato contenente la proposizione normativa) possa essere comunicata agli altri osservatori col minor numero possibile di fraintendimenti. Egli muove invariabilmente dalla determinazione del significato delle parole che entrano a far parte delle proposizioni proprie del microsistema normativo che forma oggetto della sua ricerca e, a misura che procede all’individuazione delle regole che presiedono all’uso di quella data parola nel microsistema considerato, costruisce il ‘concetto’ che corrisponde a quella determinata parola. Ciò fatto, egli procede a ‘completare’ quel linguaggio, indicando tutte le altre possibili conseguenze non espresse che si possono ricavare dalle proposizioni normative espresse dal legislatore, in modo da colmare le lacune e risolvere eventuali antinomie; e di qui, perviene alfine alla sistematizzazione dei risultati, cioè alla costruzione dei rapporti giuridici intercorrenti tra le varie parti del tutto: una sistematizzazione che, pur concernendo, ancora una volta, il microsistema considerato, si preoccupa altresì di spiegare in che modo la sua intima logica di funzionamento si ponga rispetto alla disciplina di diritto comune: e cioè se ne costituisca una species o un’eccezione derogatoria.
Chi ha memoria di un antico e insuperato saggio di Norberto Bobbio (Scienza del diritto e analisi del linguaggio, 1950), non potrà non ravvisare nel modus procedendi di Persiani quello stesso ‘metodo’ che permette all’interpretazione della legge di costituirsi in ‘scienza del diritto’: “il metodo detto dei civilisti”, ricorda Persiani in questo volume, perché furono loro a inventarlo e a praticarlo per primi, ma che in realtà, scrive ancora Persiani, “ben può essere considerato, con le dovute variazioni, il metodo generale della dottrina giuridica”. Una ‘dogmatica’, si potrebbe propriamente definirlo, visto che Luigi Mengoni ci ha da tempo chiarito che il proprium del positivismo giuridico consiste nella storicizzazione dei dogmi giuridici, che vengono per ciò spogliati di ogni pretesa di assolutezza metafisica e ricostruiti come ‘categorie’ di un ordinamento determinato nel tempo e nello spazio; e una dogmatica che, ricostruendo il diritto positivo dei microsistemi normativi del lavoro e della previdenza sociale in un’unità razionale, fondata sui concetti in cui si articola il discorso normativo, si propone di ordinarlo in un sistema i cui concetti possano operare come “fattori di un computo”, giusta l’antica espressione di Windscheid, il cui risultato finale è la decisione del caso concreto.
Ne è testimonianza il magnifico saggio, anche questo raccolto nel volume di cui discorriamo, che Persiani ha premesso alla ristampa, ormai dodici anni fa, del suo poderoso Sistema giuridico della previdenza sociale (1960). Qui, Persiani ci ricorda anzitutto qual era la situazione della dottrina in materia quando, nella primavera del 1958, Santoro-Passarelli gli affidò il compito di scrivere una monografia di diritto della previdenza sociale per concorrere ad un premio indetto in onore di don Luigi Sturzo: da un lato, c’erano le suggestioni della prolusione romana tenuta dallo stesso Santoro-Passarelli dieci anni prima (Rischio e bisogno nella previdenza sociale, 1948) e quelle, di poco precedenti, della dottrina corporativistica, tutte imperniate sullo schema concettuale dell’assicurazione obbligatoria; dall’altro, i manuali apparsi nel secondo dopoguerra, in cui alla ripetizione, nella parte generale, di quel medesimo schema, si giustapponeva la minuta esposizione della disciplina legislativa vigente, comprese le circolari amministrative. E in mezzo, don Sturzo: il quale, ad onta dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, ripeteva al giovane Persiani che bisognava “aver paura dello Stato” e conseguentemente incentrare la trattazione della materia sulla necessità che l’obiettivo di liberazione dal bisogno di cui all’art. 38 Cost. venisse affidato alle iniziative spontanee individuali e collettive.
Ecco, mi pare di poter dire che la “ribellione” a quello status quo, di cui Persiani stesso racconta in questo saggio, non sarebbe stata possibile se l’allor giovane studioso non avesse penetrato fino in fondo l’insegnamento metodologico dei suoi Maestri: e così profondamente da usarlo per rivoluzionare completamente il sistema concettuale entro cui era stata fino ad allora concepita la materia. Persiani muove infatti dalla Costituzione e, legando strettamente gli obiettivi della liberazione dal bisogno di cui all’art. 38 e dell’eguaglianza sostanziale di cui al secondo comma dell’art. 3, comprende nitidamente la necessità di superare la concezione mutualistica della previdenza in favore di una concezione che faccia leva sull’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2: la scissione dello schema assicurativo, necessariamente trilatero, in due distinti rapporti giuridici, il rapporto contributivo e quello previdenziale, è figlia di questa intuizione, così come la riconcettualizzazione dei contributi in termini di imposte speciali e la consequenziale negazione di ogni pretesa di corrispettività tra contributi e prestazioni.
D’altra parte, il richiamo alla Costituzione, per quanto decisivo, non è di per sé sufficiente. Persiani sa bene che dalla Costituzione si possono bensì derivare principi regolatori, ma non anche fattispecie normative (esemplare, in questo senso, la riflessione, contenuta in questo volume, sulle attuali criticità del testo unico sugli infortuni sul lavoro del 1965, ancora pesantemente condizionato dall’originaria logica dell’assicurazione contro il rischio professionale); e nulla è più lontano dal suo metodo dell’odierna tendenza a giustificare questa o quella soluzione pratica citando articoli della Costituzione “come i numeri del lotto o del gioco della morra”, giusta la feroce ironia di Francesco Gazzoni. Semmai, e tutt’al contrario, il richiamo ai principi costituzionali assolve in Persiani allo scopo di concettualizzare compiutamente due rilevanti novità che erano comparse nel microsistema normativo della previdenza sociale: da un lato, nel 1947, la previsione dell’intervento del Fondo di solidarietà sociale per rivalutare il valore monetario delle pensioni, che era stato completamente polverizzato dall’inflazione postbellica; dall’altro, l’introduzione, nel 1952, del sistema a ripartizione in luogo del precedente sistema a capitalizzazione. Erano precisamente queste novità a spezzare il nesso di corrispettività tra contributi e prestazioni e ad approssimare il sistema pensionistico ad un sistema ‘a prestazione definita’: e l’una e l’altra cosa non erano in alcun modo spiegabili con il meccanismo assicurativo, e richiedevano piuttosto un mutamento di paradigma che fosse in grado di offrirne una adeguata sistemazione concettuale.
Questa è precisamente l’essenza del Sistema giuridico della previdenza sociale di Persiani: né più e né meno che una “rivoluzione scientifica”, che ci ha permesso di guardare a quel microsistema con occhi completamente rinnovati; “quasi che la comunità degli specialisti fosse stata improvvisamente trasportata su un altro pianeta dove gli oggetti familiari fossero visti sotto una luce differente e venissero accostati ad oggetti insoliti”, si potrebbe chiosare con Thomas S. Kuhn, l’epistemologo americano che alle rivoluzioni scientifiche e a come cambiano le idee nella scienza ha dedicato, molti anni or sono, uno studio ormai divenuto classico.
Ma lo scopo del ‘sistema’ resta pur sempre la soluzione del caso concreto: e di qui non solo il dialogo critico che Persiani ha costantemente mantenuto con la giurisprudenza, ma anche l’attenzione con cui la giurisprudenza (e mi riferisco qui specialmente a quella della Corte di cassazione) ha guardato al sistema di Persiani, fino al punto da riversare le sue stesse parole in alcune importanti sentenze: e penso ad es. alla n. 10649 del 1990, che – nel negare il diritto alla restituzione dei contributi versati e inutilizzati a seguito di ricongiunzione dei periodi assicurativi – cita dal Sistema di Persiani con tanto di virgolette, aggirando il divieto di citare autori giuridici di cui all’art. 118 att. c.p.c. semplicemente con la pudica omissione del suo nome.
In effetti, dopo un primo periodo di incertezza, la dogmatica elaborata da Persiani è stata ampiamente utilizzata dai giudici di legittimità per interpretare le disposizioni normative che il legislatore, nel corso degli ultimi cinquant’anni, ha torrenzialmente riversato nel microsistema normativo della previdenza sociale. Le nozioni di rapporto contributivo e rapporto previdenziale, la concezione dei contributi come imposte speciali, l’idea che il rapporto previdenziale sorga solo al manifestarsi dell’evento protetto sono state e tuttora sono alla base della ricerca di soluzioni che, nel mare magnum di una legislazione ispirata da principi e obiettivi non sempre coerenti (e anzi sempre più spesso confliggenti), rifuggissero dalle tentazioni opposte dello scetticismo e del fanatismo: i quali – come ci ha spiegato ancora Norberto Bobbio – convergono, sia pure per opposte ragioni, nel disconoscere l’utilità e il valore della “fatica del concetto” attraverso cui la dogmatica giuridica s’industria a trasformare la disposizione astratta della legge in norma applicabile al caso concreto, e preferiscono senz’altro rifugiarsi in soluzioni estemporanee, figlie di una presunta ‘giustizia’ del caso concreto.
Si deve purtroppo aggiungere che scetticismo e, ancor più, fanatismo sono tentazioni sempre più ricorrenti: e non solo nel diritto del lavoro e della previdenza sociale, ma anche nel diritto civile, che pure ha fatto da levatore di quel metodo; e contribuiscono ad instillarli – al di là delle loro migliori intenzioni – anche insigni allievi di Francesco Santoro-Passarelli, che – specie in questi ultimi anni – hanno espressamente affermato la necessità di liberarsi dal letto di Procuste delle categorie ordinanti per riapprodare ad un giudizio in cui il giudice, novello praetor peregrinus, venga chiamato, sotto il controllo di una non meglio identificata ‘comunità interpretante’, a bilanciare valori e principi secondo l’id quod aequum et bonum videbitur. E sono tendenze che, specialmente, soffiano potenti dalle giurisdizioni sovranazionali: le quali, come ha denunciato recentemente un altro insigne civilista, Carlo Castronovo, si sono avvalse di un materiale normativo assai povero e della continua sollecitazione di giudici nazionali “remittenti e remissivi” per edificare, con linguaggio rozzo e approssimativo, ingombranti strutture fatte di pochi elementi essenziali e strenuamente ripetuti, simili ai quartieri di periferia popolati di palazzoni tutti tristemente uguali; e pretendono che esse trovino sempre più spazio negli ordinamenti interni: e indipendentemente da una qualsiasi persuasiva sistemazione concettuale (il caso della ‘libera circolazione’ della situazione soggettiva del singolo nell’ambito della previdenza complementare, sul quale in questo volume possiamo leggere le precise osservazioni che Persiani scrisse all’indomani dell’emanazione del d.lgs. n. 252/2005, è sotto questi aspetti davvero emblematico).
In quest’ottica, non mi sentirei più tanto sicuro nel sostenere che “il giurista teorico riesce ad influire sulla giurisprudenza […] soltanto a condizione di essere un bravo ‘tecnico’ […] in grado di indicare ai giudici […] quale deve essere l’interpretazione delle singole disposizioni della legge che sia anche coerente con il sistema”, come invece, e ottimisticamente, ritiene ancora Persiani: temo piuttosto che il futuro prossimo della giurisprudenza sarà assai più segnato dalle suggestioni di quei giuristi che propongono di spostare i criteri della decisione giudiziaria al di sopra della legge, in direzione sia dei ‘principi’ espressi dalle norme costituzionali (specie se di matrice pattizia, come la Convenzione EDU o i Trattati europei), sia dei ‘valori’ di cui esse sarebbero espressione. “La sovranità dei valori è destinata a prendere il posto non solo della sovranità dello Stato, ma della stessa sovranità popolare”, ha scritto recentemente Nicolò Lipari: e convintamente, purtroppo, e nient’affatto con preoccupazione.
Per coloro che, come chi scrive, si sono formati nel convincimento che la dogmatica giuridica rappresenti un argine contro il soggettivismo – altrimenti incontrollabile – della decisione giudiziaria, sono derive pericolose: e non certo perché non si sappia che il diritto è sempre strettamente intrecciato alla politica e alla cultura del tempo di cui è espressione, e dunque a scelte di valore. Semmai, ciò che quella dogmatica ha sempre insegnato è che non è lecito all’interprete sostituire le proprie opzioni politiche e culturali a quelle fatte proprie dal legislatore nel bilanciare gli interessi in conflitto; e che, di conseguenza, dal procedimento interpretativo può se del caso residuare un margine di scelta circa “la diversa individuazione del punto in cui si realizza l’equilibrio voluto dal legislatore” (sono precisamente parole di Persiani, in uno dei saggi qui raccolti), fermo restando che ogni risultato interpretativo, per essere plausibile, deve poi poter essere approvato dal punto di vista del diritto positivo, cioè alla stregua del discorso – dei verba – del legislatore stesso.
In questo senso, è certo che l’utilizzo pur accorto della dogmatica non rende il giudice immune dall’errore: e ne è riprova l’ultimo saggio raccolto in questo volume, che è dedicato ad una critica severa di una “inattendibile decisione” resa dalla Cassazione in materia di retribuzione assoggettabile a contribuzione previdenziale, della quale proprio chi scrive è stato relatore e poi estensore. Ma la critica di Persiani ha sempre il pregio dell’intelligibilità, ciò che invece non possiedono le critiche che si appellano a ‘principi’ e ‘valori’ più o meno tiranni; e di questa intelligibilità, e della inevitabile fatica che comporta, il giudice, sinceramente, non può che essergli grato.