Testo integrale con note e bibliografia
1. Carlo Smuraglia partigiano dei diritti
Ricordare Carlo Smuraglia e il contributo che ha dato al diritto del lavoro è un compito improbo, non solo perché Carlo raccontava poco delle sue vicissitudini passate e la sua vita è stata notoriamente lunga e densa, anche perché Carlo non era soltanto un giuslavorista e il suo lavoro scientifico – e politico – spaziava dai temi del lavoro a quelli dell’antifascismo, dalla democrazia, alla lotta per la legalità. Devo necessariamente rinviare ad altri scritti la ricostruzione complessiva della sua figura, che do nelle sue linee essenziali acquisita. Sono infatti a tutti noti la sua partecipazione attiva alla Guerra di Liberazione dal nazifascismo, il suo ruolo di avvocato in cause fondamentali per la storia del Paese come lo scandalo Lockheed, il processo per la morte di Pino Pinelli, quello per il disastro di Seveso, e il suo ruolo di Presidente della Regione Lombardia e della Commissione lavoro del Senato, il suo sostegno a Giovanni Falcone nel CSM, la guida dell’Anpi e la sua battaglia per il no alla riforma della Costituzione Boschi-Renzi in occasione del referendum del 2016. Vicende importanti, che però da sole non restituiscono il senso di una vita passata più tra i movimenti, la cittadinanza attiva, il sindacato e la società civile che tra le istituzioni e nelle alte cariche, che pure aveva ricoperto per un considerevole lasso di tempo. Né danno conto della sua coerenza e del suo rigore morale, della sua compostezza, del suo modo di rapportarsi agli altri sempre paritariamente, della sua capacità di prevedere le difficoltà che si profilavano all’orizzonte e soprattutto di mobilitare le persone nell’elaborazione delle possibili risposte.
2. Il contributo di Carlo Smuraglia alla democratizzazione del sapere: il suo ruolo nell’Università
Limitando quindi questo contributo agli aspetti che più ci riguardano come comunità giuslavoristica, vorrei anzitutto ricordare che la carriera accademica di Carlo Smuraglia è stata assai travagliata. Egli subì da giovane pesanti discriminazioni per il suo essere dichiaratamente comunista: ne dà chiaramente conto Pera nella sua storica intervista del ’94 e uscita postuma sulla Rivista italiana di diritto del lavoro nel 2006 . Arriva alla cattedra di prima fascia solo nel ’73 , dopo essersi trasferito a Milano e aver collaborato per lungo tempo con Luisa Riva Sanseverino, assumendo per incarico l’insegnamento di Storia dei Movimenti Sindacali a Giurisprudenza. Partecipa a questo punto alla costituzione della Facoltà di Scienze politiche di Milano, dove resterà dal ‘75 fino a fine anni ’80. È importante ricordare queste vicende, perchè quel progetto di nuova Facoltà rispondeva a bisogni fondamentali che provenivano dalla società: quello di avere un polo culturale laico e orientato a sinistra, anche se per lo più riformista, quello di democratizzazione del sapere che proveniva dai movimenti studenteschi. Senza cedere a rivendicazioni discutibili come il 18 politico, dalla sua Cattedra di diritto del lavoro sperimenterà metodi didattici innovativi, avviando ricerche collettive che vedranno la partecipazione di ispettori, giudici del lavoro, lavoratori e operai che usufruivano delle 150 ore, in cui sviluppa un metodo di ricerca che si caratterizza per l’esperienza diretta sul campo, con diverse missioni all’interno dei luoghi di lavoro, l’analisi documentale, il coinvolgimento degli operatori e delle associazioni impegnate sul tema di volta in volta considerato.
Caratterizza il suo insegnamento anche una spiccata tendenza all’interdisciplinarietà, con l’attenzione alle acquisizioni provenienti dal sapere della medicina del lavoro e dell’ergonomia, di cui a quei tempi la comunità lavorista non parlava affatto. Ne abbiamo testimonianza in un volumetto rimasto sconosciuto e ritrovato dal movimento della Pantera negli scantinati della Facoltà anni dopo, intitolato “I problemi della sicurezza del lavoro. Ricerche collettive nell’ambito del corso di diritto del lavoro” (Cuesp, 1975). È quella forse l’unica occasione in cui Smuraglia parla cautamente di “uso alternativo della Magistratura” perché, diciamolo subito, l’uso che Carlo propugnava del diritto era nella sostanza alternativo, ma per lui era semplicemente interpretare la normativa coerentemente ai precetti costituzionali e pretenderne l’effettiva applicazione. Si dà conto in quel volumetto anche di altre ricerche analoghe svolte, sempre con la collaborazione dei magistrati e degli allora assistenti Ichino e Sala. Ricordo questa vicenda per la testimonianza che ci lascia di un approccio al sapere – e al modo di produzione del sapere si direbbe con Foucault – che è specialistico ma mai settoriale, che coniuga le problematiche specifiche all’interno del contesto economico sociale e politico. La ricordo anche però, soprattutto, per l’esempio che ha dato, perché Carlo Smuraglia è stato anzitutto un Maestro della democratizzazione del sapere: il suo insegnamento ha sempre mirato a trasmettere, con una chiarezza invidiabile, conoscenze tecniche e scientifiche anche ai più, al fine di consentire a tutti di maneggiare concetti giuridici anche sofisticati. Era un approccio che rispondeva perfettamente all’idea che Carlo aveva del cittadino-lavoratore: emancipato dall’oppressione e partecipe attraverso l’azione collettiva alle scelte del Paese, su cui torno più avanti.
Sono queste le fondamenta su cui dà vita all’Istituto di diritto del lavoro di politica sociale, che gestirà il curriculum della Facoltà specificatamente dedicato ai Problemi del lavoro e delle relazioni industriali. Non sono in grado di ricostruirne esattamente le vicende: quando vi approdai io, da studentessa nell’ 1987, vi erano Carlo Smuraglia alla cattedra di Diritto del lavoro, Domenico Pulitanò a quella di Diritto penale del lavoro e Luisa Isenburg al Diritto della sicurezza sociale – insegnamenti questi ultimi che non trovavano corrispondenza a Giurisprudenza. Più tardi vi sarebbe stata chiamata anche Bianca Beccalli alla Sociologia del lavoro. Animavano l’istituto Franca Borgogelli, la prima allieva diretta di Carlo Smuraglia, e Pietro Ichino anch’egli allievo di Luisa Riva Sanseverino, ma in qualche modo anche di Carlo. Era il primo embrione di quello che poi diventerà, con l’arrivo, fortemente voluto da Pietro Ichino, di Marino Regini, Michele Salvati e Maurizio Ferrera uno dei più importanti centri di ricerca interdisciplinare dedicato ai temi del lavoro: il Dipartimento di scienze del lavoro, oggi, a seguito delle riforme istituzionali, confluito nel Dipartimento di scienze sociali e politiche.
3. Gli anni del garantismo costituzionale e la persona del lavoratore tra contratto e libertà…
Smuraglia apparteneva prima di tutto alla c.d. corrente garantistico-costituzionalistica, quel filone del pensiero giuslavoristico che dalle pagine della Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale si impegnò a rileggere il diritto del lavoro corporativo alla luce delle norme costituzionali. Un’opera non facile, ostacolata in un primo tempo dalle letture di una giurisprudenza e di una dottrina, ancora formatesi in epoca corporativa, che al più riconoscevano valore programmatico alla Costituzione e successivamente dal prevalere delle correnti di pensiero che affidavano all’autonomia collettiva il compito principale di regolazione del rapporto di lavoro . L’innovazione principale della lettura costituzionalistica, cui Smuraglia ha contribuito assiduamente con una serie di scritti sulla Rivista giuridica del lavoro a partire dal ’56, sta nell’aver individuato nel II c. dell’art. 3 Cost. il fulcro principale dell’interpretazione: Smuraglia vi leggeva il riconoscimento di una società divisa dalle differenze di ordine economico e sociale, che presuppone un riequilibrio attraverso un sistema di garanzie tali da bilanciare il potere economico imprenditoriale con la primazia sociale e politica delle forze del lavoro. In tempi in cui ciò non era affatto scontato, si superava la concezione liberale dei diritti e si sosteneva che, pur non essendosi giunti, per il carattere convenzionale della Costituzione, ad un testo classista, diretto all’instaurazione della dittatura dei lavoratori, esso mirava a bilanciare la “già esistente dittatura delle forze del privilegio economico” . È in questa lettura che i diritti al lavoro, alla retribuzione sufficiente, alla sicurezza sociale e di autonomia collettiva enucleati dalla Costituzione diventano diritti indisponibili della persona, immediatamente operanti anche nei rapporti tra privati .
Direi che l’apporto singolare di Carlo Smuraglia a quelle dottrine si possa individuare su due aspetti, peraltro tra loro strettamente connessi: l’aver saputo coniugare la costruzione dei diritti costituzionali del lavoratore con la lettura contrattualistica del rapporto di lavoro e il rilievo attribuito alla persona del prestatore di lavoro nell’ambito del contratto. Carlo Smuraglia riteneva che tutto il diritto del lavoro dovesse essere non solo ripulito dalle incrostazioni corporative ma anche riletto e reinterpretato alla luce dei nuovi valori costituzionali. Anche quando costruisce la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo nelle fabbriche attraverso il richiamo alle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost., egli vede nella norma il mero riferimento al fatto che detti diritti debbano operare anche nei rapporti intersoggettivi (tesi che, come ben sappiamo, stenta ancora ad affermarsi pienamente). L’impresa è una formazione sociale dunque, ma non un’istituzione caratterizzata dalla comunanza di interessi delle parti. “Bandita la retorica corporativa, più realisticamente la Costituzione considera l’imprenditore ed il lavoratore non come alleati o cooperatori per il raggiungimento di un fine comune, ma – per usare una terminologia contrattualistica – come parti contrapposte, per le quali possono anche presentarsi punti di contatto o coincidenze occasionali di interessi, ma mai identità di fini” . Dal comma I dell’art. 41 Cost., Smuraglia riconosce appieno che i fini dell’impresa “non sono che quelli personali dell’imprenditore” cui si possono imporre solo limiti negativi. L’indagine sul contratto di lavoro e sulla rilevanza della persona trova consacrazione dopo numerosi scritti minori nella monografia del ‘65 “La persona del prestatore nel rapporto di lavoro. I. Intuitus personae” (Giuffrè, 1965). Carlo Smuraglia vede nel contratto la garanzia fondamentale di libertà, da leggersi però in un quadro nuovo delle posizioni delle parti del rapporto di lavoro, perché caduta la concezione corporativa e organicistica dell’impresa non resta che un rapporto in cui i poteri sono legittimi e si giustificano intanto in quanto funzionali all’organizzazione del lavoro. È per Smuraglia la fine della gerarchia intesa in senso ampio e l’inizio di quella che verrà in seguito definita la c.d. subordinazione tecnico-funzionale. Il dovere di obbedienza non è ora che un momento della necessità di adempimento dell’obbligazione contrattuale.
Ha scritto più volte Smuraglia che il compromesso costituzionale ha potuto essere raggiunto soprattutto perché vi era l’accordo sul rilievo della persona e sulla garanzia dei suoi diritti inviolabili, ma egli era anche ben consapevole che si può intendere il concetto di persona in modi affatto diversi. Per Carlo Smuraglia il richiamo al concetto di dignità assume un ruolo fondamentale per l’interpretazione. Può sembrare paradossale, ma per quanto Smuraglia possa essere definito un paladino delle tutele del lavoro, egli non ci ha mai presentato un’immagine del lavoratore come persona bisognosa, da proteggere e men che meno da guidare. Alla parola tutele preferiva decisamente il termine garanzie: con la Costituzione “alla figura del prestatore di lavoro che vende le proprie energie in cambio della mercede si è sostituita la figura del cittadino che raggiunge il massimo della sua dignità sociale della sua personalità proprio nel momento in cui svolge la sua attività lavorativa” . Una persona libera dunque, anche se in posizione di svantaggio economico nella condizione di dover limitare con il contratto di lavoro la propria libertà proprio per potersi emancipare. Una persona libera che trova nell’azione diretta di autotutela prima ancora che nell’autonomia collettiva, la propria principale risorsa di autodeterminazione e di partecipazione alla vita del Paese.
Il rilievo attribuito alla persona nel rapporto di lavoro, lungi dal determinare l’insorgenza di obblighi di fedeltà o dal creare nuove obbligazioni, ha ora la funzione di rafforzare la posizione del lavoratore. Smuraglia sostiene che non è affatto necessario costruire la categoria generale dei doveri di protezione e di allargare gli obblighi derivanti dai criteri di correttezza e buona fede: gli obblighi di mantenere comportamenti non contraddittori con il contenuto della prestazione dovuta sono già desumibili dall’obbligazione principale e non possono essere ampliati se non violando il carattere della tassatività delle fonti di integrazione del contratto indicato dall’articolo 1374 c.c. A correttezza e buona fede Smuraglia riconosce solo il ruolo di criterio misuratore dell’adempimento, volto a “consentire un’indagine completa, vorrei dire «umana», di comportamenti” per operare un giudizio sull’attività che non sia soltanto di corrispondenza a un modulo astratto ma che tenga conto dell’ambiente in cui l’attività si è esplicata e delle circostanze del caso” . Dunque, il fatto che l’attività di lavoro coinvolga immediatamente la persona del lavoratore, non solo non costituisce un motivo di maggior soggezione, ma opera necessariamente come un ulteriore limite al potere dell’imprenditore.
4. …segue: e l’autotutela collettiva tra azione diretta e rappresentanza
L’elaborazione sul piano del diritto sindacale è del tutto coerente. Con al centro la persona del lavoratore, l’attenzione maggiore di Carlo Smuraglia si focalizza anzitutto sullo sciopero, visto come uno dei mezzi più importanti con cui può realizzarsi l’emancipazione e l’eguaglianza sostanziale fra cittadini. Per Smuraglia attraverso l’azione sindacale diretta i lavoratori possono acquistare coscienza delle proprie possibilità e il diritto di partecipare alla vita politica, economica e sociale del Paese. È ampiamente debitrice degli scritti di Carlo Smuraglia la tesi dell’indisponibilità del diritto di sciopero quale diritto assoluto della persona, già avanzata in un saggio del 56 apparso sulla Rivista giuridica del lavoro . Questa visione incide profondamente sugli effetti contrattuali dell’esercizio del diritto di sciopero, che Smuraglia non esita a definire “multiforme manifestazione al contempo individuale e collettiva… incidente al contempo sui rapporti collettivi e su quelli squisitamente interprivati”. In relazione alla funzione così individuata, lo studioso non esita a qualificare lo sciopero come diritto soggettivo riconosciuto al lavoratore per la tutela di un interesse collettivo , garanzia che pone il datore di lavoro in una posizione di soggezione tale da escludere la possibilità per lo stesso di qualunque provvedimento di reazione o ritorsione. E’ il collegamento diretto con le istanze di partecipazione dei lavoratori a determinare il carattere preminentemente individuale del diritto che il lavoratore esercita “per la tutela dell’interesse suo proprio coincidente con analogo interesse di una collettività”, diffidando delle prospettive di attribuzione della titolarità al sindacato, che si tradurrebbero in una limitazione del diritto dei non associati .
Ma è sul piano penalistico che l’opera di Carlo Smuraglia è stata ancora più incisiva, sostenendo l’Autore, anche dinanzi alla Corte costituzionale , la tesi dell’abrogazione delle norme del codice penale che lo sanzionavano. Ricordo in proposito il suo “Diritto penale del lavoro” dove si affrontano e circoscrivono, sulla base di solide argomentazioni giuridiche che non posso qui riprendere, il tema della legittimità degli scioperi politici, di solidarietà e di protesta e si delineano altresì i limiti di applicabilità delle sanzioni penali spesso evocate in occasione delle lotte sindacali, a partire dalle questioni dell’applicabilità dei norme sanzionatrici dell’occupazione di azienda, di violazione del domicilio, di sabotaggio e boicottaggio, e di violenza privata e sequestro di persona (con riferimento al picchettaggio).
La preminenza data al diritto di sciopero non determina certo l’insensibilità verso il tema della rappresentanza sindacale, cui Smuraglia ha dedicato più attenzione forse da politico che nei suoi scritti. Devo qui necessariamente limitarmi a ricordare come egli abbia sempre rivendicato – sin dalla monografia del ‘58 e poi con più incisivo vigore con riferimento la figura dell’Rls – la necessità di una norma che renda obbligatoria l’esistenza di rappresentanze o delegati sindacali in ogni azienda per garantire la libertà e i diritti dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro.
Il pensiero di Smuraglia si ispirava a una logica di democrazia sindacale che avrebbe dovuto mirare a “consentire la formazione di una disciplina il più possibile spontanea e rispondente alle esigenze che via via si manifestano nei diversi rami e luoghi dell’economia …, A consentire … la partecipazione diretta delle forze del lavoro” . Per questo, pur ritenendo perfettamente logico che non potesse esserci una parità formale tra i sindacati, essendo evidente naturale la diversità di peso e di forza di ciascuno, temeva il potere di accreditamento, vuoi della controparte datoriale, vuoi dell’autorità pubblica. Questa avrebbe potuto attentare alla libertà sindacale ove fosse stata posta in condizione di selezionare i sindacati “sulla base di criteri imprecisi e generici, attribuendo magari un’importanza maggiore proprio quelle organizzazioni che in realtà ne hanno meno”. L’attentato alla libertà sindacale si realizza qui – egli sostiene – mediante l’influenza sulle scelte del singolo “perché è naturale del singolo sia portato ad aderire a quelle organizzazioni che vede considerate più rappresentative” .
5. Il contributo al diritto penale del lavoro
Anche se strettamente correlato ai temi della salute e sicurezza sul lavoro, su cui torno tra breve, il contributo di Carlo Smuraglia al diritto penale del lavoro e alla sua evoluzione merita una menzione a sé. Egli era ben consapevole e scriveva che il diritto penale del lavoro era solo un sottoinsieme del diritto del lavoro e che più strumenti sono necessari per assicurare le garanzie costituzionali nei luoghi di lavoro. All’obiezione di Mengoni, che riteneva inutile la tutela penale perché “nella gara di velocità tra il legislatore penale e gli uomini d’affari, il primo è sempre destinato a restare in svantaggio, sia per audacia che per ingegnosità” egli rispondeva che bisognerebbe piuttosto porsi in condizione di superare il gap tra legislatore e imprese , che il sistema è ineffettivo perché disordinato, alluvionale e connotato da sanzioni che, come ebbe a dire Romagnoli, fanno paura quanto il ruggito di un topolino. Smuraglia contribuirà notevolemente alla sistematizzazione della materia. Penso in particolare al lavoro volto al coordinamento tra le contravvenzioni previste dal decreti prevenzionistici del’55 e ’56, ma tuttora valido con riferimento alle sanzioni del d. lgs. n. 81/08, con gli articoli 437 e 451 c.p., di cui auspicava una rinnovata applicazione . Penso al lavoro volto a ricostruire, in relazione alla struttura dell’organizzazione dell’impresa, la posizione dei diversi soggetti, al fine di individuarne gli obblighi e di consentire l’effettiva imputazione delle responsabilità. Penso inoltre allo sforzo considerevole di ispirare la tutela anche penale alle finalità prevenzionistiche, cercando sistemi in grado di anticipare la linea di protezione. Di qui l’attenzione agli apparati amministrativi, alle funzioni dell’ispettorato del lavoro e al loro potere (all’epoca) di diffida. Non sono in grado di ricostruire in che modo fattivamente Carlo Smuraglia dai banchi del Senato contribuì a quei chiarimenti legislativi che portarono al superamento della diffida e al coordinamento tra il nuovo potere di prescrizione e il procedimento giudiziario, imponendo all’ispettore l’obbligo di rapporto all’autorità giudiziaria, salvo poi tenere sospeso il procedimento e consentirne l’estinzione solo in caso di cessazione della situazione di pericolo, ma mi pare di poter dire che gli artt. 19 e ss., d. lgs. n. 758/94, e in generale l’approccio di tutto quel decreto di depenalizzazione gli sia largamente tributario.
È importante anche la riflessione che Carlo Smuraglia fa sulle sanzioni penali, cercando il modo per renderle effettivamente deterrenti. Egli riteneva necessario agire sui costi per l’impresa pensando a sanzioni proporzionate al profitto derivante dall’illecito e soprattutto proponeva misure interdittive come l’incapacità di contrattare con le pubbliche amministrazioni, sanzioni a carico delle società e a provvedimenti di sospensione dell’attività sino alla regolarizzazione, che venne finalmente introdotta con la l. n. 123/07.
In epoca in cui si iniziava a parlare di depenalizzazioni, egli riconosceva i limiti della tutela penale sia sotto il profilo della sua scarsa celerità e dell’intasamento delle Procure, sia sul piano dell’ineffettività del sistema sanzionatorio, caratterizzato da pene pecuniarie facilmente estinguibili, sia per la mancanza di misure efficaci volte alla cessazione delle condotte illecite, soprattutto quando si trattava di rimuovere i pericoli per la salute sicurezza sul lavoro. Egli riteneva comunque che si dovesse mantenere la sanzione in tutti i casi di sfruttamento esasperato dei lavoratori o implicanti una particolare incidenza sul sistema del lavoro (facendo l’esempio espresso degli appalti vietati pure contrassegnati da una particolare pericolosità). Fu questo poi il criterio adottato con il d. lgs. n. 758/94, che però non è stato rispettato, come noto, nei più recenti provvedimenti di depenalizzazione generalizzata del 2016, che portarono alla trasformazione dell’illecito di somministrazione irregolare penale in amministrativo, tanto che legislatore dovette successivamente correre ai ripari alla luce dell’esplosione del fenomeno che la depenalizzazione aveva comportato.
6. Il dovere di sicurezza sul lavoro e la tutela della salute
È certamente la materia della tutela della salute e sicurezza sul lavoro il tema giuslavoristico che più lo ha impegnato, con un’attenzione decisamente perdurante nel tempo, sia sul piano dell’elaborazione scientifica sia su quello dell’azione politica. Il suo “La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale” esce in una prima edizione nel ’62, in una seconda nel ‘67 e in una terza, la più conosciuta, aggiornata con le novità di cui all’art.9 St. lav., nel ’74. Gli scritti successivi in materia non si riescono neppure a contare . La visione di Smuraglia era radicale. Egli leggeva il dovere di sicurezza non solo sulla base degli artt. 2087 c.c. e 32 Cost.: richiamando il divieto degli atti di disposizione del proprio corpo di cui all’art. 5 c.c. e il limite della sicurezza umana cui al c. II dell’art. 41 Cost. egli sosteneva la totale illegittimità dell’iniziativa imprenditoriale pericolosa e l’insussistenza di una valida e legittima obbligazione di lavoro ove vi fosse il rischio di una menomazione permanente dell’integrità del lavoratore . Anche se questa lettura, direi estrema, non trovò seguito, quella monografia resta tuttora un punto di riferimento centrale.
Nella versione del ’67 – parlo di questa perché non ho avuto modo di leggere la prima – Smuraglia interpreta l’art. 2087 c.c. quale dovere di sicurezza del datore di lavoro avente carattere bifrontale: pubblicistico a tutela dell’interesse generale e privatistico a garanzia del diritto alla salute del singolo lavoratore. Vi vede subito una fonte di integrazione del contratto ex art. 1374 c.c., cui consegue la legittimità oltre che dell’eccezione di inadempimento, anche dell’azione per la richiesta di esecuzione in forma specifica dell’obbligo. È noto che in seguito, soprattutto con i contributi di Spagnuolo Vigorita e Montuschi prevalse una lettura della norma esclusivamente contrattualistica, ripresa più recentemente da alcuni più giovani studiosi ; ma come ho detto, Smuraglia coniugava interesse pubblico e diritto soggettivo individuale, come verrà anche riconosciuto a seguito dell’emanazione del d.lgs. 626/94 da più recente dottrina . Al di là del nodo interpretativo tuttora aperto, l’eredità del lavoro di Smuraglia resta incommensurabile, sia per l’estensione dell’obbligo di sicurezza che egli ricava dalla formula “particolarità del lavoro, esperienza e tecnica” dell’art. 2087 c.c., sia per l’impostazione attenta oltre che ai profili prettamente civilistici, a una visione complessiva che coinvolge prima di tutto la dimensione collettiva dei lavoratori e anche il ruolo dell’amministrazione e dei servizi deputati alla vigilanza.
Sul primo profilo, già dagli studi del ’67, la norma è prevenzionistica e non meramente risarcitoria, ha carattere di chiusura rispetto alla normativa speciale, sancisce l’obbligo di aggiornamento costante delle misure rispetto al progresso tecnico, da prendersi secondo Smuraglia “con ragionevolezza” non potendosi pretendere che il datore di lavoro introduca o sperimenti mezzi di profilassi del tutto nuovi , ma nemmeno limitati alle misure “concretamente attuabili, cui faceva riferimento il d. gls. n. 277/91 o alle sole “applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti” di cui parlava la sentenza 312/1996 della Corte costituzionale. La visione è ampia e avanzata anche sotto un altro aspetto: in un contesto in cui ancora si confidava pressoché esclusivamente sul dispositivo tecnico di prevenzione per realizzare condizioni di lavoro sicure, egli introduceva il tema dell’organizzazione del lavoro, della necessità di tenere presente tutti gli aspetti di pericolosità. Un dovere di sicurezza che già nella monografia del ‘67 includeva l’obbligo del datore di lavoro di scegliere i lavoratori più adatti per ciascun compito tenendo conto delle loro capacità e attitudini e che porta lo studioso a introdurre nei discorsi giuridici le problematiche relative alla fatica, ai ritmi di lavoro, ai tempi di saturazione, allo stress e all’ergonomia, al benessere psicologico e all’influenza dei fattori esterni all’ambiente di lavoro, in quella logica di tutela della salute negli ambienti di vita e di lavoro che troverà poi consacrazione nella legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, l. n. 833/78 . L’attenzione ai nuovi rischi è costante nella sua opera, la ritroviamo sin dai primi approcci al tema del progresso tecnologico in un notissimo scritto del ’60, ove già si individuano i limiti di legittimità del controllo mediante videocamere che poi ritroveremo nell’art. 4 St. lav., e la ritroveremo anche negli scritti più recenti. Penso in particolare alla relazione conclusiva dell’Indagine conoscitiva sull’igiene sicurezza sul lavoro del Parlamento che presiedette a partire dal ‘97, ove si parla oltre che di mobbing e burn out, dei rischi insiti nel pendolarismo, nell’uso delle nuove sostanze che hanno preso il posto dell’amianto, di sindrome dell’edificio malato e di molti altri fenomeni di cui all’epoca non si aveva ancora adeguata consapevolezza.
Nell’opera di Carlo Smuraglia il tema della salute e sicurezza si fonde con gli studi penalistici e con la sensibilità al problema dell’effettiva applicazione della normativa da parte delle amministrazioni. E non possiamo proseguire il discorso senza tener conto del fatto che a un certo punto l’attività di studioso, e di avvocato, si fonde con quella di parlamentare.
Dai banchi del Senato fu protagonista di una dura battaglia per l’effettiva applicazione della nuova normativa introdotta con il d. lgs. n. 626/94. Si batté non solo per porre fine allo stillicidio di proroghe – detestava le prassi del rinvio dell’attesa – all’entrata in vigore delle nuove norme, ma anche per l’emanazione di tutti i decreti ministeriali che vi avrebbero dovuto dare attuazione, denunciando – e proponendo puntuali soluzioni per – l’immobilità della pubblica amministrazione, un adempimento da parte delle imprese dell’obbligo di valutazione dei rischi che nelle migliori ipotesi era meramente formale, lo sviluppo di un mercato di pseudoconsulenti per la sicurezza che abusava delle necessità di adeguamento delle piccole imprese, il problema della cronica, grave carenza di risorse dei Dipartimenti di prevenzione delle Asl, la mancanza di medici competenti, le problematiche connesse agli accertamenti sanitari e quelle relative al coordinamento dei Ministeri del lavoro e della Sanità e numerose altre questioni che non posso qui dettagliare.
Sul piano dell’azione collettiva, diversi disegni di legge e innumerevoli suoi interventi mirarono a rafforzare il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza perché fossero dotati di effettivi poteri. e per consentirne la legittimazione processuale sia sotto il profilo delle possibilità di ricorso diretto all’art. 28 St. lav., sia per quanto riguarda la costituzione di parte civile nei processi per l’accertamento delle responsabilità in caso di infortuni sul lavoro e malattie professionali. Carlo Smurglia auspicava altresì l’introduzione di misure analoghe a quelle dei paesi del Nord Europa ove l’autorizzazione del rappresentante è necessaria per la ripresa dei lavori dopo casi di grave infortunio.
Inutile dire che con la fine della sua esperienza parlamentare i tentativi di revisione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro nel segno di una “semplificazione” sempre più orientata al riduzionismo delle tutele prevenzionistiche che alla razionalizzazione ed effettività della normativa si fecero più intensi, soprattutto a seguito delle previsioni contenute nel Libro bianco sul mercato del lavoro del 2001 e conseguentemente nella legge delega di semplificazione n. 229/03 . Il quadro dell’epoca era estremamente complicato anche in ragione della appena varata riforma del Titolo V della Costituzione (che Carlo Smuraglia non votò, astenendosi). La l.n. 229/03 mirava a ridurre l’ampiezza dell’obbligo di sicurezza del datore di lavoro superando il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile e affidando la determinazione dei suoi contenuti a non meglio precisate buone prassi anziché a disposizioni legislative. Si può osservare che anche le proposte di Smuraglia miravano in qualche modo a una delegificazione volta a consentire l’aggiornamento rapido delle disposizioni tecniche in relazione al progresso scientifico, tuttavia attraverso meccanismi che garantivano il collegamento tra la norma giuridica e quella norma tecnica, di cui nello schema di decreto legislativo attuativo all’epoca presentato dal Ministro Sacconi (e ritirato proprio per la vasta opposizione che incontrò) non vi era alcuna traccia. La finestra di opportunità che si aprì nel 2006 con il cambio di maggioranza politica e che portò alla legge delega n. 123/2007 e poi al d.lgs. 81/08, in larga parte improntato a porre rimedio ai limiti di effettività del d. lgs. n. 626/94, fu troppo breve per riuscire a determinare una decisiva inversione di rotta. Se già, con grande disappunto di Carlo Smuraglia, il d. lgs. n. 81/08 mostrava cedimenti rispetto alle previsioni della legge delega, il d. lgs. correttivo n. 106/09 segnerà un significativo passo indietro su più punti qualificanti. Non fu l’unico intervento riduttivo: altri, sui cui non posso qui entrare nel merito, seguirono. Ci rimane una legislazione ancora in buona parte in attesa delle norme attuative e sempre esposta a tentativi riduzionistici.
7. Carlo Smuraglia e le riforme della XIII Legislatura
È noto che la 13ª legislatura, l’ultima a cui partecipò, si chiuse senza l’approvazione delle sue più importanti proposte di legge: il Disegno di legge delega per l’emanazione di un testo unico di riordino e razionalizzazione della normativa in materia di salute sicurezza sul lavoro, che lo impegnò per un considerevole periodo di tempo, pur approvata in Commissione lavoro, lì si arenò . I disegni di legge sulle molestie sessuali nei luoghi di lavoro e sulla tutela dei lavori atipici approvati dall’Aula del Senato, si arenarono alla Camera . Non vi era allora, nemmeno all’interno della maggioranza, il consenso politico su proposte che all’epoca sembravano radicali, e in parte lo erano, ma che in buona parte erano solo lungimiranti. Al di là di quei fallimenti, però, l’impegno dello Smuraglia politico si fece sentire, eccome! Oltre alla nota legge n. 193/2000 sul lavoro dei detenuti, per la quale sono davvero in tanti a non smettere di ringraziarlo, posso testimoniare, anche se non sono in grado di ricostruire gli atti specifici, il suo contributo determinante alla formulazione del d. lgs. n. 38/2000, con l’estensione dell’assicurazione per infortuni sul lavoro e le malattie professionali ai collaboratori coordinati e continuativi e con il riconoscimento del risarcimento del danno biologico; alla formulazione della l. n. 68/99 sul collocamento mirato dei disabili; alla riforma dei patronati alla l. n. 152/01, ove le competenze degli istituti, sino ad allora limitate alle prestazioni previdenziali, vennero ampliate all’assistenza per tutte le pratiche relative agli istituti di sicurezza sociale, riforma che si rivelerà fondamentale negli anni più recenti a fronte della digitalizzazione delle importanti modifiche che la materia ha subito.
8. Il metodo di lavoro di Carlo Smuraglia
Non posso chiudere senza dare conto del modo particolare con cui Carlo Smuraglia lavorava e con cui condusse la Commissione lavoro del Senato, perché ebbe la straordinaria capacità di costruire il consenso su alcune questioni fondamentali anche tra le forze politiche contrapposte, cosa che negli anni in cui ebbi l’opportunità di collaborare con lui non cessava di stupirmi. Certo poi la più ampia arena politica, dove si perdevano quei percorsi collettivi volti anzitutto la costruzione del sapere e dell’accordo sull’individuazione fattiva delle riforme necessarie, era purtroppo tutt’altra cosa.
In Commissione lavoro portò il suo modo di lavorare sul campo e collettivo, promuovendo due importanti indagini: la prima sull’attuazione della legge n. 125/91 in materia di azioni positive e la seconda sull’attuazione del decreto 626/94. In entrambi i casi le indagini sono partite dalla raccolta del materiale, scrivendo e richiedendo documentazione a tutti gli organismi regionali e a tutti i soggetti pubblici e privati attivi (e inattivi) sul tema, svolgendo audizioni e soprattutto recandosi in missione in luoghi diversi, ascoltando direttamente rappresentanti di uffici pubblici, delle parti sociali, di magistrati e associazioni. In entrambi i casi i risultati si trasformarono in un’opera di denuncia soprattutto dell’inefficienza della pubblica amministrazione, che ha pochi pari.
Nella prima indagine sulla l.n. 125/91 troviamo le denunce relative alla scarsità di finanziamenti –ahinoi perduranti tuttora – le lentezze burocratiche nell’approvazione delle azioni positive e nel loro finanziamento, alla totale mancanza di attuazione dei piani, pur obbligatori, delle amministrazioni pubbliche, alla composizione elefantiaca del Comitato nazionale di parità e soprattutto, alla situazione di abbandono dei Consiglieri di parità. Nella Relazione conclusiva si parla di ritardi incredibili nella loro nomina, di mancata dotazione e la strumentazione necessaria, di contestazione controversie sulle loro funzioni, di irrilevanza del gettone di presenza loro riconosciuto. Delle risultanze dell’indagine farà tesoro il d. lgs. n. 145/00 che com’è noto rafforzerà la posizione dei consiglieri delle consigliere di parità istituendone anche la rete – una misura peraltro insufficiente, non idonea a garantire l’indipendenza dei consiglieri dai poteri politici che pure in quell’indagine si auspicava – mentre la legislazione successiva vede sostanzialmente lo smantellamento delle istituzioni di parità, soprattutto nell’opera di “razionalizzazione” portata avanti nel periodo dell’austerità.
Lo stesso metodo seguì con l’indagine conoscitiva sulla sicurezza e l’igiene del lavoro, condotta congiuntamente dalle Commissioni lavoro di Camera e Senato nel ‘97 , che fu un lavoro mastodontico durato un anno con il coinvolgimento di tutte le associazioni degli operatori del settore, la richiesta di informazioni e documenti a organismi pubblici e privati nazionali e internazionali, lo svolgimento di un numero infinito di audizioni, di tutte le parti sociali e associazioni esponenti di tutte le diverse categorie produttive, e con numerose missioni dirette sul campo, tra cui ricordo per la loro significatività, quella a Taranto, dove le problematiche che si pongono oggi in termini estremamente drammatici erano già tutte evidenti, e quella nel vicentino volta a verificare direttamente le condizioni di sfruttamento degli immigrati impiegati nella concia della pelle.
Di quell’esperienza a tutti noi studiosi, a prescindere dall’orientamento politico e dalle diverse sensibilità, rimane anzitutto un insegnamento di metodo fondamentale: si scende in campo, si vede e si tocca con mano, si ascolta e ci si confronta con tutti, si individuano le cause facendo ben attenzione a distinguere i difetti e le lacune legislative, le circostanze culturali, sociali ed economiche, le responsabilità delle amministrazioni, delle forze sociali e anche dei singoli. Si individuano le necessarie riforme legislative e/o amministrative e si avanza una proposta risolutiva. Ma ci si deve guardare bene dal credere che il lavoro sia finito lì. Perché, come scriveva Smuraglia, ogni innovazione legislativa, specie le più avanzate, ha poi bisogno di un’amministrazione che le dia le gambe per marciare. Talvolta di una “spinta eccezionale per superare le resistenze e difficoltà” . Per questo, “i sostenitori dei principi più avanzati dovrebbero guardarsi dall’abbassare la guardia, una volta ottenuta l’affermazione formale di essi attraverso l’approvazione di una legge” perché la disattenzione di quanti dovrebbero darvi applicazione può essere la prima causa di ineffettività.
A quanti condividono i valori che hanno ispirato tutta la sua vita rimane un’eredità preziosa e il compito di provare almeno a proseguire in quel duro lavoro volto a condividere e a far vivere anche nei luoghi di lavoro quell’idea di libertà ed eguaglianza sostanziale, quella difesa della Costituzione che egli considerava elemento irrinunciabile della convivenza democratica. Soprattutto, a chi di noi insegna, lascia il compito di democratizzare sapere, perché, come ha scritto nell’introduzione dell’ultimo lavoro che ha curato, il diritto e gli strumenti di tipo istituzionale “vanno conosciuti utilizzati non solo dagli esperti, ma dai cittadini che intendono reagire agli atti di arroganza e di violenza” .