TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il ruolo del salario minimo nelle politiche di contrasto alla povertà lavorativa
Sebbene le politiche di contrasto al lavoro povero non si riducano al salario minimo legale, non vi è dubbio che esso ne costituisca un nucleo centrale. Tant’è che la relazione della commissione costituita dal Ministero del lavoro allo scopo di proporre “interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa” parte proprio dallo strumento del salario minimo, sebbene lo ritenga strumento necessario ma non sufficiente .
Da tempo mi occupo di salario minimo, tra i non molti giuslavoristi in Italia. La definizione di un salario minimo legale, per lo più intercategoriale, è diffusa in tutto il mondo. La gran parte dei paesi dell’Unione Europea, da quelli più grandi e storici ai cd. newcomers, ha un salario minimo stabilito per legge. Al club dei paesi con salario minimo si è aggiunta recentemente, a partire dal 2015, la Germania.
Lì, come reazione all’autoritarismo del periodo nazista, con la determinazione della politica salariale da parte del governo, i sindacati dei lavoratori e le associazioni datoriali sono sempre stati, nel passato, concordi nel non lasciare allo Stato il compito di fissare i salari. Il loro atteggiamento è però cambiato quando, a seguito dell’erosione della contrattazione collettiva nazionale, anche a causa della diffusione di contratti single employer, in un certo numero di settori produttivi, salari adeguati non potevano più essere garantiti.
Tra i paesi privi di un salario minimo fissato per legge vi è l’Italia, dove la sua introduzione è oggetto di un dibattito inspiegabilmente inconcludente, che vede comunque l’opposizione a siffatta introduzione delle associazioni dei datori di lavoro, così come quella, assai meno spiegabile, dei sindacati dei lavoratori. Il timore di questi ultimi è che la determinazione di un salario minimo da parte del legislatore finisca per abbattere i livelli dei salari contrattuali.
Eppure storici studiosi delle relazioni industriali, si pensi a Sidney e Beatrice Webb, già alla fine dell’800, nel loro Industrial Democracy, hanno evidenziato che, lungi dall’ostacolare la contrattazione collettiva, il salario minimo legale risponde alle esigenze sia di garantire una tutela minimale a settori che il sindacato non è in grado di raggiungere, sia di fornire un sostegno generalizzato di base all’azione sindacale, sempre suscettibile di miglioramento.
Vi sono disegni di legge presentati in Parlamento che cercano di superare l’opposizione sindacale demandando in prima battuta ai contratti collettivi di fissare il minimo salariale, con, tuttavia, la definizione di un limite quantitativo operante come pavimento per la contrattazione collettiva e comunque come parametro per settori non coperti dalla stessa. Non nascondo che è difficile fissare questo limite quantitativo, tenendo conto di tutte le variabili, in primis economiche (si pensi alle diversità legate ai territori, in particolare nord/sud; alle dimensioni delle imprese; all’età dei lavoratori).
Tuttavia la diffusa posizione di avversione, in qualche misura preconcetta, ha fatto sì che la discussione non si sia mai spinta fino a questo punto; punto che invece è imprescindibile se si vuole pervenire a soluzioni razionali, in un senso oppure nell’altro. Insomma la discussione sul salario minimo si è sempre sterilmente arrestata in passato alla soglia dell’an, senza mai arrivare seriamente a quella del quomodo.
Ora l’impulso ad una maggiore concretezza nel dibattito è venuto dalle istituzioni europee. La Commissione europea ha proposto, a fine 2020, al Parlamento e al Consiglio l’adozione di una direttiva relativa a “salari minimi adeguati nell’Unione Europea”, di cui sono grandemente discusse la base giuridica e l’effettiva portata. A seguito dell’accordo politico tra Parlamento europeo e Consiglio del 6 giugno 2022, l’emanazione della direttiva sembrerebbe ormai prossima. Vi sono anche segnali che l’iniziativa – la quale di per sé non impone all’Italia di adottare un salario minimo stabilito per legge – sta cominciando a portare il dibattito italiano fuori dalle secche, cioè fuori dall’inconcludenza e dall’apriorismo che l’ha fin qui caratterizzato .
L’apertura di un dibattito serio sul salario minimo orario avrebbe (e in effetti sta avendo) anche un effetto benefico collaterale, non marginale: quello di rendere finalmente trasparenti, e forse semplificare, le “buste paga” italiane, caratterizzate da un anomalo affastellamento di voci, in specie di retribuzione differita, spesso del tutto anacronistico.
Penso a quando Gino Giugni, parlando dell’indennità di anzianità poi riformata e trasformata in TFR, faceva notare il carattere paternalistico e sempre meno giustificabile, a fronte del progresso del welfare state, di questa voce retributiva, tipicamente italiana. Ma, anche senza arrivare a tanto, basti pensare alla retribuzione per le festività soppresse, alla 14a e alla stessa 13a mensilità. Se noi distribuiamo tutte queste voci sulle retribuzioni orarie ne deriva che si tratta di cifre relativamente alte rispetto al salario mediano (più dell’80% del salario mediano suggerito dagli economisti).

2. Art. 36 Cost. e salario minimo legale
Fatta questa premessa di carattere generale, bisogna subito evidenziare che una delle ragioni, se non la principale ragione, della storica insensibilità italiana al salario minimo legale risiede nell’art. 36 della Costituzione e nella sua applicazione giurisprudenziale, da qualcuno indicata come la via italiana al salario minimo . In effetti, diversamente dai Paesi che conoscono un sistema di salario minimo legale, l’Italia (ed è probabilmente un unicum) contiene una norma nella Costituzione che sancisce la misura del salario facendo riferimento ai criteri di proporzionalità e sufficienza. E, come sappiamo, la norma, sin dai primi anni ’50, è stata ritenuta immediatamente applicabile nei rapporti interprivati indipendentemente dall’interpositio del legislatore.
Il rapporto tra l’art. 36 Cost. ed il salario minimo legale è un rapporto difficile. Proprio l’art. 36 della Costituzione è stato ritenuto da alcuni in passato un ostacolo all’introduzione del salario minimo legale, stante il duplice criterio della proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e della sua sufficienza a garantire al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa; duplice criterio non soddisfacibile attraverso una legislazione sui minimi salariali che, per come è normalmente costruita, con la previsione di un salario minimo intercategoriale, sarebbe improntata unicamente al criterio della sufficienza.
Non si può negare che le indicazioni che si ricavano dall’art. 36 Cost. siano enigmatiche. Tant’è che vi sono state in dottrina diverse letture della norma e della relativa giurisprudenza applicativa: a dimostrazione dell’intrinseca opinabilità interpretativa della prima, secondo qualcuno la giurisprudenza avrebbe privilegiato il criterio della proporzionalità, secondo altri il criterio della sufficienza. In verità, pare corretta la conclusione per la quale i giudici hanno fatto un uso sostanzialmente indistinto dei due criteri di proporzionalità e sufficienza . A conforto della tesi, che ho altrove sostenuto , che la norma contenga in realtà indicazioni più procedurali che contenutistiche: nel senso che ciò che la Costituzione esclude è la consegna della misura della retribuzione alla sola autonomia individuale, richiamando in ipotesi l’intervento di una “autorità salariale” (la legge, la contrattazione collettiva e, non a caso, in mancanza di esse nel sistema italiano, il giudice).
Escluso che l’art. 36 della Costituzione possa essere un ostacolo all’introduzione in Italia di un salario minimo intercategoriale, è vero che ad allontanare l’ipotesi del salario minimo è stata la sua applicazione giurisprudenziale. Ritenuto l’art. 36 immediatamente precettivo e, dunque, immediatamente applicabile nei rapporti interprivati, è il giudice che, in caso di contestazione, determina sostanzialmente qual è la retribuzione proporzionata e sufficiente, sebbene secondo le indicazioni della Corte di cassazione esso debba usare del self-restraint, assumendo come parametro di riferimento, sia pure non vincolante, i minimi retributivi fissati dai contratti collettivi. Ed anzi, costituisce ius receptum che se il giudice, “al fine di determinare la giusta retribuzione, intende discostarsi dalla norma collettiva, ha l’onere di fornire opportuna motivazione” .
L’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 della Costituzione non surroga tuttavia una legislazione sui minimi, per una serie di motivi. In primo luogo, occorre che un contratto collettivo ci sia, per desumerne i minimi retributivi; in secondo luogo, non si sfugge ad un certo soggettivismo giudiziale perché – a prescindere dal fatto che di norma sono prese in considerazione solo alcune voci costituenti il “minimo costituzionale” – i contratti collettivi sono utilizzati solo come parametri orientativi, da cui il giudice, motivando, può discostarsi, sia in più sia in meno. Ad esempio, alcune decisioni hanno tenuto conto, per discostarsi in meno dalle disposizioni dei contratti collettivi nazionali, delle condizioni locali del mercato del lavoro e del costo della vita, delle mercedi praticate nella zona e del suo carattere artigianale . Altre, invece, come vedremo tra poco, hanno preso a discostarsi in più anche rispetto ai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi. In terzo luogo, l’adeguamento salariale ottenibile tramite questa giurisprudenza dipende dall’iniziativa individuale (del singolo lavoratore), mentre l’introduzione per legge di un salario minimo avrebbe ovviamente un maggior grado di effettività perché sarebbe presidiata dagli strumenti sanzionatori a vigilanza pubblica. Naturalmente, come ammonisce l’OIL, fin dalla Convenzione n. 26 del 1928, ratificata dall’Italia, tali strumenti di vigilanza e sanzionatori devono essere adeguati. Ma questa, come è evidente, è un’altra questione.

3. L’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost. nella frammentazione contrattuale
Recentemente, e a prescindere dall’effetto di trascinamento da parte della proposta di direttiva europea, il problema del salario minimo ha acquistato attualità in Italia a seguito della proliferazione di contratti collettivi nello stesso ambito di riferimento, dovuta alla frammentazione sindacale e datoriale.
Si può ben dire che l’interruzione dell’integrazione sistemica tra l’ordinamento statale e l’ordinamento intersindacale ha reso problematica l’individuazione dell’equa retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost.
È pur vero che il legislatore in settori particolarmente sensibili (e vulnerabili) ha cercato di portare ordine proprio in materia retributiva rinviando alla disciplina posta dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Tipico è il caso del trattamento economico previsto per i soci di cooperativa, ma si può aggiungere il caso dei dipendenti delle imprese sociali (d.lgs. n. 112/2017) o degli enti del terzo settore (d.lgs. n. 117/2017) . E questo sistema è stato giudicato compatibile con l’art. 39 Cost., almeno con riferimento alle cooperative .
Abbiamo evidentemente il problema, in mancanza non solo dei criteri ma anche di un meccanismo di rilevazione della rappresentatività sindacale, di individuare quali sono – nei casi indicati – i sindacati legittimati a fungere da autorità salariale. Tuttavia, che risolvere questo problema non sia sufficiente – e quindi non vengano meno le indicazioni per un salario minimo legale – è dimostrato da alcune recenti sentenze che, attraverso percorsi logico-giuridici certo non lineari e anche criticabili, dal momento che, nel caso delle cooperative, il rinvio ai trattamenti retributivi fissati da quei contratti collettivi è stabilito dalla legge , si indicano i livelli retributivi fissati da sindacati pur ritenuti rappresentativi. Una sentenza che ha avuto una certa eco, Trib. Torino 2 luglio 2019, ha ritenuto che la retribuzione fissata dal CCNL nel settore cooperativo per la vigilanza privata, essendo al di sotto del tasso-soglia di povertà assoluta per un cittadino senza familiari conviventi in età compresa tra i 18 e i 59 anni (pari ad 984 euro), mentre il lavoratore percepiva 687 euro netti mensili, non integrasse la retribuzione proporzionata e sufficiente. Anche Trib. Milano 30 giugno 2016, sempre in relazione al settore cooperativo e al medesimo contratto per la vigilanza privata, ha ritenuto che la stipulazione del contratto da parte dei sindacati comparativamente più rappresentativi non lo mettesse al riparo dallo scrutinio di legittimità ex art. 36 Cost . Ancora recentemente Trib. Milano 22 marzo 2022, sempre con riferimento al CCNL per i dipendenti degli istituti e imprese di vigilanza e servizi fiduciari, ha ritenuto la retribuzione dallo stesso fissata non rispondente all’art. 36 Cost., in quanto inferiore al tasso della soglia di povertà stimato dall’Istat (e inferiore a quella garantita da altri CCNL similari per i corrispondenti livelli di inquadramento). Ma si può citare anche Trib. Rovigo 16 giugno 2020, che ha ritenuto il CCNL e quello aziendale successivamente applicato dalla datrice di lavoro non conformi al precetto costituzionale in quanto il livello retributivo previsto era inferiore al valore dei “voucher”, corrispondente a 10 euro lordi, con un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro pari a 7,50 euro.
Guardando a questa giurisprudenza, ma anche ai casi sottostanti, che cosa si può concludere dunque? Che la questione – tipicamente domestica – della difficoltà dell’accertamento della rappresentatività sindacale – e, ancora a monte, della delimitazione dei cd. perimetri – si interseca ma non si confonde con la questione del salario minimo, nel senso che la sua eventuale soluzione non fa venir meno le ragioni dello stesso.

4. Per un approccio integrato alla povertà lavorativa: salario minimo sperimentale?
La relazione del gruppo di lavoro sugli interventi e sulle misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia, nel tentativo esplicito di superare lo stallo (ideologico e conservatore) che affligge la discussione sul salario minimo legale in Italia, suggerisce di ipotizzare una risposta parziale e temporanea per settori in cui la situazione è più urgente mentre la riflessione continua a livello nazionale. In sostanza si tratterebbe di introdurre un salario minimo solo in via sperimentale e limitatamente ad alcuni settori in cui la situazione è particolarmente complessa ed esistono oggettive evidenze di fragilità dei lavoratori. Da tale esperienza si potrebbe poi procedere ad un monitoraggio e ad una valutazione, insieme alle parti sociali interessate, sul modello di quanto avvenuto in Germania, dove, a partire dal 1997, sono stati introdotti salari minimi definiti per legge, ma sulla base di un accordo tra le parti, per singoli settori.
È vero che una strategia di lotta alla povertà lavorativa richiede una molteplicità di strumenti per sostenere i redditi individuali, aumentare il numero dei percettori di reddito e assicurare un sistema redistributivo ben mirato. Essi, tuttavia, ruotano pur sempre attorno all’esistenza di salari minimi effettivi e rispettati. È evidente, ad esempio, che la corresponsione di in-work benefit ha un effetto sui redditi dei lavoratori solo in presenza di minimi salariali e di controlli sul loro rispetto e su eventuali comportamenti opportunistici di imprese e lavoratori. Allo stesso modo, la creazione di incentivi per le imprese al pagamento di salari adeguati e di un meccanismo informativo efficace per lavoratrici e lavoratori sull’accesso a misure di sostegno al reddito e sulle proprie prospettive pensionistiche ha effetti apprezzabili sui redditi di lavoro in presenza di un sistema di minimi salariali semplice e leggibile.

 

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.