Testo integrale con note e bibliografia
1. Presupposti
Da tempo e diffusamente sono focalizzati i fenomeni che hanno innescato il dibattitto sull’opportunità o la necessità dell’introduzione, anche nel nostro ordinamento, del salario minimo legale .
Esiste una questione salariale icasticamente raffigurata dalla povertà del lavoro . Il Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia ha rilevato, nella relazione presentata il 18 gennaio 2022, che un quarto di lavoratori in Italia percepisce una retribuzione individuale bassa, cioè inferiore al 60% della mediana, e un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà, cioè vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana. Nel XIX Rapporto annuale INPS del 2020 si quantificavano i lavoratori che sarebbero stati coinvolti dalla misura del salario minimo: con 9 euro all’ora, sarebbe stato interessato il 29,7% dei lavoratori (4,5 milioni in termini reali), con 8 euro il 16,8% (2,5 milioni). Il periodo pandemico non ha migliorato la situazione, che era, e rimane, grave. Tra i fattori scatenanti della questione sono quanto meno da considerare: - l’aumento della deregolamentazione contrattuale (contratti no standard, catene globali di valore) e del lavoro irregolare ; - la crescita incontrollata dei contratti collettivi nazionali, la difficoltà di individuazione dei contratti “leader” con il ricorso al criterio qualitativo del sindacato comparativamente più rappresentativo, il mancato rispetto dei minimi tabellari o la fissazione di minimi contrattuali al di sotto della retribuzione di povertà; - la diffusione del part time (tra l’altro involontario) e di figure contrattuali ibride, che non assicurano adeguato tempo di lavoro e retribuzione “dignitosa” e “sufficiente”; - la crescita dei settori low-skilled (servizi turistici e alle famiglie) e la presenza di lavori a bassa qualificazione; - l’aumento della diseguaglianza tra lavoratori, tra chi svolge lo stesso lavoro anche in ambiti diversi, e la persistenza del gender pay gap.
Ad essere maggiormente colpiti dal lavoro povero sono le donne, i giovani, i migranti, i lavoratori con bassa qualificazione: categorie impiegate prevalentemente nei settori del turismo, della ristorazione, della logistica, dell’agricoltura e nel lavoro di cura e domestico.
Il salario minimo si palesa pertanto come lo strumento principale – beninteso non unico - per contrastare la povertà del lavoro e realizzare una parità di trattamento a largo raggio su un livello minimale, come accade in un numero sempre più ampio di Paesi . Nel nostro, da tempo se ne discute ma senza alcun risultato concreto.
Eppure le ragioni di un intervento tempestivo sono ben evidenti perché la povertà del lavoro è inaccettabile in sé, è disastrosa socialmente ed eticamente, tocca un’ampia fetta di lavoratori e, insieme ad altre condizioni pessime e precarie, allontana dal lavoro (specie i giovani). Il salario minimo serve per garantire la libertà e la dignità di chi lavora e non vanno trascurati, in un’ottica mercantile, i vantaggi del possibile incremento della domanda interna e dei consumi.
Poiché anche le retribuzioni medie italiane sono minori rispetto a quelle degli altri paesi europei (secondo i dati Eurostat del 2021 ), è evidente che la questione è più ampia di quella del solo salario minimo, che resta tuttavia fondamentale. Sarebbe necessario un innalzamento delle retribuzioni tramite non solo aumenti contrattuali ma anche interventi sul costo del lavoro, in primis il taglio del cuneo fiscale. Secondo i dati Ocse l’Italia è al quinto posto come oneri sociali e fiscali sul lavoro (46,5% nel 2021) e, sebbene sia gravoso per il bilancio pubblico, il taglio andrebbe considerato in modo prioritario perché comunque vantaggioso per l’economia reale. La fissazione di un livello salariale minimo – che innalza i minimi salariali attuali - si rifletterebbe sugli altri livelli retributivi, innescando un aumento generalizzato delle retribuzioni.
Entrambe le misure potrebbero determinare la fuoriuscita dei lavoratori italiani dal duplice impasse della povertà del lavoro e delle retribuzioni meno adeguate rispetto agli altri Paesi europei e la riduzione della forte diseguaglianza sociale e distributiva. La questione salariale, insieme alla produttività (su cui incidono la scarsa innovazione tecnologica, il capitale umano più povero per livello di istruzione specie nelle materie tecniche e scientifiche), ha implicazioni decisive sulla conservazione del capitale umano nazionale, pure in crisi per il calo demografico. Insomma, essa possiede un effetto domino non trascurabile sulle condizioni sociali e contrattuali della classe lavoratrice.
2. Sintonie
Alcuni provvedimenti hanno affrontato qualche aspetto, che può incidere sul basso livello dei salari e sulle disparità presenti e note, contribuendo a comporre un mosaico di misure.
L’articolo 16-quater del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, in l. 11 settembre 2020, n. 120, ha istituito il codice alfanumerico unico per indicare i contratti collettivi nazionali di lavoro. In questo modo mira ad attuare il censimento della contrattazione collettiva, consentendo di determinare, in modo certo, il numero di lavoratori ai quali si applica una specifica disciplina contrattuale e, in base all’ambito quantitativo, determinare il contratto leader . Si contrasta così la proliferazione dei contratti pirata.
Il disordine della contrattazione collettiva potrebbe attenuarsi sotto gli effetti del combinato disposto della predetta normativa e della regolamentazione contrattuale della rappresentatività sindacale al fine di rendere efficaci ed esigibili i contratti collettivi nazionali e aziendali di lavoro (a partire dall’a. i. del 10 gennaio 2014 che ha inglobato i precedenti del 2011 e del 2013). Occorrerà in ogni caso ancora tempo perché gli effetti positivi di tali misure si realizzino.
Il sistema è comunque lungi dall’essere consolidato. Si pensi, ad esempio, alla posizione giurisprudenziale secondo la quale i contratti collettivi aziendali, al di fuori dei rinvii legislativi, sono applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, «con l’unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, condividono con essa l’esplicito dissenso dall’accordo, potendo eventualmente essere vincolati da un accordo sindacale separato» .
Un’ulteriore criticità è rappresentata dal fatto che ancora non si è proceduto, pur avendosi consapevolezza dell’importanza, all’individuazione e alla definizione dei criteri di rappresentatività delle organizzazioni datoriali. Si tratta di un altro fattore che contribuisce al disordine contrattuale, balzato all’attenzione degli esperti per i notevoli sommovimenti (frammentazioni, divisioni e distacchi, nuovi accorpamenti e associazionismi) che hanno caratterizzato nell’ultimo decennio il fronte imprenditoriale .
Altra “tessera” importante è costituita dalla l. n. 162/2021. Oltre alla parità retributiva garantita alle donne lavoratrici espressamente dall’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, dall’art. 37, co. 1, Cost. e dall’art. 1, co. 2, del codice delle pari opportunità (d.lgs. n. 198/2006), che sancisce anche il divieto di discriminazione retributiva (art. 28, co. 1), persiste – come detto – il gender pay gap. La l. n. 162 integra il codice con un sistema promozionale (anche) della parità retributiva. L’art. 46-bis istituisce dal 1° gennaio 2022 la certificazione della parità di genere, al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità. Per le aziende private in possesso della certificazione è prevista la “premialità di parità” (art. 5 della l. n. 162).
E’ uno strumento che consolida lo spazio delle diversità e la loro ricchezza, importante per la parità retributiva uomo-donna, ma anche per le progressioni e le qualificazioni professionali. Queste ultime, una volta promosse e realizzate con le necessarie formazioni mirate, immettono nel circuito lavorativo lavoratrici con maggiori e qualificate competenze, che si possono imporre nel mercato del lavoro, rompendo per quanto possibile anche il “soffitto di cristallo”.
Il contrasto al gender pay gap è rafforzato anche con la modifica della disciplina del rapporto sulla situazione del personale, già previsto dall’art. 46 d.lgs. n. 198/2006, resa più incisiva dalla l. n. 162. Si accentua la trasparenza dei sistemi retributivi e dei criteri applicati per valutare la professionalità individuale e si facilita l’emersione delle disparità e delle discriminazioni. L’accesso ai dati del rapporto (le modalità sono demandate al decreto attuativo) deve essere assicurato, nel rispetto della privacy, anche ai dipendenti (art. 46, co. 3, lett. c). Tale diritto è cruciale per contrastare più efficacemente l’eventuale disparità salariale e permettere di avviare l’azione in giudizio.
3. Sistema sindacale e salari minimi legali tra verità e finzioni
Le parti sociali – in buona parte e non sole - ritengono che, per garantire il salario minimo, sia sufficiente affidarsi al sistema contrattuale. Ciò in ragione della garanzia offerta dall’alto livello di copertura della contrattazione collettiva in Italia e, in caso di un intervento legislativo, del timore di “fuga” dalla contrattazione collettiva. Una volta definito per legge il salario minimo, molte imprese potrebbero pensare di essere in regola con l’aspetto più importante delle relazioni lavorative e non applicare più i contratti collettivi. In generale si osserva un persistente approccio culturale di autoreferenzialità delle parti sociali, fondato sull’opinione della competenza esclusiva, dell’autonomia e dell’autosufficienza del sistema contrattuale specie sulle tematiche nodali dei rapporti collettivi e di lavoro, come se fossimo fermi ai tempi della nascita del sistema di relazioni industriali e dell’ordinamento intersindacale .
L’idea che l’intervento legislativo sul salario minimo incentivi la fuga dalla contrattazione collettiva – più di quanto già non avvenga attualmente dalle regole del lavoro subordinato – appare superficiale, se non pretestuosa, nascondendo, nemmeno troppo, l’obiettivo della difesa corporativa del ruolo delle tradizionali parti sociali. Sia chiaro: non si vogliono oscurare l’importanza, la centralità e l’autonomia del sistema contrattuale. Ma che quest’ultimo garantisca in solitudine le tutele dei contratti per tutti i lavoratori è un auspicio, una finzione, che trascura la realtà delle regole del diritto del lavoro .
Nello stesso tempo che le imprese rispettino solo il salario minimo legale, sganciandosi dal sistema contrattuale e sottraendosi alle altre condizioni contrattuali, significa immaginare scelte scarsamente razionali. Vi sono infatti tante normative che consentono di usufruire benefici gestionali, normativi, fiscali o sociali solo quando l’imprenditore applichi il contratto collettivo (ad esempio, la flessibilizzazione dell’orario di lavoro ex d.lgs. n. 66/03; le clausole flessibili nel part time ex d.lgs. n. 81/2015), o che rinviano prioritariamente al contratto collettivo per l’applicazione di importanti istituti (ad esempio il comporto di malattia ex art. 2110 c.c.). In modo sintetico si sa quanto sia mutato attualmente, rispetto al passato, il rapporto tra legge e contrattazione collettiva e quanto siano diversificate le funzioni assegnate dalla legge alla contrattazione collettiva, nonostante persistano (e siano persistiti) i difetti strutturali del diritto sindacale (inderogabilità assoluta, derogabilità in melius e in peius, flessibilizzazione delle discipline, funzione gestionale e autorizzatoria). Si arriva finanche ad imporre, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, alle società cooperative che svolgono attività ricomprese nell'ambito di applicazione dei contratti di categoria, di applicare ai propri soci lavoratori (ex art. 3, comma 1, l. n. 142/2001) i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria (v. art. 7, comma 4, del d. l. n. 248/2007, convertito dall’art. 1, comma 1, della l. n. 31/2008); e più di recente, per il personale del trasporto aereo (d.l. n. 34/2020, conv. in l. n. 77/2020, art. 203), di erogare trattamenti retributivi comunque non inferiori a quelli minimi stabiliti dal contratto collettivo nazionale del settore, stipulato dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, a pena di revoca delle concessioni, autorizzazioni e certificazioni ad essi rilasciate dall'autorità amministrativa italiana o di una sanzione amministrativa, in caso di concessioni, autorizzazioni e certificazioni rilasciate da autorità estere.
E’ noto che per la prima disposizione la Corte costituzionale ha negato generosamente l’illegittimità costituzionale in quanto essa, «lungi dall'assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall'art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell'art. 36 Cost.».
E quindi, per scelta (i contratti collettivi, a loro volta, offrono numerose altre tutele e benefici) o per forza (sia pure indiretta), risulta non conveniente o difficile svincolarsi dal sistema contrattuale.
Qui si innesta un cenno anche ad un ulteriore ragionamento sull’efficacia soggettiva dei contratti collettivi. Il sistema sindacale soffre in materia una debolezza atavica. E le regolazioni contrattuali – così importanti per il legislatore sia per il rispetto dell’autonomia negoziale, sia per la funzione di dettaglio delle discipline collettive – diventano efficaci erga omnes solo grazie a meccanismi legislativi che, in modo indiretto, vincolano tutti al rispetto di quelle regole. La regola generale rimane quella dell’efficacia soggettiva limitata del contratto collettivo con tutta una serie di eccezioni che, oramai, superano la regola stessa. Nelle occasioni d’intervento, la Corte costituzionale – come già detto - ha garantito la legittimità costituzionale delle tecniche legislative, senza porsi in rotta di collisione con l’art. 39 Cost. I ragionamenti della Corte costituzionale confermano il rischio che incombe sull’ordinamento sindacale e il persistente spazio che occupa il conflitto sull’assetto e sulla vincolatività delle sue fonti.
Il sistema contrattuale mostra pertanto di avere necessità di una legislazione di sostegno (promozionale o vincolante) per affermarsi con carattere di generalità e, nello stesso tempo, la legislazione, come già detto, ne ha bisogno.
Perciò la levata di scudi nei confronti dell’intervento legislativo sul salario minimo è priva di senso, non è rispettosa anche del perseguimento con tecniche solide degli altri valori costituzionali contenuti nella Costituzione (artt. 2, 3, 36) e che, solo in parte, possono essere affidati ad un sistema obiettivamente non vincolante.
Qualcuno forse immagina di risolvere la questione confidando nella supplenza giudiziaria in materia di retribuzione sufficiente (art. 36 Cost. e art. 2099 c.c.). Ma in questo modo innanzitutto si contraddice l’idea che il sistema sia autonomamente effettivo nelle sue regole; in secondo luogo, la giurisprudenza emana sentenze non efficaci erga omnes e, in terzo luogo, non tutti percorrono la via giudiziaria. Ed è in ogni caso assurdo ipotizzare che la via del salario minimo legale sia quella giudiziaria, di tipo equitativo, caratterizzata da differenze nei criteri e nei risultati.
Il salario minimo legale non interferisce dunque con le “competenze” (non riservate) della contrattazione collettiva, perché la funzione è diversa e il contratto collettivo continua ad esplicare i suoi effetti per tutto il resto. E quindi, vigendo un sistema standard “non vincolistico” di contrattazione collettiva, le parti sociali continueranno a svolgere la propria azione, nel caso fosse necessaria, per l’applicazione effettiva del contratto collettivo.
4. Impulsi ed esperienze normative
In materia di salari minimi, come si è già accennato, non si ha comunque una tabula rasa. Anzi sono presenti numerose esperienze normative, specie internazionali, e altrettante proposte di regolamentazione sia nel campo istituzionale, sia in quello scientifico.
Il salario minimo legale è sancito già nella Convenzione ILO n. 131 del 1970, che l’Italia non ha ratificato . Il ruolo delle parti sociali è rilevante perché la Convenzione prescrive quanto meno una procedura di consultazione se non di partecipazione diretta alla sua attuazione. L’unico, incisivo obbligo è dunque quello di prevedere legislativamente i salari minimi. E’ forse quest’elemento che ha determinato la mancata ratifica italiana, essendo nota – e molto forte specie nella fine del secolo scorso - la presunzione del sistema sindacale privatistico di poter affrontare e risolvere autonomamente la tutela delle condizioni di lavoro. Ma è noto a tutti che non è stato e non è così.
In Italia la l. delega 10 dicembre 2014 n. 183 l’aveva previsto (art. 1, co. 7, lett. g), sebbene limitato a soddisfare soltanto i settori non regolati dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ma essa non ha trovato attuazione.
Come già evidenziato, alcune specifiche normative hanno imposto, al settore cooperativo e a quello del trasporto aereo, minimi contrattuali, rendendo vincolanti quelli previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Si tratta di soluzioni efficaci, non del tutto soddisfacenti sotto il profilo metodologico che hanno creato un contenzioso costituzionale, superato, per le cooperative, grazie alla negazione operata dalla Corte costituzionale della considerazione del meccanismo come di efficacia erga omnes del contratto collettivo, altrimenti in collisione con la seconda parte dell’art. 39 Cost. In questi casi il sistema sindacale ha accolto le soluzioni legislative di estensione dei minimi contrattuali (sia pure nella versione soft indicata dalla Corte costituzionale), che invece viene avversata quando si prospetta una dimensione di carattere generale.
5 (segue). L’Unione Europea
Nell'ottobre 2020 la Commissione europea ha predisposto una proposta di direttiva relativa a salari minimi adeguati nell’UE. Essa non impone di introdurre un salario minimo legale o di rendere i contratti collettivi generalmente vincolanti. Istituisce solo un quadro per determinare livelli adeguati di salari minimi e far accedere i lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo, sotto forma di salari determinati da contratti collettivi o di un salario minimo legale, laddove esistente.
Il progetto di normativa stabilisce un quadro procedurale volto a promuovere la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari ovvero livelli adeguati di salari minimi legali. Si rileva nella proposta che tendenzialmente, nei paesi caratterizzati da un'elevata copertura della contrattazione collettiva, la percentuale di lavoratori a basso salario è minore e le retribuzioni minime sono più elevate rispetto ai paesi in cui tale copertura è più bassa. Quindi un perno dell’intervento è fondato sulla verifica della copertura della contrattazione collettiva.
Il capo II della proposta si occupa dell’adeguatezza dei salari minimi legali negli Stati in cui tale misura è prevista. Al fine di garantirne l'adeguatezza, s’impone agli Stati membri di prevedere criteri nazionali per la determinazione e l'aggiornamento dei salari minimi legali, definiti in modo chiaro e stabile (alcuni criteri sono determinati dalla proposta), aggiornamenti periodici e puntuali e l'istituzione di organi consultivi; il coinvolgimento efficace e tempestivo delle parti sociali nella determinazione e nell'aggiornamento dei salari minimi legali, anche mediante la partecipazione agli organi consultivi.
Il capo III si occupa di due aspetti trasversali e cruciali. Il primo riguarda gli appalti pubblici: nell'esecuzione degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, gli operatori economici (compresa la successiva catena di subappalto) devono conformarsi ai salari applicabili stabiliti dalle contrattazioni collettive e ai salari minimi legali, laddove esistenti. Intervento appropriatissimo. Il secondo riguarda il sistema di monitoraggio e raccolta dei dati, che ha un ruolo strategico e deve essere efficace.
Non vi sono dubbi sulla rilevanza della direttiva. Sull’impatto concreto che avrà nei paesi membri, specie quelli come il nostro meno attrezzati sulla tematica, qualche perplessità non è peregrina. Per il nostro ordinamento non scioglie il nodo dell’intervento e delle sue modalità. Chi si trincera dietro la sufficiente copertura della contrattazione collettiva potrebbe avere buon gioco nel respingere qualsiasi intervento e il punto delle modalità di stima o di calcolo della copertura contrattuale svolgerà un ruolo cruciale ai fini dell’applicazione dei contenuti della direttiva. Certo, se si varasse il salario minimo legale, dovrebbero rispettarsi le regole contenute nel capo II della proposta. In ogni caso non si capisce perché il grado di copertura del 70% della contrattazione collettiva sarebbe sufficiente per evitare misure che riguardino salari minimi adeguati. E i lavoratori non coperti?
Il recente accordo raggiunto in sede europea non fuga le perplessità in quanto la linea sposata sembra nella sostanza ricalcare la proposta di direttiva. Da notizie giornalistiche sembra infatti che cambi il tasso di copertura, ridotto all’80%, che innesca l’elaborazione di un piano per promuovere la contrattazione collettiva, e tra gli strumenti indicati per adeguare il salario minimo vi sia l’automatic indexation, una sorta di scala mobile, che certo non fa crescere il numero dei favorevoli al salario minimo legale. Ma per un giudizio più approfondito occorrerà aspettare il testo della direttiva.
6 (segue). Il disegno italiano
Al Senato si discute sul disegno di legge n. 2187 di aprile 2021 (a firma dell’ex Ministra del lavoro Nunzia Catalfo). Tale proposta valorizza i contratti collettivi leader, quelli siglati dai soggetti comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale. Viene definita la «retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente come quel trattamento economico complessivo, non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore in cui opera l’impresa, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo all’attività effettivamente esercitata dal datore di lavoro». A garanzia del riconoscimento di una giusta retribuzione introduce una soglia minima di 9 euro lordi all’ora, in coerenza con i parametri di adeguatezza indicati dalla commissione europea. Inoltre istituisce una Commissione tripartita composta dalle parti sociali maggiormente rappresentative con il compito di aggiornare e controllare l’osservanza del trattamento economico proporzionato e sufficiente in modo da garantire effettivamente ai lavoratori una giusta retribuzione che si conservi nel tempo. Infine introduce un’apposita procedura giudiziale di matrice collettiva (sulla falsariga dell’art. 28 Stat. Lav.), finalizzata a garantire l’effettività del diritto dei lavoratori a percepire un trattamento economico dignitoso.
7. Conclusione: contrastare il lavoro povero
A mio parere è necessario un intervento legislativo sui salari minimi, che sappia dosare eteronomia e autonomia collettiva, senza trascurare di realizzare l’obiettivo dell’effettività della misura.
Anche nell’utopistica panacea legislativa o, più limitata, contrattuale dei due annosi problemi del diritto sindacale (rappresentatività sindacale ed efficacia soggettiva del contratto collettivo), il salario minimo legale svolge una funzione diversa, non concorrente e non irrilevante rispetto al contratto collettivo. Non a caso esso è presente in Paesi europei in cui il sistema sindacale è regolamentato e non è afflitto da problemi come il nostro (ad es. Spagna, Francia e Germania). La sua base legale assicura inoltre una più efficace, ampia e solida soluzione, applicandosi anche agli ambiti non regolamentati e non protetti dai contratti collettivi e al lavoro autonomo non genuino, nemmeno toccato da discipline collettive.
I nodi da affrontare sono diversi e in ogni caso vanno rispettate le prescrizioni della proposta di direttiva europea.
Il progetto di legge in discussione al Parlamento è esemplificativo al riguardo. Tuttavia, rispetto alle sue soluzioni, sarebbe preferibile rimettersi ad un accordo interconfederale per l’individuazione del salario minimo, come avviene già in altri paesi europei, con la previsione di una rete di sicurezza di una determinazione diretta del legislatore ovvero di un’autorità amministrativa indipendente, sentite le parti sociali. E’ necessario che si fissi il salario minimo intercategoriale, su base oraria (perché in tal modo si potranno coprire le esigenze dei part timer involontari), indicando i criteri, il livello (una percentuale della retribuzione mediana intercategoriale ed eventualmente di settore) e la procedura per l’aggiornamento e il monitoraggio. Resta ferma la necessità della previsione di una procedura di una consultazione sindacale.
In questo modo si potrebbero recuperare parecchie disuguaglianze, anche se non tutte, e si accrescerebbe la parità di trattamento nonché la maggiore equità dei settori penalizzati (dove sono presenti giovani e donne) perché lavori di eguale valore di vari settori potranno essere parificati. La soluzione sembra realizzare anche la parità retributiva che, con uno sforzo interpretativo coerente con la logica, l’art. 36 della Costituzione già stabilisce, anche se molti l’hanno pervicacemente negato. Non è un’assoluta parità di trattamento, incidendo su un componente della retribuzione. Si aprirebbe una strada importante verso la redistribuzione dei redditi. Il trattamento minimo è importante perché a questo dovranno far riferimento tutti, in qualsiasi modo si lavori, e potrebbe essere facilmente controllato, portando anche ad una semplificazione retributiva. Anche questo favorirebbe l’assicurazione dei minimi specie là dove si soffre (catene degli appalti).
La soluzione invece dell’efficacia generale dei livelli minimi contrattuali presenta criticità in quanto potrebbe considerarsi un meccanismo di estensione erga omnes dei contratti collettivi e comunque trascura l’obiettivo dell’omogeneizzazione del salario minimo e della parità intercategoriale del lavoro. Inoltre non risolverebbe il problema per quei settori dove il contratto collettivo non c’è o neppure i contratti collettivi riescono a garantire il salario minimo adeguato.
Ponendosi decisamente dalla parte dei lavoratori poveri, non si capiscono le obiezioni ad una legge che spingerebbe verso il trattamento equo e adeguato del lavoro. Questo sarebbe il pane; il resto potrebbero essere le rose.