Testo integrale con note e bibliografia

1. L’accordo politico del 12 giugno 2022 e la prima “eco” mediatica.
Il 12 giugno 2022 è stato raggiunto un accordo politico tra i negoziatori del Parlamento europeo e del Consiglio in merito alla proposta di direttiva relativa a “salari minimi adeguati nell’UE”, che dovrà ora essere sottoposta all’approvazione prima della Commissione per l’occupazione e gli affari sociali, e poi del Parlamento europeo in seduta plenaria e del Consiglio.
Dai commenti “a caldo” delle forze politiche e delle parti sociali emergono valutazioni sensibilmente diverse, che vedono agli estremi posizioni “euroscettiche”, tendenti a sminuire la portata dell’accordo raggiunto, e toni “entusiastici” che, invece, esaltano la importanza storica dell’iniziativa. In molti casi, è forte la sensazione che entrambe le posizioni estreme sono influenzate, più che dall’analisi tecnica degli effettivi contenuti della proposta di direttiva, dall’intenzione di piegarne il significato ai fini del dibattito “domestico” che già da anni ruota attorno alla proposta di introduzione del salario minimo legale in Italia e, più in generale, attorno ai temi della povertà “nel lavoro” o “da lavoro”.
Ed allora, anche se la proposta non ha ancora completato il suo iter di approvazione, è utile continuare a monitorarne i contenuti che in progress si vanno delineando, al fine di verificare quale sia la effettiva rilevanza giuridica che essa, se approvata, potrà esercitare sulle scelte del legislatore nazionale.
2. Le “disposizioni generali”.
Il primo dei quattro capi nei quali è strutturata la proposta contiene le “disposizioni generali” applicabili a tutti gli Stati membri, ma di esse solo l’art. 4 riguarda le misure che questi saranno chiamati ad adottare.
Invero, gli artt. 2 e 3 riguardano rispettivamente l’“ambito di applicazione” e le “definizioni”, mentre l’art. 1 individua l’“oggetto”. Quest’ultimo, oltre a enunciare le finalità perseguite (par. 1), assume un concreto rilievo giuridico soprattutto nella parte in cui specifica ciò che la proposta non intende fare (par. 2 e 3), traducendo così in forma dispositiva quel che è già chiarito dal “considerando (16)”, e cioè che la direttiva: a) “non intende armonizzare il livello dei salari minimi nell’Unione, né istituire un meccanismo uniforme per la determinazione dei salari minimi”; b) non impone, e non può essere interpretata come se imponesse, né “l’obbligo di introdurre un salario minimo legale, né di rendere i contratti collettivi universalmente applicabili”.
Come detto, quindi, le uniche misure di carattere generale sono quelle dell’art. 4, che, peraltro, non riguardano direttamente i salari minimi, ma hanno ad oggetto la “promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari” (e, quindi, di tutti i salari)
Dai “considerando” della proposta, risulta, infatti, che, da un lato, la tutela apprestata dai contratti collettivi in materia di salario minimo è mediamente più efficace di quella assicurata dai meccanismi legali , e che, d’altro lato, anche negli Stati ove vigono salari minimi legali, la presenza di una robusta contrattazione collettiva “sostiene l’andamento generale dei salari” . Si spiega, così, perché la promozione dell’autonomia contrattuale delle parti sociali in materia retributiva (con specifico riguardo alla contrattazione di livello settoriale e intersettoriale) è ritenuta uno strumento utile da promuovere trasversalmente nell’ambito di tutti gli Stati membri .
La scelta promozionale è, a sua volta, giustificata dall’esigenza di fare fronte all’avvenuto indebolimento delle strutture di contrattazione collettiva tradizionali, derivante da noti fattori concomitanti (spostamento dell’economia verso settori meno sindacalizzati e calo degli iscritti, frammentazione dei sindacati, aumento del lavoro precario e atipico, pressioni esercitate dalla crisi finanziaria) .
Peraltro, in coerenza con tali premesse, le misure promozionali previste dalla proposta di direttiva sono state differenziate a seconda della specifica situazione in cui versano i singoli Stati membri per ciò che concerne il grado di copertura della contrattazione collettiva .
Nel par. 1 dell’art. 4, che è rivolto a tutti gli Stati membri (e, quindi, come detto, indipendentemente dal fatto che adottino o no salari minimi legali, ed indipendentemente dal tasso di copertura della contrattazione collettiva), le misure che essi “dovrebbero” adottare (il condizionale è il modo verbale utilizzato dalla proposta) appaiono “basiche”, e in parte generiche e “fumose”, lasciando un notevolissimo margine di discrezionalità ai legislatori nazionali .
Più definite ed incisive sono, invece, le misure richieste agli Stati in cui la copertura della contrattazione collettiva è inferiore all’80% dei lavoratori . Tali Stati, ai sensi del secondo paragrafo dell’art. 4, “prevedono” (e non: “dovrebbero prevedere”) “un quadro di condizioni favorevoli per la contrattazione collettiva (mediante legge, previa consultazione delle parti sociali, o per accordo con esse) e, soprattutto, “stabiliscono” un concreto “piano d’azione” (per legge, ed anche in questo caso previa consultazione delle parti sociali, o di comune accordo con le parti stesse, o mediante accordo tra quest’ultime ove ne facciano richiesta congiunta). Detto piano d’azione deve definire “un calendario chiaro e misure concrete per aumentare progressivamente il tasso di copertura della contrattazione collettiva”, sia pure tenendo fermo il “pieno rispetto dell’autonomia delle parti sociali” (art. 4, par. 2).
3. “Salari minimi legali”.
All’obbligo di promuovere la contrattazione collettiva si aggiunge, per i Paesi in cui sono già previsti statutory minimum wages, il pacchetto di misure più corposo previsto dal Capo II, che tiene conto della considerazione in base alla quale “norme, procedure e pratiche efficaci” sono una condizione necessaria per garantire, nell’ambito di tali sistemi, l’adeguatezza dei minimi salariali (cfr. il “considerando” 20).
Dunque, a tali Paesi viene indicato che essi “dovrebbero” stabilire le “procedure necessarie a garantire la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali”, allo scopo di “garantire standard di vita dignitosi, ridurre la povertà lavorativa, promuovere la coesione e la convergenza verso l’alto e ridurre le disparità salariali” (art. 5, par. 1).
A tal fine, gli Stati “definiscono” (“in modo chiaro” ) i criteri guida per determinare e aggiornare i salari minimi, decidendo il “peso” relativo di ciascun criterio e tenendo conto delle condizioni “socio economiche nazionali”.
La discrezionalità degli Stati è, però, limitata dalla previsione in base alla quale i criteri definiti a livello nazionale devono comprendere “almeno” quattro “elementi” essenziali (par. 2), dei quali si dirà tra breve . Viene imposto, altresì, ai singoli Stati di utilizzare, ai fini della valutazione di adeguatezza, “valori di riferimento indicativi, come quelli comunemente utilizzati a livello internazionale” (par. 3) e di adottare le “misure necessarie a garantire l’aggiornamento periodico e puntuale dei salari minimi legali” in modo da mantenere nel tempo l’adeguatezza (par. 4) .
Limiti sono previsti, poi, per quanto riguarda la possibilità di prevedere variazioni del minimo legale applicabili a specifici gruppi di lavoratori o detrazioni che riducano il salario netto al di sotto del minimo legale (art. 6).
In tutte le fasi del procedimento di determinazione e aggiornamento dei salari minimi, così come regolato dagli artt. 5 e 6, deve essere garantito il coinvolgimento delle parti sociali “in maniera tempestiva ed efficace” (art. 7).
Infine, gli Stati sono chiamati ad adottare misure volte a “migliorare” l’accesso “effettivo” dei lavoratori ai salari minimi legali, prevedendo, e se necessario rafforzando, i controlli e le ispezioni “sul campo”, che devono essere “efficaci, proporzionati e non discriminatori”, da parte delle autorità nazionali competenti. E’, altresì, previsto che venga sviluppata la capacità di queste ultime autorità, attraverso la formazione e l’orientamento, di individuare e perseguire “in modo proattivo” i datori di lavoro inadempienti (art. 8).
E’ da notare, peraltro, come le citate prescrizioni relative all’“accesso effettivo” dei lavoratori ai salari minimi evidenziano la peculiarità del “caso” italiano. Limitandone l’applicazione ai Paesi ove vigono salari minimi legali, la proposta di direttiva ritiene, evidentemente, che le pubbliche autorità siano prive del potere di effettuare controlli ed ispezioni sul rispetto dei salari minimi quando questi siano previsti dalla contrattazione collettiva.
Ma così non è in Italia, perché, come sappiamo, la nostra legge nazionale, pur non rendendo i contratti collettivi “universalmente applicabili”, ne ha favorito in vari modi l’efficacia generalizzata e, in particolare, per quanto qui rileva, ha individuato nella retribuzione di fonte sindacale il “parametro esterno” idoneo a determinare il trattamento economico minimo spettante al lavoratore . Cosicché il rispetto del salario minimo previsto dalla contrattazione collettiva è già oggi sottoposto in Italia all’azione pubblica di vigilanza (art. 7, lett. b), del d. lgs. n. 124 del 2004), esercitata anche sulla base di orientamenti impartiti dalle istituzioni a ciò preposte (art. 2 del d. lgs. n. 149 del 2015), e la violazione di quel salario minimo è punita con sanzioni di natura amministrativa e, nei casi più gravi, anche di natura penale (art. 603-bis Cod. pen.).
Questa, peraltro, è una delle ragioni per le quali il grado di copertura della contrattazione collettiva in Italia è tra i più elevati in Europa (e non solo). Ed è anche la ragione per la quale in Italia il problema dei salari inferiori al minimo è un problema principalmente legato non già alla natura della fonte che provvede alla fissazione dei minimi salariali, bensì all’alto tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro e all’inefficienza dell’azione di vigilanza pubblica. Così come è reso evidente dalla semplice constatazione che la varietà dei fenomeni dai quali deriva quell’alto tasso di irregolarità (economia sommersa, lavoro nero, falso lavoro autonomo) comportano tutti di per sé la violazione di molteplici disposizioni che provengono direttamente dalla fonte legale.
4. Le “disposizioni orizzontali”.
Le disposizioni “orizzontali” del Capo III si aprono con l’art. 9, che riguarda il settore degli “appalti pubblici”. Ma, al riguardo, il “considerando (24)”, pur affermando che in tale ambito è fondamentale “l’attuazione efficace della tutela garantita dal salario minimo”, si preoccupa, allo stesso tempo, di precisare che “la presente direttiva non crea alcun obbligo aggiuntivo” rispetto alle direttive già vigenti .
Di maggior rilievo è l’art. 10, che impone agli Stati di adottare misure appropriate per garantire un’“efficace raccolta dei dati per monitorare la tutela del salario minimo” (par. 1).
La proposta individua, in particolare, le specifiche tipologie di dati ritenuti essenziali (par. 2) , i quali dovranno essere trasmessi “ogni due anni” alla Commissione, al fine di consentire a quest’ultima di valutarli e analizzarli. La Commissione, poi, riferità ogni due anni al Parlamento europeo e al Consiglio .
Da segnalare anche la previsione dell’obbligo degli Stati di fornire statistiche e informazioni disaggregate “per genere, fascia di età, disabilità, dimensioni dell’impresa e settore”. L’annual review di Eurofound 2020, invero, rilevava la mancanza per l’Italia (oltreché per la Slovenia) di “minimum wages workers” . Eppure, proprio per la situazione italiana, l’elaborazione del percorso più efficace per realizzare un progresso effettivo nella garanzia di adeguatezza dei salari minimi richiede, a mio avviso, di acquisire dati non solo attendibili, ma anche più specifici sui “gruppi” di lavoratori che si collocano nella situazione di povertà o di “rischio di povertà”.
Per quanto riguarda le informazioni relative ai salari minimi legali (ai quali vengono assimilate anche quelle relative alle “tutele salariali minime”), gli Stati dovranno garantire che esse “siano disponibili al pubblico”, nella lingua o nelle lingue “più pertinenti”, “in modo completo e facilmente accessibile, anche alle persone con disabilità”.

Senonché, mentre nella proposta originaria della Commissione, un tale obbligo di informazioni aveva portata generale, esso è ora riferito esclusivamente alle informazioni relative ai “contratti collettivi universalmente applicabili”.
Ciò non toglie, però, che si debba tener conto di come il sistema italiano presenti, al riguardo, un profilo di criticità, a causa tra l’altro della abnorme proliferazione di contratti collettivi, che a lungo ne ha reso difficile persino la conoscibilità. Vanno, comunque, segnalati i progressi realizzati grazie ad una serie di misure, quali la costituzione della “banca” dei c.c.n.l. da parte del CNEL (in attuazione dell’art. 17 della legge n. 936 del 1986) e la recente disposizione (art. 16-quater del d. l. n. 76 del 2020) che dovrebbe consentire di individuare il numero di lavoratori ai quali ciascun contratto è applicato e, così, aiutare a fare chiarezza su quali sono i c.c.n.l. leader ai fini della determinazione del salario minimo dovuto al lavoratore .
Le altre disposizioni “orizzontali”, in materia di “diritto di ricorso e protezione da trattamento o conseguenze sfavorevoli” (art. 11) e di “sanzioni” applicabili in caso di “violazione delle disposizioni nazionali” (art. 12), pur richiedendo anch’esse un formale atto di recepimento (in caso, ovviamente, di approvazione della proposta di direttiva) e opportuni interventi di adeguamento, contengono prescrizioni rispetto alle quali l’Italia è nella sostanza già “preconformata”, in base a specifiche norme di legge già vigenti ed all’interpretazione che ne hanno dato, nei rispettivi ambiti, le autorità amministrative e la giurisprudenza .
5. Una valutazione d’insieme …
L’analisi della proposta di direttiva, dunque, induce a ritenere che, tra gli estremi delle valutazioni “euroscettiche” e delle valutazioni “enfatizzanti” (di cui ho fatto cenno all’inizio), il giusto sta, come spesso accade, nel mezzo.
L’iniziativa europea rappresenta il faticoso compromesso tra le variegate posizioni espresse dalle forze politiche e sindacali, anche in conseguenza dei profondi dislivelli di condizioni in cui si trovano i singoli Paesi (soprattutto a seguito dell’allargamento dei confini dell’Unione), e delle altrettanto profonde differenze che intercorrono tra le rispettive legislazioni, tradizioni e prassi.
Indubbiamente, poi, il legislatore europeo ha dovuto tenere conto del vincolo rappresentato dall’art. 153, par. 5, del TUE, traccia delle origini mercantili dell’Unione, che esclude dalle sue competenze un intervento diretto in materia di retribuzioni. Il che ha imposto di individuare la più ristretta base giuridica della proposta nell’art. 153, par. 2, lett. b) del Trattato, in combinato disposto con l’art. 153, par. 1, lett. b).
Tutto ciò, quindi, può comportare delusione o soddisfazione a seconda della aspettativa o del timore che dalla iniziativa europea potesse essere dato un deciso impulso alla introduzione in Italia del salario minimo legale, o addirittura alla individuazione dell’importo economico di quest’ultimo.
Resta però che, al di là delle aspettative o dei timori, la proposta di direttiva, anche se oggettivamente “debole” in diverse parti, e soprattutto nelle disposizioni generali relative alla promozione della contrattazione collettiva, ha un suo rilievo tutt’altro che meramente simbolico, perché, se approvata, non solo andrà ad arricchire l’acquis eurounitario dei principi in materia di condizioni di lavoro e di retribuzione , sia perché introdurrà un “quadro” di prescrizioni che saranno idonee a favorire, sia pure indirettamente ed in modo graduale, l’effettivo miglioramento delle tutele nazionali in materia di minimi salariali, e il perseguimento delle altre finalità indicate dal legislatore europeo (ossia, contribuire alla convergenza sociale verso l’alto e alla riduzione delle diseguaglianze sociali).
6. … in relazione alla situazione nazionale.
In relazione alla situazione italiana, la proposta di direttiva, se approvata, lascerà interamente nella responsabilità del legislatore nazionale la scelta relativa alla via da seguire per assicurare l’adeguatezza dei salari minimi, e in particolare alla opzione di fondo tra promozione della contrattazione collettiva o determinazione per legge. Come si è visto, infatti i sostenitori delle diverse opinioni non possono fare leva – come, invece, da subito si è sentito fare (anche da parte di autorevoli esponenti politici) – sulle indicazioni non prescrittive provenienti dall’Europa, che riservano al riguardo la massima discrezionalità ai Paesi membri.
Tuttavia, ove si scelga la via della legge, ritengo che, dalla proposta di direttiva, e dalle considerazioni che la sostengono, un dato emerga in modo chiaro, e cioè che l’intervento della legge dovrebbe essere fondato su analisi e valutazioni serie ed approfondite.
Imprescindibile è, quantomeno, considerare i quattro elementi che, come accennato, devono fungere da “criteri guida”, ossia: il potere d’acquisto dei salari minimi, in relazione al costo della vita; il livello generale dei salari e la loro distribuzione; il tasso di crescita dei salari; i livelli e gli sviluppi della produttività nazionale a lungo termine (art. 10, par. 2).
Di particolare rilievo è il riferimento al “potere d’acquisto” (tanto più in una congiuntura, come quella attuale, di inflazione “galoppante”), in relazione al quale il “considerando (21)” suggerisce di stabilire a livello nazionale un “paniere di beni e servizi” per determinare il costo reale della vita, che tenga conto sia delle “necessità materiali” sia della “necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”. Con il conseguente corollario secondo cui gli Stati membri potranno utilizzare un meccanismo automatico per l’indicizzazione dei salari minimi legali e, in mancanza, gli aggiornamenti dovranno avvenire “almeno ogni due anni”, invece che almeno ogni quadriennio come previsto in presenza di meccanismi automatici di indicizzazione (art. 5, par. 2 bis).
Di particolare rilievo, però, è anche il riferimento alla “produttività”, il quale tiene realisticamente conto del fatto che anche in materia di salari minimi non è possibile considerare la retribuzione una variabile del tutto indipendente dagli indici obiettivi di rilevazione dei risultati della prestazione. Non si dimentichi, infatti, che, se sganciato dalla produttività, il salario minimo può rendere antieconomico l’esercizio dell’impresa e, di conseguenza, provocare un impatto sull’occupazione più forte di quello considerato dalle stesse valutazioni della Commissione europea .
7. L’importanza delle analisi e delle valutazioni d’impatto.
Senonché , i disegni di legge, sui quali si è concentrato il dibattito pubblico , non sembrano tenere conto di alcuno degli elementi indicati dall’art. 10 della direttiva, perché assumono come paga minima (9 euro) il compenso orario previsto per le prestazioni di lavoro occasionale. E, così facendo, incorrono anche in un ulteriore errore di impostazione, in quanto il compenso orario previsto per tale fattispecie è così quantificato perché tiene conto della peculiarità della esigua durata temporale della prestazione occasionale, la quale, per tale ragione, non è assimilabile ad alcuno dei contratti di lavoro regolati dalla legge (neppure, quindi, ai contratti di lavoro a tempo parziale o intermittente).
In sostanza, il salario minimo legale non potrà essere determinato in modo “spannometrico” o sull’onda di ragioni emozionali (per quanto comprensibili), dovendo invece essere basato su analisi attente condotte su appropriati indicatori e su approfondite valutazioni di impatto.
A questo riguardo, bisogna essere avvertiti che, anche in ambito europeo, i dati relativi alla situazione attuale – che sono il presupposto per poter calibrare l’intervento della legge – risultano parziali e non hanno la necessaria solidità, soprattutto per quanto riguarda i Paesi nei quali il salario minimo è individuato dalla contrattazione collettiva. Basti pensare che, per effetto di una semplice modifica della metodologia di calcolo, l’Italia è risultata, nel 2019, lo Stato con i salari minimi più alti in relazione alla mediana dei salari lordi e ai salari medi e, nel 2020, invece, quello con i salari minimi più bassi .
E’ noto, del resto, che i dati sui quali si basano le comparazioni di Eurofound non provengono da fonti istituzionali, ma da una rete di corrispondenti nazionali, onde la attendibilità di tali dati necessita di essere verificata e certificata in modo adeguato. Bisogna, poi, valutare se si debba, o no, tenere conto delle prestazioni sociali integrative (quale, in Italia, l’assegno per il nucleo familiare e ora l’Assegno unico e universale). Al fine, poi, di calcolare i valori della retribuzione oraria, si dovrebbe anche considerare quali elementi del complessivo trattamento economico previsto dai contratti collettivi concorrano alla sua determinazione. Ad esempio, dando per scontato che vi concorrano le mensilità aggiuntive, andranno fatte specifiche valutazioni per gli altri istituti di retribuzione indiretta e/o differita, quale, in particolare, il trattamento di fine rapporto, tenuto conto che, in una logica di comparazione con gli altri Paesi membri, si tratta di un istituto di cui altrove i lavoratori non fruiscono e i datori di lavoro non sopportano il costo.
Ancora più complesse sono le analisi necessarie per valutare l’impatto conseguente all’introduzione di una soglia minima di salario, valutazioni che non possono essere limitate al calcolo previsionale di quanti sarebbero i lavoratori che beneficerebbero di un incremento dei propri salari.
In particolare, dovrebbero essere valutati gli effetti dell’incremento del costo del lavoro (non in relazione alla riduzione di profitti delle imprese, posto che la redistribuzione di tali profitti è misura di pura discrezionalità politica, bensì) in relazione all’aumento dei prezzi per i consumatori, al tasso di occupazione totale e alla competitività nazionale.
A quest’ultimo riguardo, la stessa Commissione europea, a corredo della sua originaria proposta di direttiva, aveva valutato “impatti ridotti sulla competitività a livello aggregato”, proprio perché aveva tenuto conto che “il parametro prescelto garantisce una flessibilità sufficiente per consentire agli Stati membri di determinare il ritmo del miglioramento dell’adeguatezza dei salari minimi alla luce delle condizioni economiche e dei rischi a livello economico, anche in specifici settori, regioni e PMI”.
E’ chiaro, quindi, che tale previsione può essere considerata rassicurante soltanto se, e nella misura in cui, il legislatore italiano saprà esercitare al meglio la “flessibilità” a lui riservata dalla disciplina europea, individuando il difficile equilibrio tra “il ritmo del miglioramento dell’adeguatezza dei salari minimi”, da un lato, e le “condizioni economiche” e i “rischi a livello economico, anche in specifici settori, regioni e PMI”, dall’altro.

8. Due considerazioni finali
Potrà essere utile, ai fini della ricerca di tale difficile equilibrio, tenere conto di due ordini di considerazioni.
In primo luogo, come emerge anche dal citato passo della relazione della Commissione Europea, quello dei salari minimi adeguati è un obiettivo prospettico, di cui la proposta di direttiva non fissa né un puntuale indicatore quantitativo vincolante per i singoli Paesi membri, né, conseguentemente, un termine per conseguirlo.
Ciò risulta chiaro, sotto il primo profilo, in considerazione dei limitati obblighi previsti per i Paesi privi di salari minimi legali, impegnati esclusivamente a promuovere la contrattazione collettiva. Ma lo stesso si ricava dalle disposizioni relative ai Paesi in cui i minimi salariali sono previsti per legge, atteso che, nel fare riferimento a criteri comunemente utilizzati a livello internazionale come il 60% del salario medio lordo e il 50% del salario medio lordo, la direttiva precisa che essi “possono” (e non già devono) essere utilizzati dagli Stati come valori “di riferimento indicativi”, al fine di “orientarsi nella valutazione dell’adeguatezza dei salari minimi legali” (e non già al fine di quantificare l’importo di tali salari), non escludendo nemmeno l’adozione, in via congiunta o alternativa, di altri “valori di riferimento utilizzati a livello nazionale” (cfr. art. 5, par. 5, della direttiva).
In relazione, poi, alla tempistica sul “ritmo” di incremento dei salari, è sufficiente rilevare che al riguardo la direttiva non stabilisce specifiche scadenze da rispettare, le quali, invece, sono definite soltanto per quanto riguarda il flusso delle comunicazioni di dati informativi tra gli Stati e la Commissione (art. 10, par. 2), al fine di consentire a quest’ultima di analizzarli e valutarli e poi riferire al Parlamento europeo e al Consiglio (art. 10, par. 4), anche in vista della successiva attività di “valutazione e riesame” della direttiva prevista al termine del primo quinquennio del suo recepimento (art. 15).
In secondo luogo, è opportuno ricordare che il tema dei salari minimi è solo in parte connesso a quello del “lavoro povero”, e ciò non solo perché i criteri di determinazione della soglia di povertà si riferiscono alla situazione del nucleo familiare (e non del singolo lavoratore), ma soprattutto perché in Italia la in work poverty è legata prevalentemente a specifiche ragioni sulle quali non è in grado di incidere la fissazione di una paga minima oraria.
La percentuale più alta di “working poors” si concentra, infatti, nell’ambito del lavoro autonomo (che, se genuino, non sarebbe protetto dalla direttiva e dal suo recepimento )e, come accennato, in quella del lavoro “irregolare” (riguardo al quale le misure necessarie, attengono alle attività di vigilanza e di repressione ), nonché nell’ambito dei rapporti caratterizzati dal ridotto numero di ore di lavoro prestato (che è un problema che attiene principalmente alla ridotta offerta di lavoro nel mercato nazionale).
Anche in considerazione di ciò, nelle analisi che dovranno indirizzare le scelte del legislatore sulle opzioni che la direttiva prevede per il suo recepimento, si dovrà valutare l’opportunità di seguire il percorso della promozione della contrattazione collettiva, per non alterare (oltre che le tradizioni del nostro ordinamento) gli equilibri che solo la dialettica sindacale è in grado di assicurare, e riservare, invece, alla legge il compito sussidiario di intervenire in modo mirato per sostenere i salari minimi di quelle specifiche categorie nelle quali la contrattazione collettiva non riesce oggi a svolgere efficacemente la sua funzione.

 

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