Testo integrale con note e bibliografia

Dopo un così prolungato dibattito in tema di desiderabilità, di efficacia e di supposta pericolosità dell’introduzione nell’ordinamento italiano del salario minimo legale, ci sembra più produttivo ed incisivo, per giungere finalmente ad una conclusione, partire non da uno scolastico riassunto delle ragioni positive, ma dalle obiezioni che sono state enunziate ed anche riproposte, fino a diventare quasi luogo comune, dagli avversari di questa riforma.
I quali non sono tutti piccoli imprenditori o “capitalisti straccioni”, che vedono solo nel sottosalario dei dipendenti la fonte dei loro profitti, ma anche uomini politici almeno ufficialmente “progressisti” e persino esponenti dell’“establishment” sindacale.
Una prima, diffusissima, ma forse anche alquanto ipocrita, obiezione è che il salario minimo legale, è pericoloso per la contrattazione collettiva, almeno in quei paesi come l’Italia in cui i contratti collettivi non hanno legalmente efficacia generale erga omnes, ma vincolano solo i datori di lavoro (ed anche i lavoratori) iscritti ai rispettivi sindacati.
L’obiezione è in realtà duplice. Si sottolinea, da un lato, che con l’introduzione di un salario minimo legale i datori di lavoro potrebbero essere fieramente tentati di uscire dalle organizzazioni sindacali cui sono iscritti per pagare solo il salario minimo legale pur restando, in tal modo, in pace ed in regola con l’ordinamento giuridico sociale. Oppure, d’altro lato, che avrebbero interesse ad aderire in massa ad organizzazioni datoriali cd. “pirata”, che potrebbero stipulare con organizzazioni sindacali ad oggi minoritarie, contratti (detti, appunto, “pirata”), con valori salariali allineati al solo minimo di legge.
Il che produrrebbe, in tutti e due i casi, anche un deleterio effetto di “schiacciamento” salariale con pratica eliminazione, o quasi, di quello “sventagliamento” di qualifiche e relativi compensi minimi, differenziati e parametrati (ad es.: da 100 a 250) che costituiscono il cuore e la ragion d’essere di una tariffa contrattuale collettiva.
In altre parole: se è doveroso dare, ad esempio, € 9,00 orari anche al manovale, la tendenza sarà a dare altrettanto, o poco più, anche allo specializzato e comunque, quel “poco più” darglielo in modo individuale o occulto.
Il secondo ordine di obiezioni, di sapore cinico o, quanto meno, scettico, utilizza in malam partem una critica all’ordinamento legale del lavoro in sé giusta e fondata: si osserva che il “sottosalario” non passa mai da una busta paga contenente importi arbitrari (e troppo bassi) di retribuzione oraria stabiliti discrezionalmente con accordi individuali diretti tra datore e lavoratore.
La busta paga – quando c’è – riflette sempre delle tariffe, ossia dei minimi orari previsti da un contratto collettivo, sia un contratto collettivo sottoscritto dai grandi sindacati confederali, o sia, alla peggio, un contratto collettivo stipulato da un sindacato di comodo (“contratto pirata”), ma il fatto è che, molto spesso, la busta-paga non c’è affatto, perché il lavoro sottopagato è anche lavoro “in nero”.
Oppure – fenomeno diffusissimo - il sottosalario è praticato mediante l’utilizzo, abusivo e truffaldino, del contratto “part – time”: la busta paga appare perfetta, perché i minimi orari sono quelli del contratto collettivo migliore, ma le ore lavorate e pagate sono, ad esempio, solo 20 settimanali quando il lavoratore, costretto dal bisogno, ne ha fatte 40! Pagando ed esponendo in busta paga solo la metà delle ore lavorate, si pratica un sottosalario al 50% senza dare minimamente nell’occhio, facendo mostra di applicare il contratto collettivo. E magari….con la benedizione degli ingenui sociologi del lavoro che tessono le lodi del contratto “a part – time” come mezzo di integrazione socio-lavorativa di soggetti appartenenti a “fasce deboli”, come donne, giovani, anziani, ecc.
Ed allora, concludono quei cinici/scettici, a che serve introdurre per legge un salario minimo legale? Sarebbe una “grida manzoniana”, aggirabile facilmente nei modi suddetti, e con altre violazioni, ancora, della legislazione del lavoro.
Il terzo ordine di obiezioni è, invece, assai garbato nei toni e paludato di cultura giuridico-democratica: si osserva, invero, da parte di alcuni giuristi e politici che in realtà, in Italia, una garanzia legale generale di salario minimo legale ce l’abbiamo già, e per di più assai raffinata e potente, anche se molto originale e peculiare nel contesto internazionale: si tratta della norma dell’art.36 Cost. che, a suo tempo, una geniale improvvisazione dottrinale, adottata ben presto dalla giurisprudenza, ha trasformato da principio costituzionale di indirizzo in norma giuridica cogente nei rapporti individuali e di diritto privato.
Un caso, diremmo, veramente rimarchevole di “Drittwirkung”, ovvero di vigenza anche nei rapporti interprivati di diritti e garanzie costituzionali: è, invero, la proclamazione, nell’ art.36 Cost., del diritto di ogni lavoratore ad una retribuzione adeguata alla qualità e quantità del lavoro svolto, e sufficiente per i bisogni suoi e della sua famiglia, che si traduce nel concretissimo diritto di Tizio, dipendente mal pagato di Caio, di ottenere, da quest’ultimo, per sentenza del giudice, un aumento salariale con tanto di corresponsione di arretrati, comprensiva di interessi e rivalutazione. E per quanto l’importo concreto della “giusta” retribuzione dipenda, in sostanza, dalla discrezionalità del singolo giudice, il riferimento concreto adottato dalla maggioranza dei giudici è costituito proprio dal minimo di qualifica previsto dai contratti collettivi. Di talché questo “salario legale minimo” ottenibile per via giudiziaria da ogni lavoratore, oltre a costituire una peculiarità italiana, è anche qualitativamente preferibile – argomenta questa terza tipologia di obiettori - al salario legale minimo “classico”, costituito da una norma legislativa, o comunque di diritto obiettivo, che fissi un importo minimo cogente di salario per ora lavorativa (ad esempio gli € 9,00 delle nostre proposte parlamentari) perché evita il cd. “schiacciamento salariale”.
Il giudice, infatti, si riferirà non ad un valore unico, ma, a seconda delle mansioni concrete svolte dal lavoratore che a lui si è rivolto, ad uno dei diversi minimi delle diverse qualifiche previste dalla “classificazione” dei lavoratori contenuta in ogni contratto collettivo, in perfetta armonia con la previsione costituzionale della proporzionalità della retribuzione alla “quantità e qualità” del lavoro svolto.
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La risposta più importante a questo “catalogo di obiezioni” è – crediamo – quella che attiene al primo ordine, ossia al luogo comune secondo cui il salario minimo legale rischia di “ammazzare” la contrattazione collettiva nei Paesi in cui essa non ha efficacia erga omnes (ed in Italia non ce l’ha).
Mentre, poi, hanno aggiunto quegli obiettori, nei Paesi con contratti collettivi ad efficacia generale erga omnes è, proprio per questo, del tutto inutile, salvo forse il caso, marginalissimo, di piccoli settori produttivi ancora non coperti, per la loro insignificanza o, al contrario, per la loro novità, dalla contrattazione collettiva. Per dare un’adeguata risposta, a nostro avviso, basta leggere, in proposito, il disegno di legge n. 658/2018 dell’allora Ministro del Lavoro senatrice Catalfo, tuttora in fase di discussione, e così comprendere come questa diffusissima preoccupazione sia infondata, o comunque possa essere facilmente evitata. Occorre, semplicemente, che la legge sul salario minimo inizi (cfr. art. 1-2 del progetto n. 658/2018) con una norma di “promozione” del principio dell’art. 36 Cost., stabilendo che ogni lavoratore ha diritto ad un trattamento economico complessivo proporzionato alla “quantità e qualità” del lavoro svolto “non inferiore” a quello previsto dal CCNL di settore sottoscritto dalle associazioni sindacali più rappresentative (così da emarginare totalmente contratti e sindacati “pirata”).
Si tratterebbe, però, forse di un’“estensione” erga omnes dei contratti collettivi non consentita dall’ancora attuale vigenza dell’apposita (ma inutilizzabile) procedura prevista dall’art.39 della Costituzione?
Certamente no, perché la tecnica del legislatore di generalizzare non i contratti collettivi come “fonte” giuridica ma la valenza dei loro contenuti (“trattamento non inferiore”) è stata utilizzata dal legislatore da lustri o decenni, ad esempio con riguardo al minimo di contribuzione previdenziale (ex Legge n. 389/1989) e sempre con riferimento privilegiato ed unico ai CCNL stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi.
Piuttosto si tratta di comprendere a cosa possa allora servire la previsione legislativa anche di un importo minimo orario assoluto (es.: € 9,00 orari) visto che ci sarebbe già, in sostanza, per ogni lavoratore la garanzia di dover percepire il minimo contrattuale previsto dal CCNL per quelle mansioni rientranti in una certa qualifica.
La risposta (“dritta come una spada”) è che anche la contrattazione collettiva ha le sue debolezze, pur se sottoscritta dai sindacati maggiormente rappresentativi, di talché in certi settori economici (in specie: quello del “terziario” tradizionale o “arretrato”) per i lavoratori delle tre-quattro qualifiche più basse i minimi contrattuali collettivi sono in realtà inferiori, ad esempio, agli € 9,00 orari. La previsione legislativa di questo minimo assoluto fungerebbe, dunque, da “ruota di scorta” per una contrattazione collettiva quando essa è stata troppo avara verso i lavoratori delle qualifiche più basse nei settori economici meno affluenti. In questi settori (non, a dire il vero, in quello industriale che ha comunque valori contrattuali più alti) la “ruota di scorta” servirebbe a centinaia di migliaia di lavoratori, mentre quelli delle qualifiche medio-alte fruirebbero della pratica generalizzazione dei compensi di qualifica (più alti degli € 9,00) previsti per il loro tipo di mansione.
Il sistema di contrattazione collettiva verrebbe rafforzato da quel progetto di legge anche sotto altri profili: ad esempio sarebbe indispensabile fissare una regola legale di ultrattività dei contratti collettivi per evitare “fughe” dal contratto collettivo e dall’associazionismo datoriale in occasione della scadenza dei contratti collettivi stessi (che non abbiano già in sé, come spesso accade, una previsione negoziale e volontaria di ultrattività).
Quanto al secondo ordine di obiezioni (quello cinico/scettico) il punto è di rovesciarlo – e saperlo rovesciare – in positivo, se necessario anche con puntuali interventi normativi.
Purtroppo, nel nostro sistema produttivo di piccole e piccolissime imprese, la tendenza all’abuso è endemica, a volte per bisogno e necessità, a volte per avidità, e gli esempi costituirebbero un lunghissimo elenco: si pensi che è risultato che un datore su tre di quelli che hanno richiesto e ottenuto la CIG- Covid, in realtà ha fatto lavorare, in quei giorni, i propri dipendenti; si pensi, per fare un altro esempio, alla necessità, per il legislatore, onde estirpare la “piaga” delle “dimissioni in bianco”, di procedere all’istituzione di una complicata procedura ad evidenza pubblica per rassegnare dimissioni valide e così via.
Il ricordato abuso dei falsi part-time rientra in questo tipo di problematica e certamente la prima misura legislativa sarebbe quella di chiamare le cose con il loro nome e sancire legislativamente che si tratta di una truffa (e/o di un’estorsione) aggravata dalla sussistenza del rapporto di lavoro. Le altre misure dovrebbero essere di controllo amministrativo e di facilitazione dell’autotutela.
Ad esempio, stabilire una “rigidità” dell’apparente orario “part-time” e un obbligo, pesantemente sanzionato, di denunziare preventivamente le eventuali necessità di maggiorazioni di orario, e stabilire un’ingente pena pecuniaria privata in favore dei lavoratori che denunziano l’abuso agli ispettorati del lavoro ovvero al relativo Nucleo Carabinieri.
Con riguardo, poi, al lavoro “nero”, bacino principale di sottosalario, l’opera di bonifica normativa è di fatto già iniziata con l’equiparazione (nella nuova dizione dell’art. 2 D. Lgs. 81/2015) della collaborazione coordinata e continuativa eterorganizzata al lavoro subordinato, e questo è sicuramente importante per la tutela giudiziaria. Infatti, nei casi concreti di lavoro “nero”, una continuità della prestazione presso l’organizzazione aziendale del datore è dimostrabile abbastanza agevolmente, mentre l’eterodirezione in senso forte lo è assai di meno, per non dire mai (testimonianza “standard”: “sì, lo vedevo spesso, ma non tutti i giorni”; “decideva lui se venire a lavorare”).
Questi primi passi, tuttavia, non sono sufficienti per una vera bonifica legislativa del lavoro “nero”: occorre introdurre una presunzione iuris et de iure di subordinazione comportante, inoltre, un orario “full time” ed ancora una norma di tutela di illicenziabilità per i 2-3 anni successivi alla regolarizzazione.
Queste tutele si armonizzerebbero perfettamente con le previsioni della nuova legge in tema di salario minimo legale, realizzando una vera e definitiva bonifica del nostro mercato del lavoro, tutt’altro che difficile da compiersi tecnicamente, se ne esisterà la volontà politica.
Veniamo, infine, al terzo profilo apparentemente più discorsivo e meno “farouche” riguardante una sostanziale superfluità di un istituto di salario minimo legale in presenza della possibilità esistente, e da tanti anni, di invocare una determinazione giudiziale della giusta retribuzione ex art. 36 Cost.
Proprio qui, però, si tocca un punto di estremo interesse politico – giuridico, perché, attraverso quella determinazione giudiziale il salario minimo legale viene realizzato in modo solo virtuale, dovendo, appunto, essere assicurato, ma anche quantificato in concreto dalla valutazione discrezionale di un giudice, che può aderire, ma anche allontanarsi, dai minimi dei contratti collettivi.
La via giudiziale ex art.36 Cost. che è, ad oggi, la sola offerta dall’ordinamento a chi lamenta una condizione di sottosalario è sia “troppo stretta” ed, in qualche modo, “elitaria”, sia incerta nel risultato finale. A chi lamenta di percepire o aver percepito una retribuzione insufficiente ed inadeguata non viene offerta altra soluzione che quella di intentare (con tutte le difficoltà giuridiche ed ambientali) un giudizio avanti al Tribunale del Lavoro, senza certezza alcuna sull’an e sul quantum della sperata integrazione salariale tramite sentenza.
Manca, dunque, la tutela più sicura, semplice e facilmente esperibile della retribuzione adeguata, che sarebbe costituita, come si comprende, da quella amministrativa e non (solo) giudiziale.
Di fronte ad una differenza retributiva certa, discendente da norma legale o contratto collettivo che consenta ex se una quantificazione, il lavoratore può richiedere all’Ispettorato una “diffida accertativa” (art.12 D. Lgs. n. 126/2004), e cioè procedere ad un recupero in via amministrativa, ma se la differenza non è certa né nell’ an né nel quantum, dipendendo in tutto da una (futura) sentenza di un giudice ex art. 39 Cost., quella strada non è percorribile.
Con l’entrata in vigore di una legge sul salario minimo legale cambierebbe tutto, perché, diventando il differenziale salariale conoscibile ex ante, sarebbe alla portata di tutti il recupero in sede amministrativa, e fiorirebbero enti ed organizzazioni (sedi sindacali, patronati, avvocati di strada ecc..) pronti a guidare ed assistere il lavoratore.
In definitiva, quella del “lavoro povero” e sottopagato è oggi una malsana palude, infettata da lavoro “nero”, da abusi simulatori di falsi contratti a “part-time” o speciali, dalla mancanza di riferimenti affidabili ed universali ad un livello retributivo garantito.
Ma basterebbero, per risolverla del tutto in tempi brevi, pochi, semplici ed ormai studiatissimi interventi legislativi di riforma.
Tra essi il salario minimo legale, come normato dal ricordato Progetto, già da troppo tempo pendente in Parlamento, avrebbe sicuramente un ruolo centrale, ponendo un freno alla rovinosa caduta del nostro Paese verso gli ultimi posti nella classifica delle civiltà del Lavoro.

 

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