Testo integrale con note e bibliografia
L’esistenza, in Italia, di vaste zone del mercato del lavoro dove dominano i “bassi salari”, e quindi di una “questione salariale”, è davanti agli occhi di tutti. Il che è confermato dalla diffusione dei cosiddetti lavoratori “a basso salario”, della povertà e, in particolare, dei cosiddetti “working poor”: e cioè, lavoratori che restano poveri, pur lavorando. Il fenomeno, peraltro, riguarda anche ampie fasce del lavoro autonomo genuino.
Il dibattito scientifico su tali problematiche è estremamente ampio, a livello interdisciplinare e comparato. Le ricette prefigurate, ovviamente, non concernono solo misure lavoristiche, ma abbracciano l’intero range delle politiche industriali, economiche e sociali.
I fenomeni suddetti hanno risvegliato la discussione sull’opportunità dell’introduzione di meccanismi di salario minimo legale, com’è confermato dai diversi progetti di legge presentati in Parlamento. Il tema è collegato alle crescenti criticità del sistema di contrattazione collettiva italiana. Da tempo, infatti, in diversi settori, il contratto collettivo non riesce più a svolgere la sua tradizionale funzione anticoncorrenziale, vale a dire a togliere il costo del lavoro dalla concorrenza.
Il contratto collettivo è diventato, sovente, esso stesso strumento di concorrenza tra imprenditori: ciò a causa della compresenza, nello stesso settore, di contratti collettivi con costi del lavoro differenti. E questo non è dovuto solo all’esistenza di contratti collettivi “al ribasso”, siglati da soggetti poco o nulla rappresentativi, ma anche dal disordine presente nello stesso sistema contrattuale confederale. Qui, infatti, vi sono alcuni contratti collettivi nazionali con un campo di applicazione di carattere trasversale e onnicomprensivo (come il Multiservizi e il Servizi fiduciari e vigilanza); e che contengono trattamenti retributivi alquanto bassi (talvolta al di sotto della soglia di povertà). E così, essi, di fatto, fanno una concorrenza “al ribasso” ad altri contratti collettivi nazionali, dello stesso sistema confederale, nei settori di specifica pertinenza di quest’ultimi (specie nella logistica, nell’igiene ambientale, nell’alimentare, nell’edilizia).
Il disordine contrattuale moltiplica i suoi deleteri effetti, rendendo talvolta complesso individuare il contratto collettivo leader abilitato a gestire i rinvii legali alle determinazioni dell’autonomia collettiva e che costituisce il punto di riferimento delle molteplici normative legali che prendono in considerazione il contratto collettivo sottoscritto da soggetti qualificati, come appunto i sindacati comparativamente più rappresentativi. Un ambito di estrema importanza è quello degli appalti pubblici di opere e servizi. È difatti paradossale che, a causa delle criticità anzidette, ingenti risorse pubbliche, per giunta incrementate dalle enormi doti del Pnrr, possano essere facilmente accaparrate da operatori economici che non assicurino trattamenti economici e normativi dignitosi.
Di fronte alla povertà lavorativa, allo shopping contrattuale e al Far West contrattuale, quali possono essere le soluzioni per sciogliere tali nodi? Lievi interventi legislativi e delle parti sociali più rappresentative di manutenzione dell’esistente? Ovvero drastici interventi di riforma? Il salario minimo legale può essere una misura sufficiente? Oppure è necessaria una vera e propria legge sulla contrattazione collettiva che delinei un percorso attraverso cui si giunga, per ogni settore produttivo, alla fissazione di costi del lavoro omogenei? Se la povertà lavorativa tocca pure il lavoro autonomo genuino, come si contrasta tale fenomeno in quest’ambito? Quali sono le indicazioni e le suggestioni provenienti dal dibattito europeo e comparato che potrebbero trovare recepimento in Italia?