Testo integrale con note e bibliografia
Nell’archivio del Cnel sono quasi 1000 i contratti registrati come contratti collettivi nazionali di lavoro e riguardano 16,6 milioni di lavoratori pubblici e privati, esclusi agricoli e domestici, ai quali aggiungere 251 mila lavoratori pubblici a cui si applicano direttamente le norme di legge.
Il numero di contratti è raddoppiato dal 2012 a oggi e il fenomeno non sembra fermarsi. Quindi si potrebbe rilevare che a una altissima copertura contrattuale corrisponde una estrema frammentazione dei Ccnl e una moltiplicazione infinita delle condizioni. Ma se leggiamo i dati del Cnel insieme alle dichiarazioni Uniemens/Inps sul numero degli addetti per contratto, risulta evidente che 33 Ccnl firmati da Cgil Cisl e Uil coprono l’82% dei lavoratori cui si applica un contratto e i circa 200 contratti firmati dalle tre confederazioni ne coprono il 97%.
Questo rende evidente come in Italia ci troviamo in una situazione paradossale: la nostra Costituzione afferma giustamente che l’organizzazione sindacale è libera, purché sia democratica, e ne riconosce personalità giuridica affermando che in base alla propria rappresentanza può anche unitariamente stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes. Ma l’assenza di una legge sulla rappresentanza ha portato al moltiplicarsi di soggetti firmatari di contratti in quanto semplicemente riconosciuti dalla controparte con cui li stipulano.
A questo elemento fondamentale se ne aggiungono altri che, moltiplicandone il numero, portano al rischio di delegittimare la funzione del Ccnl come riferimento essenziale e unificante delle condizioni di lavoro: qualunque accordo perviene all’archivio del Cnel dalle parti sociali qualificato come ccnl così viene recepito. Ma se si legge l’elenco abbondano i contratti di singole aziende, di singole professioni anche all’interno di gruppi o aziende, che siano poco significative o strategiche.
I contratti si moltiplicano perchè sindacati minoritari o pressochè inesistenti firmano accordi al ribasso, magari rispettando i minimi del Ccnl di riferimento, ma agendo su tutte le altre voci della retribuzione e della normativa. Per questo sono “pirata”: si appropriano della struttura del contratto ma lo adeguano allo sfruttamento dei lavoratori.
Ma i contratti si moltiplicano anche a firma delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (unitariamente e non), spinte da associazioni di imprese che vogliono il proprio uscendo da quello più largo di riferimento; un fenomeno questo che da un lato segnala come la crisi di rappresentanza attraversi significativamente il sistema delle imprese, dall’altro certifica che il moltiplicarsi dei contratti in uno stesso campo di applicazione di norma produce effetti tutt’altro che positivi per i lavoratori, innestando chiari elementi di dumping. Quindi, è anche sintomo di debolezza sindacale. Non a caso la moltiplicazione avviene in particolare in settori più fragili, del terziario e dei servizi.
Altro fenomeno di questi anni è quello di Ccnl, magari di un settore particolarmente debole come le imprese di pulizia, che allarga le proprie competenze in modo da assumere un carattere trasversale alle attività via via crescenti date in appalto nel pubblico e nel privato, e che per la sua struttura incontra tali difficoltà al rinnovo da vedere progressivamente crescere la distanza economica con gli altri contratti di cui attraversa il campo di applicazione.
Ma la questione del mancato rinnovo dei contratti alla loro scadenza, anche per diversi anni, va molto oltre alcuni esempi noti, ed è un altro fattore determinante per la mancata crescita dei salari.
Tutti questi elementi ci pongono diversi ordini di problemi. Per citare solo i primi: chi e come dà validità a un contratto? Per quanto ci riguarda, è il voto dei lavoratori sulle piattaforme e sugli accordi. Altrimenti è la parte imprenditoriale che gli dà legittimità praticandolo, ma senza il rispetto del principio della rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori. Altra questione: cosa distingue un accordo pur legittimo da un contratto nazionale, e quindi dal contratto tendenzialmente “per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce”? (art 39 della Costituzione). La risposta naturalmente è nella rappresentanza dei sindacati che lo firmano e quindi nella sua misurazione, insieme al voto dei lavoratori. Ma se intanto, in assenza di una legge che la normi, si vuole disboscare questa giungla in cui i diritti si perdono, solo a prendere in considerazione questi primi elementi ci rendiamo conto che è possibile farlo, anche da subito. Ad esempio, si potrebbe convenire che per essere un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro bisogna che sia applicato a una percentuale definita dei lavoratori del settore? Che deve interessare aziende di un certo numero di regioni? Che sia stato approvato dai lavoratori? Esercitarsi ad applicare anche uno solo di questi parametri darebbe risultati chiarissimi.
Il moltiplicarsi dei contratti è andato di pari passo con l’aumento vertiginoso della precarietà del lavoro, che i provvedimenti legislativi hanno accompagnato e sostenuto dalla metà degli anni ‘90 in poi, qualunque fosse il governo. Oggi questa condizione è registrata inequivocabilmente anche dai dati Istat sulle assunzioni, tutte precarie, sulla condizione delle donne e dei giovani, sull’impoverimento nel lavoro e sulla crescita delle diseguaglianze. E questo in tutti i settori, anche se non in modo omogeneo, dall’industria al terziario, dal pubblico al privato, dalla fabbrica all’ospedale, dal supermercato alla redazione, dalla scuola al centro di ricerca.
L’Istat ci dice che sono quasi 5 milioni i lavoratori non standard, cioè a tempo determinato, part time involontario, collaboratori a vario titolo. Soprattutto giovani, donne nel mezzogiorno e stranieri. E che il dopo pandemia accentua questa tendenza. Mi permetto di aggiungere, a dispetto della enorme quantità di risorse messe a disposizione delle imprese, senza condizionalità.
La moltiplicazione dei contratti riconosciuti come tali indipendentemente da un principio di rappresentanza e rappresentatività che intervengono sulla stessa platea di lavoratori e le leggi che hanno destrutturato il lavoro stabile nel pubblico e nel privato sono figlie di una stessa storia: la frantumazione del lavoro per metterlo al servizio di una competizione sui costi o del pareggio di bilancio. Il sindacato nasce per essere esattamente l’opposto della frantumazione, esprimendo il diritto di coalizione delle lavoratrici e dei lavoratori come strumento per affermare e difendere la proprie condizioni.
Lavoratori pagati al ribasso e risparmi nella pubblica amministrazione sono anche le fondamenta dell’esplosione di appalti e subappalti, con tutte le conseguenze che questo ha comportato, dando spazio a illegalità e sfruttamento. Il modello vincente sembra essere quello del general contractor, che prende l’appalto e lo redistribuisce, con vincoli di responsabilità molto fragili, rimessi un po’ in ordine nel pubblico e nell’edilizìa, dove però l’enorme incidenza degli infortuni mortali sul lavoro ci parla di quanto importante sia la parte che riesce a sfuggire alle regole.
I dati Eurostat riferiti al 2021 ci dicono che il salario lordo annuo medio in Italia (29.440 euro) è decisamente più basso di Germania e Francia (rispettivamente 44.468 e 40.170) e anche della media dell’Eurozona (37.382). Certo, questi sono numeri molto significativi che ci dicono come sia necessario far crescere i salari nel nostro paese e ci dice pure delle scelte sbagliate fatte dalle imprese, di concorrere sui costi e non sulla qualità, di un fisco ingiusto che ha perso il carattere della progressività e tanto altro ancora.
Ma fermiamoci ad analizzare un aspetto di questo dato: l’Eurostat prende a riferimento la massa salariale e la divide per le persone cui si riferisce. Dentro ci sono i contratti nazionali, la contrattazione di secondo livello, i superminimi individuali, e tutto quello che fa salario. Ma – come commenta Fulvio Fammoni presentando la ricerca su questi dati della Fondazione Di Vittorio - dentro c’è anche tanto lavoro povero: in nessun paese dell’Eurozona il lavoro a termine continua a crescere nelle dimensioni del nostro paese e abbiamo un tasso di part time involontari del 62,8% a fronte di una media europea del 23,3. E’ soprattutto questo che produce salari annui sotto i 12.000 euro lordi per milioni di lavoratori.
Contratti di poche ore a settimana, anche pochissime, o sono indice di povertà assoluta o nascondono lavoro pagato in nero; contratti di qualche mese l’anno con tanti vuoti sono lavoro povero.
Contratti con minimi molto bassi perché ci mettono anni a essere rinnovati, o perché il dumping contrattuale nel settore li spinge giù, o ancora perché il contratto riguarda un numero relativamente basso di lavoratori o settori deboli a basso valore aggiunto, o per l’esplosione numerica dei contratti pirata.
Ho messo in fila questi elementi per dire che in Italia oltre il 90% dei lavoratori ha un Contratto nazionale di riferimento, ma questo non significa automaticamente avere un salario accettabile. Il Salario minimo serve, e serve ancora di più per quel lavoro autonomo che ha molte caratteristiche del lavoro dipendente, ma al quale non vengono riconosciuti salari e diritti adeguati.
Serve il salario minimo come serviva il reddito di cittadinanza, come serve rafforzare la funzione della contrattazione collettiva attraverso il riconoscimento della rappresentanza per dare valore erga omnes ai contratti, come serve garantire orari minimi, e altro ancora. Lotta all’evasione e al lavoro nero, un fisco che non faccia pesare su lavoro e pensioni tutto il sostegno allo Stato sociale, politiche industriali e politiche pubbliche, valorizzazione del lavoro e vincoli alle risorse date alle imprese, inversione di marcia rispetto alla precarizzazione che impoverisce nel presente e per il futuro, e altro ancora.
Non è il salario minimo che toglie valore ai contratti, ma i processi che in questi anni sono stati consentiti e accompagnati.
Anzi, la discussione sul salario minimo può portare ad affrontare altri nodi del problema che abbiamo di fronte.
In Italia c’è una copertura contrattuale che ci permetterebbe di non dare corso alla direttiva europea, per trovarci poi - come per il reddito di cittadinanza - a affrontare il tema in ritardo rispetto alla quasi totalità degli altri paesi. Ma se invece eviteremo questo errore, allora bisognerà rispettarne alcuni principi, dalla commissione ministeriale con le parti sociali alla rivalutazione periodica, che possono essere utili rispetto alle distorsioni che il sistema ha assunto. Il punto di arrivo per noi non può che essere l’estensione del trattamento economico complessivo e anche della parte normativa dei contratti a tutti i lavoratori, qualunque sia il rapporto di lavoro. Il punto di partenza, ricavare dai contratti il minimo sotto il quale nessuno può essere pagato. Ma un minimo congruo, una “retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato” (articolo 36 della Costituzione) e quindi non inferiore a quella dei lavoratori cui si applicano i contratti nell’insieme delle voci che compongono la retribuzione. Un salario minimo così individuato sotto il quale non si possa andare, e che quindi affronti anche la questione dei minimi troppo bassi che si sono determinati in alcuni contratti. E che naturalmente sia esigibile. E questo, per concludere il ragionamento delle cose da aggiustare e che hanno prodotto abbassamento dei salari e delle condizioni e incertezza dei diritti, significa anche rimettere in discussione l’articolo 8 del dl 138/2011, la cosiddetta contrattazione di prossimità della legge Sacconi, che permette di derogare le leggi e i contratti.