Testo integrale con note e bibliografia
Testo della sentenza cass. sez. lavoro, 6-9-2022
1. Il caso di specie.
La sentenza in commento costituisce il punto di approdo di un lungo dibattito, registratosi tanto nella dottrina giuslavoristica quanto nella giurisprudenza di merito, che prende le mosse dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 63 del 10 giugno 1966, e rinnovatosi a partire dalle novelle apportate nel 2012 e nel 2015 all’apparato sanzionatorio del licenziamento illegittimo.
La questione principale concerne l’individuazione del dies a quo della decorrenza del termine di prescrizione quinquennale del credito retributivo; questione che, come si vedrà, è strettamente collegata alla nozione di “stabilità” del rapporto di lavoro.
Il caso di specie prende le mosse dalla richiesta di accertamento del diritto di percepire alcune somme a titolo di differenze retributive per lavoro notturno straordinario, avanzata da parte di due lavoratrici soggette all’apparato sanzionatorio del licenziamento illegittimo previsto dall’art. 18, l. n. 300/1970, come modificato dalla l. n. 92 del 28 giugno 2012 (cd. riforma Fornero). La Corte di Appello di Brescia aveva accolto l’eccezione di prescrizione quinquennale del credito, aderendo all’orientamento giurisprudenziale che propende per l’imprescindibilità del requisito di stabilità del rapporto di lavoro. Sul punto, la Corte territoriale argomenta che, nonostante le modifiche introdotte al regime sanzionatorio del licenziamento, quello ritorsivo, intimato, cioè, come reazione alla rivendicazione da parte del lavoratore di un suo diritto, è ancora sanzionato con la reintegrazione nel posto di lavoro. Ciò, secondo il Giudice di seconde cure, pone il prestatore di lavoro al riparo da quella condizione psicologica di soggezione al datore di lavoro che potrebbe dissuaderlo dal rivendicare i suoi diritti durante lo svolgimento del rapporto (v. infra).
2. La prescrizione estintiva.
La prescrizione (artt. 2934 – 2963 c.c.)è modo generale di estinzione dei diritti . I presupposti dell’istituto sono costituiti dall’inerzia del titolare del diritto, da intendersi quale comportamento omissivo che, alla stregua dell’interpretazione secondo buona fede, assume un significato nella realtà sociale e dal decorso del tempo. L’effetto estintivo della prescrizione può riguardare solo diritti disponibili e quelli per i quali la legge non lo escluda.
L’istituto trova la sua ratio, anche secondo la pronuncia in commento, nell’indefettibile necessità di certezza del diritto, avamposto di “civiltà giuridica di un Paese, quale principio di affidabilità per tutti: sull’effettività dei diritti e sulla loro tutela, sulle relazioni familiari e sociali, sulle transazioni economiche e finanziarie. E come esso si rifletta sulla stessa attrattività di uno Stato, per investimenti e iniziative di intrapresa [sic] economica in senso lato, in un sistema di relazioni e di scambi internazionali da tempo strettamente interconnesso, nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese” .
Il legislatore del ’42 ha stabilito che si prescrivono con il decorso del termine quinquennale i crediti del lavoratore da pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi, nonché le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro (art. 2948, nn. 4 e 5); per i trattamenti non soggetti a questo regime di periodicità, il termine di prescrizione è quello ordinario decennale (art. 2946 c.c. sulle prescrizioni presuntive, v. infra) .
Ai sensi dell’art. 2935 c.c., “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.
Come si avrà modo di dimostrare in questa sede, la soluzione della questione non risiede nella scelta di campo tra la tutela massima della certezza del diritto e il sacrificio di questa, in nome dell’esigenza di giustizia (per evitare che il lavoratore sia esposto ad atti ritorsivi, la cessazione del rapporto, anche se intervenuta a distanza di tempo) . La conclusione cui è pervenuta la Suprema Corte, è, infatti, sistematizzabile all’interno dei principi di diritto positivo così come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale, che costituisce l’archetipo del discorso .
3. La prescrizione del credito retributivo dal Codice civile alle sentenze della Corte costituzionale sul d. lgs. n. 23/2015.
Per elaborare il principio di diritto cui si dovranno uniformare i Giudici di merito per riformare la sentenza, la Corte svolge un lungo excursus sulla giurisprudenza costituzionale, stratificatasi a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, nonché sugli interventi normativi del 2012 e del 2015.
Fatto pacifico in epoca corporativa , si cominciò a dubitare della decorrenza dei crediti del lavoratore in costanza di rapporto dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Il diritto garantito nell’art. 36, co. 1, Cost., norma eccezionalmente precettiva che, pertanto, configurava un diritto soggettivo immediatamente azionabile , strideva con il principio liberale di parità formale dei contraenti, sul quale era modellata la disciplina allora in vigore per il licenziamento del dipendente privato .
Fu proprio in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 Cost. che venne sollevata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2948, n. 4 e 5, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c. Con la sentenza del 6 giugno 1966, n. 63 , la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale delle citate norme del Codice civile nella parte in cui consentivano che la prescrizione decorresse in costanza di rapporto. La garanzia apprestata dall’art. 36 Cost. - chiarì il Giudice delle leggi - comporta l’irrinunciabilità del diritto al salario, che è concetto meno ampio rispetto a quello di indisponibilità . La Corte mise in chiaro che, se il diritto al salario è irrinunciabile, il diritto alla corresponsione di periodiche prestazioni salariali è, invece, disponibile : il lavoratore può, pertanto, rinunciarvi. E’, tuttavia, da escludersi che tale rinuncia possa validamente essere effettuata in costanza di rapporto (in base alla stessa ratio che ha ispirato la previsione dell’art. 2113 c.c.), poiché “in un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d’impiego pubblico”, il lavoratore si trova in una soggezione psicologica di metus tale da essere dissuaso dalla rivendicazione dei propri diritti, “per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarci, cioè per timore del licenziamento” . Per questa ragione, ai sensi dell’art. 2935 c.c., il dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione coincide con la cessazione del rapporto di lavoro: solo a partire da allora, infatti, “il diritto può essere fatto valere”.
Il 20 novembre 1969, con la sentenza n. 143, la Consulta ebbe a precisare che quella “forza di resistenza” in presenza della quale, ai sensi dell’art. 2935 c.c., la prescrizione può decorrere in costanza di rapporto, consiste in una disciplina che assicuri normalmente la prosecuzione del rapporto in caso di illegittima risoluzione dello stesso . Coerentemente con questo principio, si negò l’applicabilità di quanto espresso nella sentenza n. 63/1966, cit., nei confronti dei titolari di rapporto di pubblico impiego, che rappresentava l’archetipo della stabilità.
Per i datori di lavoro privati, invece, era coerentemente escluso che la tutela apprestata dalla l. 15 luglio 1966, n. 604, fosse garanzia di stabilità: ai sensi dell’art. 8, l’atto di licenziamento, sebbene illegittimo perché intimato in mancanza degli estremi del giustificato motivo o della giusta causa, era idoneo ad interrompere la continuità giuridica del vincolo . Per questi rapporti, assistiti dalla sola tutela obbligatoria, il dies a quo della prescrizione della prestazione salariale coincideva, quindi, con la data di cessazione del rapporto di lavoro .
Il quadro sanzionatorio del licenziamento illegittimo mutò notevolmente con l’introduzione della l. 20 maggio 1970, n. 300. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, rubricato “Reintegrazione nel posto di lavoro”, equiparò i vizi che, sotto il profilo delle conseguenze sanzionatorie, erano distinti nella l. 15 luglio 1966, n. 604 . Nel caso di risoluzione abusiva del rapporto di lavoro, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, stabilì che il risarcimento del danno al lavoratore licenziato illegittimamente doveva essere accordato in forma specifica, attraverso il ripristino della posizione soggettiva lesa. Ciò costituisce un punto fondamentale per il proseguo del discorso: essendo agevole e possibile, almeno nelle imprese di maggiori dimensioni, rimuovere direttamente gli effetti del pregiudizio arrecato al lavoratore, il legislatore dello Statuto aveva optato per la restitutio in integrum in tutti i casi di illegittimità del recesso del datore di lavoro.
Poiché l’ambito di applicazione della tutela reale era limitato alle unità produttive di maggiori dimensioni, la Corte costituzionale tornò nuovamente sull’interpretazione del principio stabilito nelle sentenze precedenti, coordinandolo con il nuovo assetto normativo. Con la sentenza del 12 dicembre 1972, n. 174, venne chiarito che la norma statutaria aveva introdotto la garanzia di una vera stabilità nel rapporto di lavoro, perché alla declaratoria di illegittimità del licenziamento seguiva, in ogni caso, la rimozione degli effetti dell’atto illegittimo, attraverso la reintegrazione nel posto di lavoro .
Anche le Sezioni Unite, poco dopo, accolsero questa interpretazione , asserendo che stabili sono quei rapporti la cui risoluzione è “subordinata a circostanze obiettive e predeterminate” e in cui, in sede di sindacato giudiziale, a fronte dell’illegittimità del licenziamento, vi sia la possibilità di rimozione degli effetti .
In conseguenza di questa interpretazione, quindi, per i rapporti soggetti all’ambito di applicazione dell’art. 18, l. n. 300/1970 non vi erano ostacoli alla decorrenza della prescrizione durante lo svolgimento del rapporto di lavoro .
Questa impostazione giuridica è stata da allora ampiamente e pacificamente condivisa anche dalla dottrina , almeno sino a che il regime del licenziamento non ha subito profondi mutamenti sul piano delle conseguenze derivanti dall’accertamento dell’illegittimità del recesso, mettendo, così, in crisi il noto schema basato sulla certezza del rimedio sanzionatorio: o tutela reale, o tutela obbligatoria, tertium non datur .
La l. n. 92/2012, modificando l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (rubricato, ora, “Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo”), non è formalmente intervenuta sulle causali giustificative del licenziamento, che rimangono invariate nella formulazione dell’art. 3, l. n. 604/1966 e dell’art. 2119 c.c., né sull’ambito di applicazione dell’art. 18. La novella ha invece riguardato l’apparato sanzionatorio del licenziamento illegittimo, laddove l’impianto della norma, caratterizzato dall’equiparazione dei vizi del licenziamento sul piano delle conseguenze, è stato sostituito da un modello a geometria variabile quadripartito , in cui la conseguenza sanzionatoria è graduata in base alla gravità del vizio dell’atto .
Poco dopo, il d. lgs. n. 23/2015 (“Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” ), applicabile a tutti i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, è intervenuto, nuovamente, sul regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo, limitando ulteriormente l’ambito di applicazione della tutela reale .
A seguito di queste modifiche, nella giurisprudenza di merito si è registrato un contrasto sulla decorrenza della prescrizione: accanto all’orientamento maggioritario che, ritenendo venuta meno la stabilità del rapporto, individua il dies a quo alla cessazione dello stesso , si registrano alcune pronunce nel senso opposto, condivise da parte della dottrina .
Come opportunamente ribadito dalla sentenza in commento , la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto, id est la possibilità di far valere il diritto all’adempimento dell’obbligazione retributiva, è subordinato alla definizione di “circostanze obiettive e predeterminate” da cui dipende la risoluzione dello stesso, nonché, come detto, alla possibilità del Giudice di rimuovere gli effetti dell’eventuale illegittima risoluzione .
Alla luce della riforma subita dall’art. 18, l. n. 300/1970 e con la disciplina introdotta dal d. lgs. n. 23/2015, ciò non è più possibile. Un licenziamento illegittimo è, salvo alcuni casi, idoneo a dispiegare i suoi effetti, risolvendo il rapporto di lavoro, mentre “la tutela reintegratoria ha certamente carattere regressivo” .
Posta in questi termini la questione, è evidente che è inconferente (come anche affermato nella sentenza che qui si annota ) la critica che fonda l’imprescindibilità della stabilità del rapporto sulla considerazione che il licenziamento ritorsivo (di difficilissima dimostrazione in sede giudiziale) sia ancora passibile di declaratoria di nullità, con conseguente rimozione di tutti gli effetti . A questo proposito, si noti che anche la c.d. tutela reale di diritto comune trovava già applicazione suppletiva nelle ipotesi di nullità ulteriori rispetto a quelle contemplate nella l. n. 604 e nello Statuto dei lavoratori, a prescindere dalla soglia dimensionale dell’impresa .
Con la sentenza n. 45/1965, la Consulta aveva già censurato un’interpretazione degli artt. 4 e 35 Cost. come configuranti un diritto fondamentale alla conservazione del posto di lavoro e, con la successiva pronuncia n. 46 del 2000, aveva dichiarato ammissibile la proposta di referendum abrogativo dell’art. 18, statuendo che la tutela reintegratoria non è l’unica forma di tutela compatibile con il dettato costituzionale. Con una sentenza recente, la Consulta ha ribadito questi principi e statuito l’adeguatezza della tutela apprestata con il Decreto 23, poiché, fermo il limite della necessità di compensare il lavoratore per il danno subito e di dissuadere il datore di lavoro dal compimento di atti illegittimi si tratta di scelta rientrante nella discrezionalità del legislatore.
Tuttavia, che il risarcimento in forma specifica e quello per equivalente siano due entità ontologicamente distinte non è opinabile. Le riforme introdotte con la l. n. 92/2012 e in attuazione della legge delega n. 183/2014 sono state ispirate dal dichiarato scopo di ridurre l’ambito di applicazione della tutela reale. Il legislatore, quindi, ha compiuto (legittimamente, secondo la Corte costituzionale) una scelta che è di segno opposto rispetto a quella della stabilità, come interpretata dalla Corte costituzionale e come ricavabile dai generali principi del diritto civile, atteso che la monetizzazione è un’entità diversa dalla ricostituzione della posizione giuridica lesa . In questo senso, costituisce una forzatura affermare che, poiché la tutela è adeguata, allora il rapporto di lavoro è stabile. È appena il caso di notare che una tutela inadeguata contro il licenziamento illegittimo non potrebbe trovare posto nell’ordinamento (proprio come è stato per il meccanismo di calcolo automatico dell’indennità). Pertanto, l’adeguatezza della tutela non può certo fungere da parametro, in quanto, contrariamente, ogni rapporto dovrebbe considerarsi stabile solo perché adeguatamente tutelato. Da questa notazione si coglie l’eterogeneità dei due concetti dell’adeguatezza della tutela e della stabilità del rapporto. Proprio in ragione di tale diversità, né la Corte costituzionale, né la Cassazione hanno mai fondato, ai fini dell’individuazione del dies a quo della prescrizione, la stabilità del rapporto sull’adeguatezza della tutela.
Come opportunamente affermato dalla Cassazione , i rapporti di lavoro soggetti all’applicazione della disciplina dell’art. 18, l. n. 300/1970 (e, tanto meno, quelli rientranti nell’ambito di applicazione del d. lgs. 23/2015), non sono assistiti da stabilità, poiché la scelta tra la tutela reale e la tutela meramente obbligatoria è rimessa, con giudizio necessariamente ex post, all’apprezzamento del giudice nel caso concreto. Da ciò discende l’impossibilità, per il lavoratore, di sapere, durante lo svolgimento del rapporto, quale sarà il rimedio accordatogli in caso di licenziamento, di cui pure sia accertata l’illegittimità, equiparando la sua posizione a quella di un lavoratore soggetto alla tutela meramente indennitaria .
Senza sminuire la gravità dell’atto di licenziamento, inoltre, come già evidenziato da alcuni Autori , si ritiene che ad instillare metus nel lavoratore contribuisca anche la possibilità di subire trasferimenti, demansionamenti, o altri atti che, pur essendo legittima esplicazione dello ius variandi e del potere di controllo del datore di lavoro, costituiscono atti che comunque incidono sulla dimensione personale del lavoratore . I decreti attuativi della legge delega n. 183/2014, oltre ad avere relegato la reintegrazione ad ipotesi ancora più limitate, hanno, infatti, anche modificato la disciplina dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 4, l. n. 300/1970, prestando il fianco a ritorsioni datoriali “più sottili e mimetiche, ma non meno avvilenti del licenziamento” .
4. Le prescrizioni presuntive
La sentenza in commento contiene soltanto un breve accenno al tema relativo alle prescrizioni presuntive, limitandosi, infatti, ad affermare che le previsioni degli articoli 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c. devono essere interpretate alla luce dell’elaborazione della giurisprudenza costituzionale . Invero, il tema merita approfondimento, in quanto, a parere di chi scrive, la tenuta dell’intero sistema delineato a partire dalla sentenza C. cost. 63/1966 passa anche attraverso il chiarimento sull’operatività delle prescrizioni presuntive nell’ambito dei rapporti di lavoro.
Le prescrizioni presuntive costituiscono, infatti, un istituto peculiare, destinato ad operare nella dimensione del processo, atteso che il decorso del tempo non influisce sull’esistenza del diritto, ma determina soltanto conseguenze sul regime probatorio . Al di fuori dell’ipotesi prevista dall’art. 2959 c.c., qualora il datore di lavoro sia convenuto in giudizio per il pagamento di spettanze non corrisposte ed eccepisca la prescrizione presuntiva, il lavoratore avrebbe, come unica possibilità di dimostrare che l’obbligazione retributiva non è stata estinta, solo il deferimento del giuramento decisorio (art. 2960 c.c.).
In dottrina è stata avanzata l’ipotesi che l’istituto non potrebbe più operare, in considerazione delle formalità documentali previste per il rapporto di lavoro, che escludono, evidentemente, la ricorrenza di una presunzione di pagamento .
Sul punto si è registrato un contrasto anche nella giurisprudenza di legittimità. L’orientamento maggioritario esclude l’operatività della prescrizione presuntiva qualora l’obbligazione nasca da un contratto avente forma scritta e quando sia stato pattuito il differimento e il frazionamento del credito . Altre pronunce, valorizzando il dato letterale delle disposizioni e la giurisprudenza costituzionale sul punto, ritengono, invece, che l’istituto sia pienamente operante .
A chi scrive sembra che siamo dinnanzi ad un caso in cui la normativa codicistica mal si concilia con la legislazione speciale emanata dopo l’entrata in vigore del Codice civile. In particolare, con la l. n. 4 del 5 gennaio 1953, il legislatore ha previsto che il datore di lavoro sia obbligato a consegnare al lavoratore, contestualmente alla corresponsione della retribuzione, un prospetto paga scritto (artt. 1 e 3) . Questa disposizione sottrae, evidentemente, il rapporto di lavoro al novero di quei rapporti obbligatori della vita quotidiana ad adempimento immediato ed informale, che hanno ispirato il legislatore delle prescrizioni presuntive.
A tale rilievo di per sé dirimente, se ne aggiungono ulteriori ove si consideri proprio la dimensione processuale dell’istituto sopra evidenziata. Come affermato dalla sentenza n. 57 del 1962 della Corte costituzionale, la presunzione di prescrizione non si sostanzia in una diminuzione della tutela processuale del credito, perché si limita ad imporre al creditore di sollecitare l’adempimento dell’obbligazione entro un termine certo .
L’impossibilità di predicare una diminuzione della tutela processuale del credito vale, a maggio ragione, nell’ambito del rapporto di lavoro, ove si consideri, in primo luogo, che il datore di lavoro potrebbe sempre dimostrare l’avvenuto adempimento della prestazione oggetto della propria obbligazione depositando in giudizio le prove documentali richieste dalla l. n. 4/1953.
In secondo luogo, va valorizzata anche in quest’ambito la disposizione di cui all’art. 421, co. 2, c.p.c., che, nel consentire al giudice di disporre d’ufficio l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti stabiliti dal Codice civile, abilita comunque il Giudicante all’acquisizione di evidenze che consentano di provare l’adempimento.
L’ordinamento, quindi, offre al datore di lavoro debitore adeguati strumenti di tutela che rendono persino superfluo il ricorso alle prescrizioni presuntive nel rito del lavoro. Al contempo, in tal modo, si evita che i principi affermati dalla Corte costituzionale possano vanificarsi per il tramite di un istituto che non può attagliarsi ai rapporti di lavoro.