Testo integrale con note e bibliografia
1. Che il lavoro sia intimamente connesso alla natura umana o esprima finanche l’essenza concreta dell’essere umano è una tesi che non stupisce di incontrare nelle ricostruzioni storicofilosofiche. Uno sguardo di sorvolo alla storia del pensiero sembra consegnarci questa tesi come trait d’union che accomunerebbe la lettura antropologica di molta filosofia e che avrebbe in Locke, Hegel e Marx alcuni nomi di spicco.
In realtà, un occhio più attento non può che rilevare subito quanto la centralità antropologica del lavoro sia un postulato che si è affermato in tempi relativamente recenti – e quanto del resto neppure nei tre grandi filosofi appena menzionati si possa stabilire un’equazione tanto immediata tra essere umano e attività lavorativa. Attorno al lavoro si è intrecciata fin dai tempi antichi una polifonia di voci distinte che solo la parzialità della circolazione delle fonti e una narrazione storica sempre consegnata alle rappresentazioni vincitori hanno potuto ridurre al “disprezzo” o alla svalutazione morale e politica della pluralità di attività più o meno umili che animano la storia umana.
È però indubbio che l’età moderna sia giunta a costruire una peculiare valorizzazione del lavoro, sotto il profilo sia politico e sociale che filosofico e teorico. La seconda metà dell’Ottocento e il primo Novecento hanno infatti segnato un processo di sacralizzazione del lavoro, e finanche di esaltazione più o meno strumentale e nazionalista della gioia e della libertà ad esso connessi, che ha visto una tanto peculiare quanto ancora poco scandagliata convergenza degli sforzi politici e intellettuali pur antitetici di destre e sinistre, teorie socialdemocratiche e dottrine sociali delle chiese, posizioni reazionarie e avanguardie rivoluzionarie. Tale processo certo rispecchia, e anzi ha contribuito a generare, gerarchie sociali ed epistemiche tra le diverse tipologie di attività in cui gli esseri umani sono socialmente impegnati. Al tempo stesso, tuttavia, esso si è esteso astrattamente a coinvolgere qualsiasi attività socialmente organizzata e retribuita, senza alcuna distinzione qualitativa effettiva in merito alla specifica attività in questione – manuale o intellettuale, autonoma o dipendente, di rilievo pubblico o meno. Esito evidente ne è appunto un diffuso convincimento che vede nel lavoro, se non l’essenza dell’essere umano, di certo un fattore ad esso consustanziale, naturalmente connesso alla realizzazione di sé e altrettanto naturalmente incuneato al centro dell’interazione sociale.
Ora, proprio una critica di questa ipertrofia del “lavoro”, che porta a postulare la centralità antropologica del lavoro e si spinge finanche a identificare l’essenza umana con lo svolgimento di un lavoro, è l’obiettivo che Michel Foucault si poneva nel discutere del concetto e delle pratiche di lavoro che, se non sono propriamente ascrivibili alle questioni più direttamente tematizzate dal filosofo francese, sono però un fil rouge tematico che è agevole ritrovare in molte sue ricerche. La mossa risulta particolarmente chiara in una serie di conferenze che l’autore ha tenuto alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro all’inizio degli anni Settanta, pubblicate nel 1974 sotto il titolo A verdade e as formas juridicas. Muovendo principalmente da una rilettura di queste conferenze – in particolare dell’ultima delle cinque – e da un confronto con la nozione di “lavoro” che emerge in alcuni passaggi tratti invece da uno degli ultimi testi che Foucault ha dato alle stampe prima della sua morte, L’uso dei piaceri, le pagine che seguono intendono mettere in luce, una volta di più, alcune tensioni intrinseche a un concetto attorno a cui non cessa per noi di giocarsi tanta parte delle relazioni sociali e giuridiche così come delle costruzioni identitarie.
2. Le conferenze dedicate alla Verità e le forme giuridiche si accompagnano allo studio genealogico che Foucault dedica all’evolversi dei sistemi penali e dei dispositivi di disciplinamento, che darà vita tanto ai corsi al Collège de France – a partire da quello dedicato appunto all’ortopedia sociale di una “società punitiva” – quanto al testo del 1975 dedicato al sistema carcerario, Sorvegliare e punire. È attraverso queste ricerche che prende forma l’ipotesi del potere biopolitico, in cui il filosofo francese cristallizza il passaggio storico da un potere che inscena la sua magnificenza e la sua massima espressione nel condannare a morte i suoi soggetti tra i supplizi ad un potere nascosto, la cui forma specifica è piuttosto quella di amministrare minuziosamente la vita di tutti e ciascuno. La complessità di questo panorama di indagine non trova evidentemente piena e precisa espressione nel testo di queste conferenze, che però hanno il pregio di condensare in modo estremamente efficace, ancorché schematico, la posta in gioco e le argomentazioni che stavano prendendo forma nel cantiere foucaultiano.
L’obiettivo dichiarato dell’analisi sviluppata in queste pagine è mostrare che “il lavoro non è assolutamente l’essenza dell'uomo o l’esistenza dell’uomo nella sua forma concreta”. Questo convincimento si rivela piuttosto, secondo l’argomentazione che Foucault compendia nell’ultima parte del testo, il risultato di una sintesi sociale e politica. Affinché gli esseri umani siano posti al lavoro e facciano parte di quella funzione socialmente organizzata che è diventato il lavoro sono infatti “necessarie una serie di operazioni complesse”, a loro volta sociali, che hanno per effetto di legare gli esseri umani a uno specifico apparato e modo di produzione. Quello tra essere umano e lavoro è dunque un legame “sintetico, politico”, un legame “operato dal potere” – e da un potere che è sempre da intendersi (anche) come “micropotere” o “sottopotere” o, per riprendere la definizione più sistematizzata che Foucault ne metterà a punto, come una rete di relazioni di potere.
L’analisi è ulteriormente sviluppata in Sorvegliare e punire, che mette a fuoco una vera e propria “tecnologia degli individui”, che, seppur non studiata e celebrata come l’invenzione di macchine e motrici a vapore o le conquiste dell’industria chimica e mineraria, è altrettanto reale nei suoi effetti, e consente di mettere in atto, e incrementare, “un potere diretto e fisico che gli uomini esercitano gli uni sugli altri” senza cui le altre tecnologie più difficilmente sarebbero riuscite a giocare come decisivi fattori di sviluppo economico e sociale. A legare gli esseri umani al sistema di produzione sono cioè una serie di “tecniche” che incidono sull’organizzazione del tempo e sulla predisposizione fisica degli individui, pazientemente addestrati a piegare gesti, adattare movimenti, incorporare ritmi di esecuzione Ed è solo in virtù di queste operazioni complesse che “il corpo e il tempo degli uomini diventano tempo di lavoro e forza lavoro.” L’essere umano non nasce, ma, semmai, si ritrova ad essere agente della produzione, sia essa volta a creare beni materiali, saperi condivisi, attitudini scolastiche, capacità militare. Egli acquisisce dunque quella predisposizione all’attività socialmente organizzata del lavoro che, lungi dall’essere attributo essenziale o naturale, è piuttosto il frutto di un dressage che penetra in profondità nell’esistenza umana e ingenera forme di vita peculiari.
L’essere lavoratore, inserito in una complessa trama di relazioni di produzione e scambio, è l’effetto di una “trama di potere microscopico, capillare”, che qui Foucault definisce, appunto, “sottopotere” : non l’apparato dello stato o dei gruppi socialmente ed economicamente dominanti, ma un insieme di piccole e modeste istituzioni che sono più o meno lontane dal centro politico di decisione e che però, nel loro funzionamento quotidiano, “inquadrano la vita e i corpi degli individui” : ospedali, fabbriche, scuole, caserme, conventi, istituti carcerari, in cui, come osserverà in Sorvegliare e punire, i rapporti di potere si attuano nella sorveglianza gerarchica e nella classificazione continua, e sono giocati “non al di sopra, ma nel tessuto stesso della molteplicità”, con anonima discrezione e efficienza.
A prendere forma è pertanto un’analisi microfisica del “sottopotere”, che si declina anzitutto per Foucault nella volontà di mettere a fuoco la nascita di alcuni campi di sapere sull’individuo e sulla sua normalizzazione, tracciabile nell’ambito di queste istituzioni e delle discipline attuate al loro interno sul filo di osservazioni, test, esercizi, interrogatori. Di qui, più esattamente, l’esigenza teorica e politica di mettere in questione lo statuto epistemologico delle scienze umane, che hanno fatto dell’essere umano il soggetto precipuo di scienza – in senso tanto soggettivo quanto oggettivo.
Il punto rilevante della lettura foucaultiana – e la sua distanza da quella marxiana, che pure è in tutta evidenza intersecata da molte delle analisi proposte da Foucault – sta, in effetti, nell’attenzione posta alla costituzione di soggettività e nella critica radicale alla concezione filosofica e giuridica del soggetto umano, che rappresenta altresì il sostrato delle scienze umane che di tale soggetto fanno il proprio oggetto. A distinguere la posizione foucaultiana, in questo come in molto altro profondamente debitrice all’elaborazione nietzscheana, è infatti la convinzione che, attraverso la storia, si produca “la costituzione di un soggetto che non è dato definitivamente,” e che esso, così come le forme di conoscenza, sia “a ogni istante fondato e rifondato dalla storia”. Lungi dall’essere matrice di discorso ideologico e ostacolo all’accesso alla vera conoscenza, le condizioni politiche ed economiche sono piuttosto ciò “attraverso cui si formano i soggetti di conoscenza e quindi i rapporti di verità”.
Questa interpretazione si allontana dunque da una lettura meramente marxiana articolata nei termini di una struttura rispecchiata in una sovrastruttura che, nell’esprimere i rapporti di produzione a livello di coscienza umana, si traduce nel discorso mistificatore dell’ideologia. In effetti, secondo Foucault, tanto i saperi quanto le forme di produzione “non sono ciò che, al di sopra dei rapporti di produzione, esprime questi rapporti o permette di rinnovarli.” Alla costruzione di specifici rapporti di produzione che sono identificabili all’interno di un’organizzazione sociale contribuiscono non solo fattori economici, ma specifiche “relazioni di potere” e altrettanto specifiche “forme di funzionamento del sapere.” Questo significa che non vi è sovrapposizione, quanto piuttosto co-costituzione del tessuto sociale in cui relazioni di potere, campi di sapere e rapporti di produzione sono intramati gli uni sugli altri. Di qui la parzialità, o l’inadeguatezza, della nozione di ideologia per rendere conto del riconoscimento, in teoria e prassi, di una centralità antropologica allo svolgimento di un lavoro – nonché, per stare più vicini a noi, l’interesse teorico nell’attingere alla cassetta degli attrezzi foucaultiana se a questa centralità si vuole provare a guardare criticamente.
Tale centralità, mi pare, ben riflette una sorveglianza – e autosorveglianza – e un potere esercitati “a livello non di quello che si fa, ma di quello che si è”, che Foucault notoriamente ipostatizza nel dispositivo del panottismo, presentato sotto “forma di controllo, di punizione e di ricompensa, e sotto forma di correzione”, ovvero, in fin dei conti, nella “formazione e trasformazione degli individui in funzione di determinate norme”. Ai suoi occhi, la portata di questo dispositivo, logico e pratico, si estende ben al di fuori dei sistemi penali e degli istituti carcerari – che però, al di là delle caricature che troppa letteratura ha costruito su queste intuizioni foucaultiane, non coincidono tout court con l’organizzazione sociale occidentale ma ne forniscono al più un’immagine “isomorfa” e “rovesciata”. Nel suo intreccio di invisibilità (di pochi) e piena visibilità (di tutti), di controllo anonimo e di correzione normalizzante, viene usato da Foucault per compendiare i tratti fondamentali di un’intera società, consentendogli di illuminare il parallelismo tra il processo di accumulazione del capitale e quello di accumulazione e gestione degli esseri umani.
Al cuore di entrambi i processi sta infatti una produzione dolce di soggetti inclini al lavoro. Essi mettono a disposizione il loro “tempo di vita”, che deve essere trasformato in “tempo di lavoro” scambiabile e remunerabile, e, ciò che più importa, ottimizzato, tanto nell’ambito della giornata lavorativa quanto ai suoi margini. È il corpo stesso degli individui a dover essere “formato, plasmato, corretto”, piegato ad abitudini e attitudini che lo possano qualificare come “un corpo in grado di lavorare”. La centralità del corpo che emerge in queste righe Foucault l’aveva già messa in chiaro qualche anno prima, e con una portata ben più estesa, in un testo cruciale – e, peraltro, inusualmente filosofico – dedicato a Nietzsche e alla genealogia. Materialità da cui tutto proviene, il corpo ne esce come “superficie d’iscrizione” di ogni forma di potere e “tutto impresso” di quella storia che lo “devasta”. Neppure la fisiologia del corpo, dunque, si sottrae al divenire storico – e tantomeno, la fisiologia di un corpo messo al lavoro, tutto preso “in una serie di regimi che lo plasmano”, “rotto a ritmi di lavoro, di riposo e di festa”, messo in forma e finanche “intossicato da veleni – cibi o valori, abitudini alimentari e leggi morali insieme”. Proprio per la sua materialità vivente, però, al tempo stesso esso “costruisce resistenza”: Il tempo e la vita degli esseri umani – avrebbe osservato di lì a poco in una lezione – non sono infatti “lavoro per natura, bensì piacere, discontinuità, festa, riposo, bisogno, attimi, caso, violenza”. Ed è proprio l’”energia esplosiva” dei corpi viventi che l’organizzazione sociale del lavoro necessita di trasporre in compiti produttivi e spesso monotoni, trasformando il corpo in una docile forza lavoro e neutralizzando, o meglio minimizzando, la sua capacità di resistenza, attraverso un controllo rigoroso e interiorizzato della sua occupazione di spazio e di tempo, che si appoggia a saperi e tecniche dalle più diverse matrici (penali, pedagogiche, pastorali, militari, morali).
In tutto e per tutto, insomma, il lavoro “passa all’interno dei corpi”, aperti e disposti dalla disciplina, dall’istruzione, dall’allenamento necessari per svolgere in modo appropriato, per efficacia e rapidità, determinate azioni e interazioni – coinvolgano queste altri esseri umani, materiali, macchinari. Una sofisticata somatogenesi che, a seconda dei contesti, mette in forma un “complesso corpo-arma, corpo-strumento, corpo-macchina”.
Letto in questi termini, il lavoro socialmente organizzato risulta mettere capo a, e richiedere come condizione di possibilità e accrescimento, lo sviluppo di soggetti che si riconoscano come lavoratori e lavoratrici. In questo senso, esso è una pratica assoggettante, riflessa in una miriade di discorsi più o meno teoricamente raffinati, oggetto e al tempo stesso catalizzatore di saperi il cui combinato disposto ha per effetto la messa in forma di soggettività che contribuiscono in modo efficiente alla riproduzione sociale. Si tratta dunque, per riprendere la formulazione ancora più incisiva data da Sorvegliare e punire, di una “tecnologia sottile e calcolata dell’assoggettamento” ovvero di quella che Foucault chiama la “disciplina”: un processo tecnico attraverso cui “la forza del corpo viene, con la minima spesa, ridotta come ‘forza politica’, e massimalizzata come forza utile”.
3. È chiaro come l’elaborazione teorica foucaultiana, nei termini in cui l’ho ripercorsa, non faccia rientrare fin qui nella griglia di analisi delle esperienze – e, nella fattispecie, dell’esperienza del lavoro socialmente organizzato – l’asse della soggettività, che risulta piuttosto un effetto eterocostituito: l’esito, appunto, di un disciplinamento di corpo e anima in cui risultano più o meno espressamente impegnate procedure e istituzioni a diversi livelli. Negli ultimi anni di attività, però, Foucault sarà a lungo impegnato nel rielaborare esplicitamente, sotto il profilo teorico, quell’idea di co-costituzione di relazioni di potere e campi di sapere che già abbiamo incontrato, per arrivare a mettere a punto una griglia di lettura del reale in grado di traghettare la sua ricerca oltre all’impasse strutturalista in cui a molti essa sembrava arenarsi. Nell’introdurre la descrizione delle esperienze come correlazione, fluida e dinamica, di tre assi – “campi del sapere, tipi di normatività e forme di soggettività” – i suoi ultimi testi e corsi testimoniano lo sforzo teorico di evitare di ritenere il soggetto un puro effetto, oggetto di poteri e saperi, per lasciare spazio, anche sotto il profilo teorico, alle dinamiche agonistiche che, in ogni contesto e momento, sono in grado di controeffettuare le relazioni esistenti e ridisegnare poteri, saperi e forme di soggettivazione in atto – pur se mai in modo predeterminabile e definitivo.
La costituzione di soggettività emerge infatti come asse autonomo negli ultimi scritti del filosofo, incentrati come ben noto sulla problematizzazione morale e sulla genealogia del soggetto di desiderio. È in questo contesto che la nozione di “lavoro” trova nuovamente impiego, in modo forse inatteso e sicuramente distante da quanto una lettura in termini di disciplinamento e panottismo possa far immaginare.
In particolare, le dense pagine metodologiche introduttive dell’Uso dei piaceri (1984), in cui Foucault spiega le ragioni della riformulazione profonda del progetto della Storia della sessualità inaugurato anni prima con La volontà di sapere (1976), sono modulate sul motivo della filosofia come “lavoro [travail] critico del pensiero su se stesso”, in cui l’esercizio filosofico è concepito e praticato per sapere in che misura il “lavoro [travail] di pensare la propria storia può liberare il pensiero da ciò che esso pensa silenziosamente”. A ciò fa eco, nell’Introduzione e nel corso del testo, il tema del “lavoro su se stessi [travail sur soi]” cui corrisponde ad una “prova modificatrice di sé nel gioco della verità”: un lavoro filosofico e ascetico, definito anche “lavoro etico [travail éthique]”, che mira a un’”elaborazione di sé”, al dominio di sé e ad un rapporto con se stessi ispirato alla temperanza, alla moderazione e alla padronanza dei piaceri, pazientemente esercitato e insegnato dai filosofi greci al di fuori della dinamica di decifrazione e purificazione che Foucault imputa piuttosto alla morale tardo-antica e cristiana.
Non è questo il luogo per discutere della lettura foucaultiana della pratica filosofica greca, nutrita ampiamente della riflessione di Pierre Hadot sulla filosofia antica come esercizio spirituale, né per evidenziarne la portata etico-politica, che nelle intenzioni dell’autore certo non è limitata al filosofo di professione. Ciò che rileva ora è, molto semplicemente, l’impiego a tal riguardo della nozione di “lavoro”, che ricorre frequentemente nelle interviste e nei corsi contemporanei, a riprova di come si tratti di occorrenze non episodiche, seppur non esclusive e accostate ad altre espressioni, peraltro semanticamente affini, quali ”arte dell’esistenza” o “tecniche di sé” volte a modificare se stessi e fare della propria vita “un’opera che esprima certi valori estetici e risponda a determinati criteri di stile”.
L’orizzonte problematico del lavoro socialmente organizzato è, in tutta evidenza, ben lontano dalla problematizzazione morale del piacere e del soggetto di desiderio che, a questa altezza, catalizza l’attenzione foucaultiana. Né di lavoro al senso di attività professionale si trova cenno altrove nel testo. Eppure, ad aver condotto il filosofo sulle piste di ricerca di cui queste pagine sono il risultato è (anche) una riflessione critica sul lavoro organizzato. La Volontà di sapere, uscita a neppure due anni di distanza da Sorvegliare e punire, aveva infatti messo esplicitamente e estesamente in discussione l’”ipotesi repressiva”, che riconduce il disciplinamento degli istinti sessuali all’incompatibilità di questi ultimi con “una costrizione al lavoro generale e intensiva”, ovvero in ragione della massimizzazione e riproduzione della forza lavoro. Di contro, l’analisi aveva messo in campo una rilettura in chiave biopolitica, che vede nel dispositivo di sessualità una tecnica per “ottimizzare la vita” assai più che per reprimere e disciplinare istinti oziosamente dispersivi e antiproduttivi. Sono la discussione critica dell’ipotesi repressiva (ovvero, di una lettura del disciplinamento sessuale come funzionale alla produzione e riproduzione di forza-lavoro) e, di converso, la critica all’ipotesi di una liberazione sessuale antirepressiva e disfunzionale rispetto alle esigenze produttive – ipotesi che pure aveva ispirato critiche autorevoli al capitalismo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento – ad aver guidato Foucault a ripensare la propria griglia analitica per interessarsi di “costituzione di sé”. Si potrebbe persino azzardare la suggestione che a rimettere nelle mani del filosofo francese una reinterpretazione di questa portata del concetto stesso di “lavoro” siano proprio la sua critica alla centralità sociale e antropologica del lavoro e la volontà, però, di non risolvere tale critica in un velleitario imperativo di liberazione.
“Lavoro”, in questo contesto, rimane pur sempre un atto poietico modificatore del reale di cui, tuttavia, la soggettività non è più mero portato ma, insieme, soggetto attivo e oggetto passivo. Il lavoro assoggettato, di cui le ricerche foucaultiane precedenti avevano con tanta efficacia portato in luce i dispositivi, lascia qui spazio a un lavoro soggettivante. Che “lavoro” sia nozione polisemica e storicamente ambigua tanto da non rendere eccezionale l’accezione che Foucault da ultimo adotta in queste pagine è indubbio. Altrettanto indubbio, però, è che non si tratta di occorrenze trascurabili e che, forte della sua riflessione sul lavoro disciplinato, avrebbe potuto facilmente individuare un altro concetto per indicare l’esercizio e l’ascesi di sé su cui la sua indagine si andava concentrando. L’ambiguità, insomma, mi sembra significativa e assai probabilmente, ma lo si dovrebbe meglio mostrare, voluta. Ambiguità del lavoro che si fa lavoro dell’ambiguità. Quasi a dire che il “lavoro di sé su sé”, il “lavoro etico” condotto per “trasformare se stessi in soggetto morale della propria condotta” , è il solo controcanto – mai risolutivo, ma sempre potenzialmente presente – all’ipertrofica valorizzazione del lavoro.