Testo integrale con note e bibliografia
1. Per paradossale che possa sembrare, il diritto del lavoro nasce sotto il segno della concorrenza: cioè di quell’idea, compiutamente sistematizzata nell’ambito degli studi economici sul finire del XIX secolo grazie ai lavori di Menger, Jevons e Walras, secondo cui l’abbattimento di ogni barriera al libero scambio delle merci e dei fattori della produzione e la conseguente accentuazione della divisione del lavoro avrebbero conseguito la realizzazione di economie di scala e di incrementi di produttività ed efficienza che avrebbero a loro volta comportato l’aumento del reddito nazionale; ovvero, per guardare alla cosa secondo un diverso angolo visuale, di quell’idea secondo cui l’introduzione di alterazioni e ostacoli alla libera contrattazione delle merci e dei fattori della produzione non avrebbe potuto che comportare inefficienze e perdite di ricchezza.
L’idea traeva origine dalla metafora della “mano invisibile”, che Adam Smith aveva coniato nella Ricchezza delle nazioni (1776) per descrivere i vantaggi del funzionamento del mercato concorrenziale, e la sua traduzione nell’ambito del mercato del lavoro implicò immediatamente l’abolizione delle corporazioni, ossia di tutte quelle organizzazioni di mestiere in cui per l’innanzi era stato prestato il lavoro (non tutto, in verità, ma certamente buona parte del lavoro cittadino) e soprattutto delle loro regolamentazioni concernenti prezzi e modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative. Ne fu archetipo legge Le Chapelier, emanata in Francia nel 1791: “poiché l’annullamento di ogni specie di corporazione di cittadini dello stesso ceto e della stessa professione è una delle basi fondamentali della costituzione francese”, recita l’art. I, “è proibito ristabilirle di fatto, sotto qualunque pretesto e sotto qualunque forma”, con la conseguenza – prosegue l’art. IV – che “se dei cittadini che esercitano le professioni, arti e mestieri prendono deliberazioni, fanno convenzioni tendenti a rifiutare […] o concedere soltanto a un prezzo determinato l’ausilio della loro industria o del loro lavoro, le dette deliberazioni e convenzioni verranno dichiarate incostituzionali, attentati alla libertà e alla dichiarazione dei diritti dell’uomo”. Ed è davvero caratteristica del momento storico la giustificazione che il relatore diede di questa legge, che Marx non esitò a definire “un colpo di Stato borghese”: “benché sia desiderabile che il salario diventi un po’ più elevato di quello che è in questo momento, affinché colui che lo riceve sia fuori di quella dipendenza assoluta causata dalla privazione dei mezzi di sussistenza necessari che è quasi la dipendenza della schiavitù”, gli operai non debbono tuttavia accordarsi sui loro interessi, non debbono agire in comune, neppure per moderare quella “assoluta dipendenza”, perché con ciò essi lederebbero “la libertà dei loro attuali padroni” e ristabilirebbero quelle corporazioni abolite dalla costituzione francese.
Insomma, è per coerenza con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che la legge Le Chapelier lega strettamente l’abolizione dei vincoli connessi all’appartenenza a una corporazione di mestiere e l’abbattimento di ogni privilegio da essa derivante, con la conseguenza di garantire a chiunque il libero accesso a ogni tipo di attività; il rifiuto di tutti i poteri regolativi riconosciuti fino ad allora alle istanze intermedie null’altro era che l’altra faccia del principio secondo cui solo una società di liberi ed eguali poteva garantire al singolo il pieno sviluppo dei suoi interessi mediante la libertà contrattuale individuale.
Pochi anni dopo, l’art. 415 del codice penale napoleonico (1810) si diede carico di punire con il carcere da uno a tre mesi ogni accordo tra operai volto a far cessare o impedire il lavoro in uno stabilimento oppure a non consentire di trattenervisi prima o dopo un determinato orario e, più in generale, a sospendere, impedire o rincarare i lavori. E in questa forma la disposizione transitò dapprima nelle “Repubbliche sorelle” germinatesi nel territorio italiano dopo le guerre napoleoniche e poi, dopo la Restaurazione, nei codici penali preunitari: il primo codice italiano a recepirla fu quello che Maria Luigia promulgò per il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla nel 1820, che puniva (sempre col carcere da uno a tre mesi) “qualunque accordo per parte degli operai, il quale senza ragionevole causa tenda a sospendere, impedire, o rincarare i lavori […], sempreché l’accordo abbia avuto un principio di esecuzione” (art. 482); e negli stessi termini la previsione fu riprodotta sia nell’art. 399 del codice penale del Regno di Sardegna, promulgato da Carlo Alberto nel 1839, sia (ma con l’abolizione del minimo edittale di un mese) nell’art. 386 del codice successivamente promulgato da Vittorio Emanuele II nel 1859 e destinato due anni dopo a diventare il primo codice penale del Regno d’Italia: anche qui infatti erano punite “tutte le intese degli operai allo scopo di sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole causa”.
Nondimeno, benché sanzionasse soltanto la coalizione operaia (il “concerto”, diceva l’art. 386 del codice) che si proponesse richieste “irragionevoli”, la norma fu assunta come pretesto per ritenere irragionevole il concerto in sé stesso, in quanto turbamento dell’ordine pubblico. E proprio per ciò, specie dopo l’unificazione, in un contesto economico che progressivamente andava industrializzandosi, la norma si rivelò funzionale a reprimere le astensioni dal lavoro, che nell’ultimo ventennio del XIX secolo si erano fatte più frequenti, e soprattutto a stroncare sul nascere ogni tentativo di contrattazione collettiva, giudicato come una vera e propria aberrazione di fronte all’individualistico diritto dei contratti.
È in questo quadro segnato dal trionfo della libera concorrenza che va collocata la scarna disciplina che al rapporto di lavoro dedica il codice civile del 1865: “la locazione delle opere è un contratto, per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa”, diceva l’art. 1570, e l’art. 1628 si preoccupava unitamente di aggiungere che “nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa”. Proprio per ciò, Lodovico Barassi, ritenuto comunemente il fondatore della scienza del diritto del lavoro in Italia, poteva tranquillamente asserire che “l’odierno rapporto di lavoro è oggi nella sua struttura intima quello che era ieri, quello che era duemila anni or sono”, e immaginare che le trattative per la stipula di un contratto di lavoro dessero luogo ad una contesa ad armi pari tra datore e prestatore di lavoro: e ciò nonostante che Carnelutti gli ribattesse che “il contratto di lavoro è quasi sempre verbale, molte volte monosillabico, tutto costruito su di un tacito richiamo alle norme della consuetudine”; e una consuetudine che, in realtà, induceva, obbligava, astringeva il prestatore ad uno squilibrio di potere consolidato a suo svantaggio.
Pure, non è questo squilibrio a turbare i sonni della scarsa dottrina che, ai primi del XX secolo, comincia a interessarsi del contratto di lavoro: la contesa piuttosto si accende sulle norme utilizzabili per colmare quella che Carnelutti chiama “la gran lacuna del codice”, se cioè quelle dettate per la vendita (nella specie, di energie umane) o per la locazione, con Carnelutti (ancora lui!) a segnalare che, in grazia della fictio iuris della locazione, il contratto di lavoro del salariato dell’industria restava catturato “entro lo stampo del contratto col quale si prestava temporaneamente l’opera del servo”. La contrattazione collettiva nascerà soltanto dopo la legittimazione del conflitto sociale: e invece il pur liberale codice Zanardelli (1889) ancora sanzionava con la detenzione fino a venti mesi chiunque “restringe o impedisce in qualsiasi modo la libertà dell’industria o del commercio” (art. 165) e chiunque “cagiona o fa perdurare una cessazione o sospensione di lavoro, per imporre, sia ad operai, sia a padroni o imprenditori, una diminuzione od un aumento di salarii, ovvero patti diversi da quelli precedentemente consentiti” (art. 166). E benché la sanzione penale venisse comminata solo se l’azione fosse stata condotta “con violenza o minaccia”, ci sarebbe voluto poco per una giurisprudenza pienamente partecipe dei valori della libertà del mercato a parificare violenza fisica e violenza morale, giungendo ancora una volta a rendere punibile qualsiasi concerto tra i lavoratori volto a imporre migliori condizioni di lavoro.
Del resto, i sindacati (“leghe di resistenza”, si chiamavano allora, e poi “società di mutuo soccorso”) erano ancora debolissimi; e l’abrogazione del delitto di sciopero non aveva ancora reso lo sciopero un diritto, visto che il datore di lavoro era abilitato a licenziare ad nutum lo scioperante o comunque a ritenerlo dimissionario e, se del caso, a chiedergli perfino il risarcimento dei danni. E benché talune voci si levassero a perorare la causa della contrattazione collettiva, permaneva la diffidenza del legislatore dell’epoca a riconoscere al contratto collettivo un’efficacia analoga a quella propria della legge: e ciò per lo sfavore pubblicamente manifestato nei confronti di ogni corpo intermedio che si frapponesse tra l’individuo e lo Stato.
Con ragione, perciò, Santi Romano, nella sua celebre prolusione su “Lo Stato moderno e la sua crisi” (1909), individuerà all’origine delle difficoltà in cui si dibatteva lo Stato liberale l’eccessiva “semplicità” dell’ordinamento politico affermatosi dopo la Rivoluzione francese: “non si volle porre di fronte allo Stato che l’individuo: l’individuo in apparenza armato di una serie infinita di diritti enfaticamente proclamati e con non costosa generosità largiti, ma nel fatto non sempre protetto nei suoi legittimi interessi”. E non è dunque un caso, per il giurista siciliano, che quell’ordinamento si rivelasse del tutto inadeguato a normare la crescente realtà dell’associazionismo sindacale e operaio, spesso neanche riconoscendolo; il problema, semmai, stava nel fatto che, com’egli non mancò di aggiungere, “la vita sociale, che non è mai dominata dalle regole giuridiche, ha continuato ad evolversi per suo conto e si è posta in contraddizione con un sistema non consono ad essa”, finendo per accentuare “la lotta che ne è la conseguenza”.
2. Ha scritto Karl Polanyi che “la soluzione fascista dell’impasse raggiunta dal capitalismo liberale può essere descritta come una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche tanto nel campo dell’industria che in quello della politica”.
Seguendo questa linea interpretativa, si può affermare che il senso delle principali riforme di cui il regime fascista si rende promotore a partire dall’approvazione della Carta del lavoro (1927) consiste nel sottrarre il lavoro (ma anche la terra e la moneta, ossia il credito) all’autoregolamentazione che il mercato concorrenziale assicura attraverso la legge della domanda e dell’offerta.
Sotto la tutela dello Stato viene dunque posto anzitutto il lavoro; e il contenuto del relativo contratto cessa conseguentemente di essere determinato dall’incontro delle volontà delle parti, tranne che su punti accessori: il reclutamento della manodopera, le condizioni d’impiego, l’orario, la retribuzione vengono infatti affidate a meccanismi che operano al di fuori del mercato, ossia alla legge e ai contratti collettivi, la cui autorità in materia è ovviamente assicurata a condizione che il sindacato sia riconosciuto e sottoposto al controllo pubblico. D’altra parte, la primazia riconosciuta all’impresa privata nell’allocazione delle risorse si accompagna alla responsabilità che l’imprenditore assume nei confronti dello Stato per l’indirizzo impresso alla produzione: l’organizzazione della produzione diventa infatti funzione di interesse pubblico, finalizzata allo sviluppo della potenza nazionale e al conseguimento del benessere dei singoli, ed è per ciò che gli interessi contrapposti di datori di lavoro e lavoratori richiedono di essere conciliati e subordinati alle direttive politiche del Governo.
Si comprende allora come Cesare Vivante, in uno scritto apparso nel 1931 sulla giovanissima rivista “Il diritto del lavoro”, possa affermare con nettezza che “l’ordinamento del contratto collettivo di lavoro e l’ordinamento dei rapporti economici sono materie essenzialmente distinte perché, se la prima appartiene al diritto pubblico e sottomette l’attività dei datori e prestatori di lavoro ad organi di Stato, il secondo appartiene al diritto privato perché, pur moderando le concorrenze individuali in regime di categorie, dà il primo posto come forza motrice della vita economica all’iniziativa individuale”. Al fondo della questione stava infatti la necessità, per il legislatore, di risolvere un “problema vitale” che riguardava la classe operaia: il legislatore, infatti, “doveva sostituire all’uguaglianza fittizia con cui la legislazione precedente regolava i rapporti tra padroni e operai, ed era fomite di esasperanti resistenze, una eguaglianza effettiva in modo da pareggiare la potenza del consensi; e trovò la soluzione del secolare problema nella formazione di organi collettivi, che prestano un valido punto di resistenza a coloro che la fame riduceva ad una soggezione, piena di lagrime e di rancori. Si formò così un massiccio di norme inderogabili, di ordine pubblico, che regolano le reciproche prestazioni, e le pongono, come un minimo dell’esistenza operaia e dell’economia nazionale, al sicuro da contrasti individuali”.
Ogni impresa – proseguiva Vivante – deve ormai contare tra i suoi costi “la spesa irriducibile dei salari”: “se non può fronteggiarla coi guadagni non è degna di vivere; non deve sorgere, se sorge deve essere liquidata”. Di qui “il carattere pubblicistico del rapporto operaio regolato da organi istituzionali di Stato e da una magistratura che ha eccezionali poteri, perché può applicare norme incompatibili col diritto privato”: “in conseguenza di quel carattere imperativo, le clausole individuali difformi dal contratto collettivo approvato dagli organi istituzionali dello Stato cadono e sono sostituite di diritto dal contratto collettivo operaio”; ed è, conclude Vivante, una previsione che sovverte quel principio fondamentale del diritto privato secondo cui “i contratti fanno legge fra i contraenti e se sono contrari a norme di diritto pubblico non sono sostituibili, ma cadono nel nulla, appunto perché il solo libero incontro dei consensi fa legge”, come disponeva l’art. 1160 del codice civile del 1865: il contratto, qui, resta in vigore, ma con il contenuto voluto non già dalle parti, ma dalla legge e dal contratto collettivo.
Sappiamo che grande fu la differenza tra le promesse e le effettive realizzazioni: e tutta a scapito di quella classe operaia il cui “problema vitale” pure il legislatore dichiarava di voler risolvere. Ed è ragionevole supporre che la ragione di codesta differenza rimontasse a quel carattere tipico che Polanyi individua nella “tattica fascista”: “una falsa ribellione organizzata con la tacita approvazione delle autorità che fingevano di essere state schiacciate dalla forza”. Ciò nonostante, siamo qui al cospetto di un insieme di riforme che, una volta caduto il fascismo e ripristinata la libertà sindacale, costituiranno l’architrave dell’assetto istituzionale e costituzionale del secondo dopoguerra: basti guardare alle disposizioni contenute nel Titolo III della Parte prima della Costituzione, dedicate ai “Rapporti economici”, e specificamente gli artt. 35, 36, 37, 38, 39 e 40 Cost.-
Ed è proprio in nome di questa continuità che Filippo Vassalli argomenta in uno scritto del 1947 l’opportunità di mantenere intatte le linee essenziali della codificazione civile che aveva visto la luce nel 1942: quelle linee, infatti, non erano che il riflesso di “certi generali orientamenti di politica economica che andavano prevalendo ormai dappertutto”, in cui “ai rapporti individualistici e atomistici dell’inizio del regime storico di libera concorrenza” si andavano sostituendo “rapporti fra associazioni, fra grandi organismi del lavoro e del capitale”, e in cui – come aveva detto qualche anno prima Emilio Betti – l’autonomia privata poteva essere tutelata solo in quanto perseguisse “funzioni utili socialmente e rispondenti all’economia nazionale e all’ordine pubblico”.
Sta qui, in questo cambiamento di prospettiva, la vera ragione della brusca accelerazione impressa ai lavori della riforma del codice civile, che dopo essersi trascinata dal 1923 al ritmo blando di un “dopolavoro dei giuristi” (giusta la colorita espressione di Mariano D’Amelio, all’epoca Primo Presidente della Cassazione), nel breve volgere di due anni, tra il 1939 e il 1941, realizza la fusione organica in un unico codice dei due primitivi e separati progetti di riforma del codice civile e del codice di commercio: una volta abbandonata la concezione dei codici ottocenteschi, che esaltavano la libertà del volere come principio costitutivo dell’ordine concorrenziale, il caposaldo della nuova codificazione andava piuttosto collocato nell’“economia regolata”, ciò che a sua volta comportava non soltanto l’unificazione generale della disciplina dell’impresa e del diritto delle obbligazioni, ma dello stesso ordinamento del lavoro, fino a quel momento ignorato dai codici vigenti; e “non solo la disciplina del contratto individuale, ma anche la disciplina del contratto collettivo di lavoro, che domina la materia del lavoro come fonte regolatrice sovrana”, come scrisse il ministro Grandi in una relazione sul nuovo codice presentata al Consiglio dei ministri nei primi del 1941.
Sarà Alberto Asquini, poi, a suggerire che il nuovo libro del codice, invece che “Dell’impresa e del lavoro”, venga più sinteticamente intitolato “Del lavoro”, visto che “il lavoro sta al vertice dell’economia e […] anche l’impresa è essenzialmente tutelata come organizzazione del lavoro”: caratteristica del diritto del lavoro è infatti quella normativa inderogabile che, essendo dotata di efficacia sostitutiva delle diverse pattuizioni individuali, costituisce una forma di integrazione del contratto per il cui tramite i pubblici poteri possono perseguire una sorta di pianificazione generale dei modi di organizzazione e prestazione del lavoro (Renato Scognamiglio, come si ricorderà, ne avrebbe dedotto la mai compresa teorica della matrice “acontrattuale” del rapporto di lavoro). E se appena si pensa che l’istituto della sostituzione automatica di clausole diventerà, con l’art. 1339, principio generale di tutta la materia dei contratti, non ci vorrà molto a capire perché mai, all’indomani della fine della guerra, la Commissione preposta alla defascistizzazione del codice civile ne avesse proposto l’abrogazione: non si trattava solo di rimediare ad un’offesa al principio della libertà del volere, quanto piuttosto di evitare che i pubblici poteri disponessero di uno strumento di pianificazione generale dell’attività contrattuale privata e, per questa via, potessero giungere a intaccare potenti interessi costituiti.
3. Alla sua monumentale Economia politica del lavoro, apparsa postuma, nel 1986, dopo il suo brutale assassinio, Ezio Tarantelli premise in esergo una citazione di Milton Friedman: “C’è bisogno di un’economia diversa – o di un diverso capitolo di economia – per ogni tipo di società”. L’esergo non era ovviamente casuale, ma piuttosto funzionale a dimostrare uno degli assunti principali di Tarantelli, ossia che la maggior pregnanza di un paradigma interpretativo rispetto ad un altro (la sua “verità”) dipende dalle condizioni storiche e sociali entro cui si trova ad operare; detto altrimenti, che le condizioni storiche e sociali (incluse le ideologie dominanti in un dato momento storico) esercitano un’influenza decisiva nel forgiare un paradigma scientifico e nel decretare la sua vittoria o la sua sconfitta in un dato tempo.
Si tratta di un’affermazione particolarmente utile ai fini di questo discorso sul rapporto tra diritto del lavoro e concorrenza: in specie, per introdurre ai numerosi problemi che l’adesione alla moneta unica europea ha posto al diritto del lavoro su cui si era formata la generazione alla quale anch’io appartengo.
Che l’adesione all’unione monetaria dovesse interferire con l’assetto delle relazioni industriali che si era consolidato da circa settant’anni non è apparso, in realtà, immediatamente chiaro; e ancora non lo è del tutto. È però ormai acclarato che gli ultimi vent’anni sono stati caratterizzati non soltanto dalla progressiva marginalizzazione del ruolo dei maggiori sindacati nazionali, ma anche da vigorose critiche allo stesso strumento del contratto collettivo nazionale di lavoro, sempre più ritenuto inidoneo a garantire un prezzo di vendita della forza lavoro in grado di assicurare l’efficienza del sistema economico e dunque anche la piena occupazione. E non a caso, alla marginalizzazione dei sindacati tradizionali e alle critiche nei confronti del contratto collettivo nazionale si è accompagnato un rinnovato scetticismo degli economisti circa la possibilità che l’azione sindacale e la legislazione del lavoro possano conseguire conquiste durature ogni qual volta si pongano in contrasto con le leggi che governano il mercato concorrenziale: l’invocazione della flessibilità (dei salari e dei diritti) si è anzi moltiplicata di pari passo al crescere della disoccupazione e degli impieghi precari.
Secondo questa impostazione, il livello dei salari sarebbe infatti determinato da forze economiche “oggettive” (precisamente, dalla produttività marginale del lavoro), che i sindacati non solo non possono modificare, ma addirittura sbagliano a contrastare. Ad avviso dei suoi sostenitori, qualora i salari fossero spinti al di sopra del livello concorrenziale, si innescherebbe una spirale inflazionistica, dovuta al tentativo degli imprenditori di recuperare gli erosi margini di profitto mediante aumenti dei prezzi; ne seguirebbe l’aumento dei tassi d’interesse da parte dell’autorità monetaria, che indurrebbe a sua volta una contrazione del livello di attività delle industrie e una riduzione della domanda di lavoro, finché l’accresciuta disoccupazione non facesse cadere il monte globale dei salari; la pressione dell’esercito dei disoccupati alla ricerca di un lavoro farebbe il resto e così i salari ritornerebbero presto o tardi al livello precedente.
A questa teoria può tuttavia obiettarsi – e storicamente è stato obiettato – che, se anche fosse vera, non ne seguirebbe affatto che quello concorrenziale sia un livello dei salari imposto dall’ordine naturale delle cose e nemmeno che esso rappresenti il contributo dato dalla classe lavoratrice alla società, se non nel senso generico che questa è la valutazione che un mercato concorrenziale ha dato di esso in una data serie di circostanze. In altre parole, anche se fosse vero che l’innalzamento dei salari oltre un certo livello determina disoccupazione, sarebbe giusto tanto affermare che causa di questa disoccupazione risiede negli alti salari, quanto il dire che essa è dovuta all’elevato saggio di profitto che gli imprenditori esigono per la remunerazione del loro capitale. Tanto più che un aumento dei salari a scapito dei profitti, pur potendo determinare in astratto una contrazione della capacità d’investimento della classe capitalistica, non sarebbe necessariamente destinato a comportare effetti negativi sulla produzione e sull’occupazione: i capitalisti, infatti, potrebbero investire una proporzione del proprio reddito maggiore di quella precedente per compensare, sotto forma di accresciuto consumo futuro, la diminuzione del consumo presente.
Secondo i critici, pertanto, il livello dei salari non è dato da alcuna forza “oggettiva”, bensì dai rapporti di forza fra capitalisti e salariati. Tuttavia, la consapevolezza che il salario possa teoricamente variare “da zero a uno” (come scrisse Piero Sraffa) non li induce a ritenere possibile che il salario possa appropriarsi interamente del sovrappiù: non solo perché in questo caso si dovrebbe rinunziare a qualsiasi investimento, ma soprattutto perché la “variabile indipendente”, in un sistema capitalistico, non è il salario, ma il profitto, essendo suscettibile di essere determinato da circostanze esterne al sistema della produzione, e particolarmente dal livello dei tassi d’interesse. Ciò, naturalmente, conduce ad attribuire una rilevante importanza alla politica monetaria, giacché attraverso la manovra sulla liquidità la banca centrale viene, di fatto, a gestire il conflitto di classe.
Seguendo il suggerimento di Tarantelli, qui non ci preoccuperemo di stabilire quale di queste due teorie sia quella “giusta”. Ci basta evidenziare che esse, in buona sostanza, riflettono i due principali assetti delle relazioni industriali che abbiamo conosciuto a partire dalla seconda metà del secolo scorso: quello americano, che non avendo mai conosciuto la contrattazione collettiva se non a livello aziendale ha affidato alla sola politica monetaria la determinazione del valore della moneta e la conseguente distribuzione del reddito di pieno impiego, e quello dei paesi dell’Europa continentale, che al contrario incaricava la contrattazione collettiva nazionale della determinazione di una distribuzione del reddito fra salari e profitti tendenzialmente non inflazionistica e lasciava alla politica monetaria il più limitato compito di tenere il tasso d’interesse sufficientemente basso per consentire alla spesa privata e a quella pubblica di stabilizzare il sistema al livello di piena occupazione.
D’altra parte, se questa suggestione è plausibile, possiamo incominciare a comprendere il motivo per cui l’adesione all’unione monetaria europea ha fatto entrare in crisi il nostro sistema di relazioni industriali e, più in generale, il nostro diritto del lavoro. Con l’istituzione della moneta unica, gli Stati membri dell’Unione Europea sono stati privati della leva della politica monetaria, che è stata accentrata a Francoforte. In mancanza di una contrattazione collettiva di livello sovranazionale, e in presenza di rilevanti differenziali salariali fra paese e paese, una politica monetaria rigida diventa pertanto l’unico modo per garantire una distribuzione del reddito fra salari e profitti non inflazionistica e omogenea a quella vigente negli altri paesi aventi standard monetario analogo a quello dell’Unione. In questo quadro, un contratto collettivo nazionale non serve più alla parte datoriale: è solo un impaccio, che obbliga a negoziare due volte sulla distribuzione dei redditi senza averne alcuna contropartita in termini di bassi tassi d’interesse; diventa preferibile lasciare al livello aziendale la determinazione del salario e conservare al livello nazionale il negoziato sulla sola “parte normativa” dei contratti (o, al massimo, la determinazione di un salario minimo, da usare come parametro per la tutela giurisdizionale).
Si deve semmai aggiungere che il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea non appare al momento idoneo a replicare su scala sovranazionale un assetto analogo a quello che abbiamo conosciuto a livello nazionale: anzitutto, perché il combinato disposto degli artt. 155 e 153 TFUE esclude la materia salariale dal novero di quelle su cui può intervenire un accordo con i sindacati, precludendo in radice che la contrattazione collettiva europea possa fondatamente assumersi come obiettivo una distribuzione del reddito non inflazionistica; in secondo luogo, perché la Commissione europea non è dotata di risorse finanziarie che il sindacato possa “scambiare” con il consenso ad una politica di stabilità dei prezzi, di talché la rinuncia alla lotta salariale non potrebbe mai avere come contropartita alcun beneficio in termini di reddito reale (per tale intendendo quello al netto delle imposte e al lordo dei servizi sociali: scuola, sanità, pensioni, trasporti pubblici, sussidi per la casa ecc.).
Detto ciò, non si è detto tutto: e purtroppo, bisogna aggiungere. Il decentramento delle relazioni industriali a livello aziendale reca inevitabilmente con sé l’abbandono della regolazione dei salari alle leggi della domanda e dell’offerta: e tanto più alta sarà l’offerta disponibile di manodopera, tanto maggiore sarà la concorrenza tra i lavoratori per accaparrarsi i posti di lavoro domandati e tanto minore sarà il salario d’equilibrio. E se è vero che l’attribuzione alla Banca centrale europea del compito di mantenere una distribuzione del reddito non inflazionistica non può essere disgiunta dalla garanzia di un tasso di remunerazione del capitale omogeneo a quello degli altri Paesi verso i quali, all’occorrenza, i capitali potrebbero migrare, si capisce anche la ragione ultima per cui l’Unione Europea ha tenacemente perseguito in questi ultimi vent’anni una politica volta all’apertura delle frontiere alla manodopera immigrata, dapprima con l’allargamento ad est delle frontiere dell’Unione, poi con l’adozione di direttive che hanno esteso la protezione internazionale ben oltre la tradizionale figura dell’asilo politico: l’obiettivo è precisamente un aumento della manodopera disponibile che supplisca alla renitenza che, ancora, la forza lavoro autoctona riesce a manifestare per lavori ritenuti mal pagati.
Accade così che la classe lavoratrice europea si trovi a rivivere la medesima situazione della classe operaia inglese a metà del XIX secolo, vividamente descritta da Engels in un libro che si apprezza oggi meglio di cinquant’anni fa. Se ne rilegga magari solo il quinto capitolo: vi si troverà una descrizione e, insieme, una spiegazione di quella miscela esplosiva di bassi salari, precariato, disoccupazione e miseria crescente che è consustanziale alla concorrenza tra i lavoratori, in specie tra nativi e immigrati; e la cui differenza rispetto alla schiavitù dell’antichità, oggi come nel 1845, “è che l’operaio sembra essere libero perché non viene venduto in una sola volta, ma a pezzo a pezzo, a giorni, a settimane, ad anni, e perché non viene venduto da un proprietario all’altro, ma è egli stesso che deve vendersi a questo modo, poiché non è lo schiavo di un singolo ma dell’intera classe abbiente”.