Testo integrale con note e bibliografia
1. L’importanza di un dibattito.
I rilievi introduttivi formulati da Alessandro Bellavista riguardano vicende oramai da tempo note e sono in larga parte condivisibili. In effetti la questione della misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori, ai fini della contrattazione collettiva, appare sempre più importante nel contemporaneo contesto di relazioni industriali. Secondo punto di vista anche da tempo presente presso i più importanti sindacati dei lavoratori – sullo stesso piano formale, considerata l’esistenza di una disciplina contrattuale quasi decennale, pur allo stato ancora ampiamente inapplicata –nonché in lenta fase di acquisizione da parte di significative organizzazioni dei datori di lavoro. Il tema della individuazione della rappresentatività dei soggetti protagonisti o anche solo presenti nel sistema di contrattazione collettiva ne porta d’altra parte con sé un ulteriore, per vari aspetti anche più complesso, logicamente e giuridicamente connesso al primo: l’individuazione dei «perimetri contrattuali», nel cui ambito realizzare appunto tali verifiche .
L’ordinamento sindacale per il vero convive con entrambe tali questioni fin dal secolo scorso, soprattutto attraverso la nozione di “sindacato comparativamente più rappresentativo nella categoria”, i cui aspetti innovativi, rispetto al più antico concetto di “sindacato maggiormente rappresentativo”, proprio ad esse rinviano. Senza tuttavia offrire soluzioni di sorta su “come” ed “in che ambito” concretamente misurare tale rappresentatività: cosa che in definitiva ha reso comprensibile la sottovalutazione, presente in dottrina, della soluzione di continuità che la lettera mostra . Poi in tal caso evidentemente si trattava – e si tratta –, proprio come da sempre accaduto per la nozione di “sindacato maggiormente rappresentativo”, di operare una selezione - delle organizzazioni o del contratto collettivo da queste stipulato - a fini diversi da quelli connessi al procedimento di contrattazione, evidentemente ben più delicati per le ricadute dirette ed assai incisive sulla protezione della libertà sindacale. Ha comunque poi provveduto la giurisprudenza, come di consueto, ad applicare il criterio selettivo in relazione alle diverse norme che ad esso hanno fatto riferimento: non senza (inevitabili) difficoltà, contraddizioni ed aporie .
La connessione tra verifiche di rappresentatività delle organizzazioni sindacali dei (soli) lavoratori e partecipazione al processo contrattuale - pur disciplinata con legge, in modo dettagliato, nel settore pubblico, come meglio si dirà – appare invece nel Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, accordo ritenuto fondamentale e “di svolta” proprio per tale ragione, nel settore privato. Ora però si evita – ma, almeno in parte, non si ha bisogno – di affrontare la questione del “perimetro” dove misurare, perché l’intera disciplina fa riferimento all’“ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro”, evidentemente sottoscritto dalle federazioni aderenti alle confederazioni in origine stipulanti (cioè Cgil, Cisl, Uil e Confindustria). Una disciplina che tuttavia si confronti con il problema del contemporaneo pluralismo, caotico se non selvaggio, dei contratti collettivi come anche, conseguentemente, degli ambiti di applicazione, di ciò non può essere paga. Mentre nello stesso mondo compreso dall’accordo del gennaio 2014, certo molto importante per numero di imprese e lavoratori coinvolti ma non esaustivo, sono stati ignorati i non piccoli problemi derivanti dalle (già) esistenti parziali sovrapposizioni degli ambiti di applicazione dei differenti contratti nazionali di categoria . In effetti se questo testo fosse da domani integralmente applicato, non sarebbero pochi i lavoratori per cui risulterebbe problematico stabilire rispetto a quale specifico “ambito di applicazione”, alias contratto collettivo nazionale di categoria, le “deleghe” nonché i voti espressi nelle elezioni delle r.s.u. dovrebbero assumere rilievo. Se si vuole ovviamente evitare siano conteggiati due o più volte!
La questione della definizione del “perimetro” contrattuale risulta però, nella storia dell’elaborazione giuridica sindacale italiana, quanto in particolare alle implicazioni sulla tutela della libertà sindacale, tra le più cariche di significato, anche simbolicamente. Conseguentemente tornare anche solo a parlarne introduce elementi perturbatori degli equilibri nel tempo consolidatisi. Si tratta quasi di un “tema tabù”.
2. La libertà sindacale e la categoria contrattuale: oltre la storica “frattura”?
Per la gran parte dei componenti dell’Assemblea costituente (se non per tutti) non c’era probabilmente consapevolezza di una questione di difficile convivenza, nell’articolo 39 della Costituzione, tra il primo comma, da una parte, ed i seguenti, dall’altra . Del modello corporativo che si intendeva superare era evidentemente il profilo della imposizione di una (sola) organizzazione sindacale, ideologicamente aderente all’unico partito ammesso, a risultare del tutto inaccettabile; meno che i sindacati, tornati liberi, trovassero già definito l’ambito di applicazione del contratto collettivo che avrebbero (sperabilmente, secondo molti) sottoscritto. Poi, come ben noto, una dottrina apertamente critica della c.d. “seconda parte” dell’articolo 39 della Costituzione, ritenuta intrisa proprio di venature derivanti dall’esperienza corporativa, propose una impostazione del tutto innovativa, uno dei cui caposaldi era dato dal fatto che la “categoria” contrattuale fosse – e dovesse essere – un “posterius”, appunto liberamente scelto dai sindacati, e mai un “prius” . Questo medesimo indirizzo di pensiero nel contempo esaltava il rilievo del primo comma dell’articolo 39, chiamato a svolgere, assieme alla parte dell’art. 40 della Costituzione cui si deve la configurazione dello sciopero come diritto, un decisivo ruolo nella edificazione del nuovo diritto sindacale: nel segno della “autonomia” – anzi del rilievo come “originario” – dell’ordinamento intersindacale . Così si formò indubbiamente una frattura, nel corpo dell’articolo 39 della Costituzione, che il successo straordinario dell’orientamento assai sinteticamente ricordato finirà con il rendere apparentemente insanabile.
Tuttavia, nella scienza giuridica (ed in particolare sindacale) più che mai, è la capacità di elaborare ipotesi e soluzioni ermeneutiche utili all’interno del contesto e momento storico dato a risultare decisiva; non la fondatezza in sé (una nuova dogmatica di sapore ontologico?) delle opzioni avanzate. Detto in altre parole, è la tutela della libertà ed attività sindacale che l’impostazione sopra descritta, divenuta dominante in Italia, ha garantito (a fronte anche di disegni di legge con testi assai pericolosi, proprio per le limitazioni che avrebbero introdotto ad entrambe) a – continuare a – costituire l’obiettivo fondamentale. Non – con tutto il rispetto dovuto ai grandi maestri che la elaborarono – l’impostazione stessa, peraltro dai medesimi presentata in termini molto cauti e apertamente funzionali ad obiettivi diversi (si parla infatti di “ipotesi metodologica”). Se dunque la protezione del medesimo fondamentale obiettivo richiedesse eventualmente opzioni anche assai diverse, queste andrebbero almeno considerate e valutate.
Ebbene non occorrono troppe parole per argomentare quanto il contesto contemporaneo sia diverso da quello in cui matura l’esperienza descritta; una volta tra l’altro venuti meno o fortemente indebolitisi molti degli elementi, la cui presenza ha comunque assicurato indubbio concreto successo alla medesima. Non ne derivano evidentemente aperture di credito e legittimazioni delle diverse specifiche proposte avanzate, la cui adeguatezza resta tutta da dimostrare. Forse però può tornare ad essere considerata la possibilità di leggere l’articolo 39 della Costituzione in termini unitari, provando a curare la frattura nel tempo prodottasi. Ammesso che risulti possibile, dopo che per circa sessanta anni nessuno è intervenuto.
D’altra parte – volgendo ora lo sguardo agli ordinamenti dei Paesi con cui non appare scorretto comparare la vicenda italiana, a partire da quelli dell’Europa occidentale – la dialettica tra piena libertà sindacale e necessaria “costrizione” prodotta dalla presenza di un contratto collettivo con efficacia generale (assieme a tutto ciò che ne può derivare, anche quanto alla misurazione della rappresentatività degli stipulanti in ambiti pre-configurati) non sembra irrisolvibile. Talora in questi ordinamenti non viene in effetti neanche colta. Ritengo insomma ci sia la possibilità di individuare una lettura armonica dei quattro commi presenti nell’articolo 39 della Costituzione, a prescindere dalle scorie di matrice corporativa, pur storicamente esistenti, che forse oggi non è però impossibile rendere inoffensive.
3. L’intervento legislativo. Problemi e possibili soluzioni.
Per provare a risolvere i fondamentali problemi di cui qui si sta discutendo pare assai difficile fare a meno della legge. Rispetto al cui ipotetico intervento non sono comunque pochi gli aspetti complessi e controversi da affrontare. Oramai qualche anno addietro comunque, proprio in connessioni ai temi qui discussi, sono state presentate alcune proposte di legge, che può essere dunque utile in questa sede ricordare e molto brevemente analizzare, quanto alle soluzioni ipotizzate.
Per il vero in passato si è pure ipotizzata una riforma dell’art. 39 della Costituzione, da cui eliminare la c.d. “seconda parte” : cosa che avrebbe consentito di utilizzare la tecnica normativa emersa con la c.d. “legge Vigorelli”, risolvendo per inciso buona parte dei problemi qui discussi . Un intervento sulla c.d. prima parte della Costituzione tuttavia, mai fino ad ora realizzato, introduce non pochi elementi di incertezza, se non vero e proprio rischio, per gli stessi assetti fondamentali della Repubblica democratica. E non mi pare dunque per tali ragioni, in particolare al momento, auspicabile.
Il primo dei problemi, in ordine di importanza, con cui pure un eventuale provvedimento legislativo dovrebbe confrontarsi è in ogni caso con tutta probabilità il seguente: solo dando (integrale?) attuazione alla seconda parte dell’art. 39 della Costituzione è possibile, secondo il nostro ordinamento, individuare i “perimetri” nel cui ambito misurare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e datori, ai fini della partecipazione al procedimento di contrattazione collettiva?
Questa è stata in effetti la scelta realizzata dalla Cgil, cui si deve l’elaborazione di un testo, nel 2015, denominato “Carta dei diritti universali del lavoro”, poi presentato in Parlamento come proposta di legge di iniziativa popolare, la rubrica del cui titolo secondo reca proprio esplicitamente “disciplina attuativa degli articoli 39 e 46 della Costituzione”. Per la prima volta nella storia della Repubblica il più importante sindacato dei lavoratori ha dunque così formalmente richiesto l’attuazione della seconda parte dell’articolo 39. Con previsione dunque della registrazione (volontaria ma qualificata come diritto), da parte delle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori, e conseguente acquisizione della “speciale personalità giuridica di cui all’articolo 39, comma 4 della Costituzione” (che “consente loro di partecipare alla contrattazione collettiva ad efficacia generale, ai vari livelli”); raccolta dei dati sui contributi versati nonché sui voti ottenuti dalle associazioni registrate, nelle elezioni indette per costituire le rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro; successiva verifica di rappresentatività delle associazioni registrate, in relazione a questi dati (all’incirca secondo il modello normato per il settore pubblico), al livello confederale, di “ambito intermedio” ed aziendale; obbligo di contrattazione, per i datori, a favore delle associazioni sindacali registrate rappresentative; stipulazione infine, alle condizioni indicate, di veri e propri contratti collettivi con efficacia “erga omnes”.
Potrebbe però essere appunto proprio la previsione di questi ultimi ad obbligare, nel testo della Cgil, a dare attuazione all’articolo 39 della Costituzione: non l’individuazione, come tale, di perimetri contrattuali nel cui ambito misurare la rappresentatività dei sindacati stipulanti. Infatti in altre due proposte di intervento legislativo, frutto ora di elaborazioni dottrinali, quella del c.d. “gruppo Freccia rossa” (all’incirca contemporaneo al primo) e quella della rivista “Diritti, lavoro, mercati” (di un anno precedente), dove pure si individuano “ambiti” a fini di misurazione della rappresentatività dei sindacati, senza tuttavia prevedere contratti collettivi nazionali tecnicamente con efficacia erga omnes, non si è in alcun modo parlato di attuazione della seconda parte dell’art. 39 della Costituzione. Non nel primo testo, che affronta comunque il tema della sola efficacia generale del contratto aziendale, sul probabile presupposto che l’art. 39, come sostenuto da parte della dottrina, non si riferisca al contratto aziendale. In tale caso l’ambito ove misurare la rappresentatività (esclusivamente) dei sindacati dei prestatori stipulanti il contratto collettivo nazionale viene peraltro individuato al (solo) fine di stabilire chi abbia diritto di partecipare alle trattative per la stipula del medesimo nonché di sottoscrivere contratti nazionali che integrino i rinvii legali; è fatto inoltre (pragmaticamente) coincidere con quello delle imprese che applicano il medesimo contratto collettivo nazionale.
Mentre nel secondo disegno di legge per un verso viene precisato, nella “guida alla lettura della proposta di legge”, di ritenere rispettati i principi costituzionali dell’articolo 39, laddove siano verificati determinati elementi: e cioè emerga una adeguata verifica della rappresentatività del soggetto contraente nonché della radice democratica del conferimento di rappresentanza. Sotto altro profilo poi si giunge all’efficacia generale del contratto collettivo stipulato attraverso la previsione di un obbligo legale, ricadente sui datori, di garantire ai propri dipendenti trattamenti non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali, se rispondenti ai requisiti indicati . Un po' come in definitiva accade pure secondo la disciplina legislativa operante nel settore pubblico, rispetto alla quale può tuttavia essere sostenuto che assuma rilievo pure (o soprattutto) l’articolo 97 della Costituzione . Ipotizzando invece sia anche in tal caso corretto realizzare un confronto esclusivamente con l’articolo 39, alla luce del processo di “contrattualizzazione” o “privatizzazione” realizzato , potrebbero emergerne argomenti favorevoli a sostenere appunto che questo non sia violato, a fronte di utilizzo di tecniche di estensione della efficacia del contratto collettivo con le caratteristiche descritte. Certo non è facile comunque dare una risposta sicura e tranquillizzante, a proposito del rispetto o meno dell’articolo 39 della Costituzione: l’esplicita e diretta attuazione di quest’ultimo indubbiamente garantendo un elemento di certezza che le altre opzioni non riescono ad assicurare.
Quanto invece alle modalità di definizione degli “ambiti” o “perimetri” ove effettuare appunto le misurazioni della rappresentatività, le ipotesi evidentemente più rispettose sono quelle che rinviano alle previsioni di accordi interconfederali sottoscritti da sindacati rappresentativi. Così non a caso accade secondo la regolamentazione del d. lgs. n. 165 del 2001 (che tuttavia da ultimo forse si spinge invece troppo avanti, nel momento in cui impone siano individuati non oltre “quattro comparti”); ancora considerando le previsioni sia della “Carta dei diritti” che del disegno proposto da “Diritti, lavori mercati” (il gruppo “Freccia rossa” invece, come già visto, ha optato per altra, più semplice, soluzione, che non sembra però in grado di incidere sui problemi di cui qui ci si sta occupando).
In tal modo però emergono questioni delicate soprattutto per quel che riguarda la selezione dei sindacati dei datori di lavoro rappresentativi, legittimati poi a stipulare i contratti collettivi interconfederali che individuano appunti gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi nazionali di categoria. Problema che nel settore pubblico, considerata la prevista unicità della rappresentanza legale dei datori in sede contrattuale, non si presenta. Che invece nella “Carta dei diritti” e nel testo di “Diritti, lavori, mercati”, viene (diversamente) affrontato, con riferimento tuttavia ai medesimi parametri di verifica della rappresentatività: e cioè al numero di datori iscritti, da una parte; al numero di dipendenti di tali datori, dall’altra. In tal modo però alcune associazioni, anche storiche, rischierebbero di essere molto o del tutto penalizzate (si pensi al settore agricolo ad es.); in generale la stessa architettura tradizionale del sistema contrattuale, legata alla presenza di molteplici organizzazioni, per ciascun settore di attività, firmatarie di contratti collettivi ad esso esclusivamente connessi, rischierebbe di essere fortemente messa in discussione, se non proprio seccamente superata. Evento come tale assai traumatico, se non adeguatamente preparato. Fondamentale in effetti in tal caso sarebbe che le diverse organizzazioni di rappresentanza dei datori, almeno quelle che hanno contribuito a configurare il sistema, impostino ed inizino un confronto interno. Anche se proprio le difficoltà e divisioni delle medesime, da ultimo impegnate in una serrata competizione tra loro nonché con nuovi soggetti che sono sorti e stanno sorgendo, rende lo scenario auspicato, apparentemente di tutta ragionevolezza, tutt’altro che semplice. E dunque il problema della rappresentanza dei datori è forse in concreto il più complicato di tutti . Non che in questo ambito non siano visibili segnali ed interessi ad una verifica di rappresentatività: siamo però ancora lontani da una vera e propria elaborazione, necessaria alla introduzione di un confronto interno.
In dottrina è stato anche auspicato – ed anzi direi risulta nel complesso preferito, tra gli autori favorevoli ad un intervento legislativo - che quest’ultimo sia “leggero”, tenendosi dunque ben lontano dal tema più che mai insidioso della individuazione di “perimetri” contrattuali, in particolare al fine di misurare la rappresentatività dei soggetti che partecipano alle trattative e stipulano in contratto collettivo nazionale . In tal modo però appare difficile incidere positivamente sui problemi menzionati nella introduzione da Alessandro Bellavista. Salvo non immaginare un complesso intervento ove si combinino poche norme di legge e più numerose clausole contrattuali, auspicabilmente in virtuosa combinazione e dunque ragionevolmente ipotizzando che il legislatore intervenga dopo l’accordo collettivo. Non basta però al riguardo il Testo unico del gennaio 2014, se non altro perché qui ci si occupa solo delle verifiche di rappresentatività dei sindacati dei lavoratori.
4. Che può fare il contratto collettivo?
Chi scrive tuttavia - pur condividendo le preoccupazioni, i timori ma anche gli auspici emersi (se bene si è inteso) nella introduzione e dunque ritenendo meritevole della più grande attenzione l’ipotesi di un intervento legislativo in grado di affrontare i problemi descritti (dunque non molto “leggero”, per intendersi) - non ritiene affatto probabile che ciò avvenga. D’altra parte, a ben considerare, pure in presenza di tale ipotesi un adempimento ricadrebbe comunque sulle parti sociali, stando almeno alle soluzioni fino ad ora emerse nei disegni di legge citati, come anche nella regolamentazione operante per il lavoro pubblico. Soluzioni peraltro difficilmente modificabili. Appare cioè del tutto opportuno - se non necessario, in termini evidentemente politico-sindacali - che i “perimetri” dove effettuare le verifiche di rappresentatività ai fini della contrattazione collettiva siano individuati dai sindacati stessi: in particolare dalle confederazioni che risultano – secondo criteri prefissati dalla legge per essi oppure anche transitori, in attesa che gli esiti appunto delle verifiche diano riscontri ulteriori – rappresentative. Quelle dei lavoratori ma anche ovviamente dei datori. A prescindere in effetti da tale convergenza sembra molto complicato rendere operativo pure un eventuale intervento della legge.
Non è allora affatto irrilevante quel che la contrattazione può – ed anzi, nella prospettiva indicata deve – fare: al contrario resta decisivo. Ma se questo è vero potrebbe assumere rilievo pure l’ipotesi di una regolamentazione contrattuale che prescinda dalla legge, apparendo in definitiva irrilevante se introdotta in attesa oppure in alternativa a quest’ultima. In effetti un accordo, sottoscritto da tutte le principali organizzazioni sindacali storiche, volto ad individuare un preciso perimetro di riferimento, con delimitazione delle diverse aree di “competenza” per le associazioni datoriali (concorrenza interna) e impegni di reciproche relazioni esclusive (concorrenza esterna), risulterebbe tutt’altro che inutile. Questo, come già si indicava, forse potrebbe combinarsi efficacemente con un intervento successivo, in tal caso anche solo “leggero”, della legge. Potrebbe però anche esercitare da solo un ruolo piuttosto incisivo di indirizzo e correzione, nei confronti delle ben note “storture” con cui il sistema di relazioni industriali contemporaneo è costretto a convivere. Si torna però in tal caso al “nodo”, apparentemente ancora oggi inestricabile, delle relazioni tra organizzazioni dei datori. Senza sciogliere il quale sia la contrattazione collettiva che forse la stessa legge paiono in definitiva impotenti.
Certo i sindacati, in presenza di una legge che rinvii esplicitamente alle loro determinazioni, subirebbero una pressione significativa. Ma ciò non costituisce di per sé garanzia di un esito positivo. Infatti nella proposta di legge di “Diritti, lavori, mercati” si condividono plausibilmente i medesimi timori, nel momento in cui viene stabilito che, ove l’accordo in oggetto non si perfezioni, provveda alla fondamentale operazione una commissione di nove esperti indipendenti composta e nominata dal Presidente della Repubblica. La disposizione è comprensibile però in termini tecnici, meno invece sul piano politico-sindacale: in definitiva senza la condivisione di un disegno, almeno tra principali organizzazioni sindacali, non è realistico immaginare si possa procedere nella direzione auspicata.