Testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione
La tutela della sicurezza e della salute del lavoratore sul luogo di lavoro è uno dei principi cardine del sistema giuslavoristico italiano: il lavoratore, a prescindere dall’attività specifica oggetto della prestazione lavorativa, ha il diritto costituzionalmente garantito, ai sensi dell’art. 32 Cost., di lavorare in un ambiente sano e sicuro, sotto ogni profilo, sia esso fisico o psicologico.
La tutela di tale diritto è assicurata dall’esistenza di norme che prevedono l’applicazione di sanzioni nei confronti del soggetto obbligato a garantire la sicurezza e la salute del lavoratore: id est, il datore di lavoro, a carico del quale, in caso di inosservanza degli obblighi di diligenza, salute e sicurezza, può configurarsi una responsabilità, civile e penale.
Obiettivo del presente contributo è quello di indagare i vari aspetti della responsabilità civile del datore di lavoro, focalizzando infine l’attenzione sulla condizione del lavoratore impiegato nel settore dei trasporti. Settore, quest’ultimo, che, come tristemente noto, si inserisce nel panorama contemporaneo nel novero dei settori maggiormente esposti a rischi sotto il profilo della tutela della salute e della sicurezza.
2. Normativa applicabile: D.Lgs 81/2008 e art. 2087 c.c.
Il testo normativo di riferimento in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro è rappresentato dal D.Lgs. n. 9 aprile 2008 n. 81 (d’ora in avanti anche Testo Unico) emanato in attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, entrato in vigore il 15 maggio 2008, che ha consentito un riordino sistematico della materia, anche sulla spinta di direttive di matrice comunitaria.
Il Testo Unico, come espressamente previsto dall’art. 3, comma 1, si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio, intendendosi con esso, a mente dell’articolo 2 dello stesso D.Lgs la “probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione”.
Il Testo Unico ha introdotto, nell’ordinamento giuslavoristico italiano, regole di prevenzione primarie e imprescindibili, in parte applicabili alla generalità delle attività produttive (si vedano le misure generali di cui agli articoli 15 e seguenti) e in parte applicabili solamente a determinate attività, in ragione dei diversi fattori di rischio connessi a ciascuna di esse. In ogni caso, tutte le norme del Testo Unico mirano a prevenire il verificarsi di potenziali danni ai lavoratori imponendo ai datori di lavoro coinvolti, nonché ai diversi soggetti individuati quali debitori dell’obbligazione prevenzionistica, l’adozione delle azioni e delle misure ivi considerate.
Sebbene - come visto - il Testo Unico rappresenti una raccolta normativa cardine nell’ambito della protezione e della tutela della salute dei lavoratori, lo stesso non esaurisce il contenuto degli obblighi di tutela della salute e della integrità psico-fisica del lavoratore e ciò per l’ovvia ragione dell’imponderabilità di tutti i probabili fattori di rischio connessi all’evoluzione delle attività produttive e delle rispettive tecniche di lavorazione.
Per cui, le disposizioni speciali contenute nel Testo Unico, risultano integrate dall’art. 2087 c.c, a norma del quale l’imprenditore, nell’esercizio dell’impresa, è tenuto ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
La norma in parola riveste una importanza sistematica fondamentale : per la sua particolare formulazione e collocazione, infatti, l’art. 2087 c.c. funge al contempo da norma di chiusura, da norma aperta e da clausola generale.
Sotto il primo profilo, la Corte di Cassazione ha, infatti, più volte precisato che la responsabilità del datore di lavoro per la mancata adozione di misure idonee a tutela dell’integrità fisica del lavoratore discende o da norme antinfortunistiche speciali, oppure, nel caso in cui queste non siano ravvisabili, dall’art. 2087 c.c. che costituisce “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico. Ciò vale dunque ad indicare che l’ambito di applicazione della medesima si estende a tutte quelle situazioni e ipotesi che, al momento della sua formulazione, non sono state ancora prese in considerazione dal legislatore, e impone all'imprenditore l'obbligo di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori.
Ancora, si è inteso l’art. 2087 c.c. quale «norma aperta ai mutamenti economico-sociali», ossia quale norma in grado di realizzare una funzione integrativa e sussidiaria di adeguamento al caso concreto ed alla situazione economico-sociale della normativa dettata a tutela del lavoratore, la quale non può oggettivamente prevedere ogni fattore di rischio, alla luce della direttiva della “massima sicurezza applicabile”. In questo senso, l’obbligo contenuto nella norma abbraccia ogni tipo di misura utile a garantire il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in ambiente esente da rischi.
Ed infine, quale «clausola generale» la quale “si presta a ricevere nuovi contenuti e che trova piena e concreta attuazione in relazione al diritto - costituzionalmente garantito - alla salute e all’integrità psicofisica” del lavoratore .
È dunque evidente l’importanza che l’ordinamento attribuisce all’art. 2087 c.c., il quale, sostanzialmente, diviene un forte strumento a garanzia del lavoratore, tutte le volte in cui non esista una specifica norma prevenzionistica che disciplini il caso concreto e le sue peculiarità.
L’analisi del contenuto della disposizione in esame conferma tale circostanza: la norma, nonostante la sua estrema semplicità, non si limita ad imporre al datore di lavoro un obbligo astensivo di non facere ma è fonte di obblighi positivi, per cui egli è obbligato a predisporre un ambiente e un’organizzazione lavorativa che siano idonei alla protezione della salute fisica e psichica dei lavoratori.
Segnatamente, il datore di lavoro, nel predisporre le misure di sicurezza ex art. 2087 c.c., deve tenere conto in primis della particolarità del lavoro, intesa come complesso dei rischi e dei pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa : ogni ambiente lavorativo presenta delle peculiarità che è obbligo del datore di lavoro conoscere, anche in considerazione del fatto che egli è, verosimilmente, il soggetto maggiormente indicato a valutarle ed apprezzarle; dell’esperienza , ossia della conoscenza dei rischi e dei pericoli acquisita durante tutto lo svolgimento di quella specifica attività lavorativa ed, infine, della tecnica, id est del progresso scientifico e tecnologico sviluppatosi in ordine alle misure di tutela, in relazione alle quali il datore di lavoro deve essere sempre necessariamente aggiornato, secondo il criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile.
La portata di tale obbligo non soggiace al limite imposto dalla fattibilità economica e produttiva: nello stesso senso si esprime la direttiva quadro CEE 89/391 del 12.6.1989 – recante attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro – secondo cui “il miglioramento della sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori durante il lavoro rappresenta un obiettivo che non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico” .
L’ampiezza dell’obbligo di tutela in capo al datore di lavoro la si evince anche se si analizza l’interpretazione fornita dalla Giurisprudenza in ordine ai c.d. D.I.P., ossia i Dispositivi di Protezione Individuale, che sono definiti dall’art. 74 del TULS come “qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo”. La Corte di Cassazione, con una recentissima sentenza , ha precisato che “la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non si riduce alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 c.c.”.
3. Natura della responsabilità del datore di lavoro
Il tema della natura giuridica della responsabilità del datore di lavoro nei confronti del prestatore di lavoro deve essere esaminato da una duplice angolazione.
Da un lato, con particolare riferimento alla fonte, si chiede di valutare se la responsabilità ex art. 2087 c.c. abbia natura contrattuale o extracontrattuale; dall’altro lato, in merito all’elemento soggettivo richiesto in capo al datore di lavoro ai fini della configurazione della responsabilità datoriale, ci si è domandati se si tratti di responsabilità per colpa o responsabilità oggettiva.
Entrambe le questioni rivestono, evidentemente, un’importanza tutt’altro che meramente teorica.
Il primo dei profili menzionati, oggetto del presente paragrafo, è risolto da unanime giurisprudenza nel senso di riconoscere alla responsabilità del datore di lavoro natura contrattuale .
Ed infatti, lo stringente obbligo di facere a tutela dell'integrità fisica e morale dei prestatori di lavoro - che si aggiunge ai tradizionali e più generali obblighi di protezione scaturenti dai doveri di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c., si inserisce nel sinallagma contrattuale esistente tra lavoratore e datore di lavoro, tanto che il contratto di lavoro risulta integrato dalle previsioni dell’art. 2087 c.c., ai sensi dell’art. 1374 c.c.
La natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro comporta, in caso di inadempimento, l’applicazione dell’art. 1218 c.c. con tutto quanto ne consegue, ai fini del relativo accertamento, in ordine alla ripartizione dell’onere della prova.
E così, il lavoratore che pretenda di aver subito un danno – che sia esso morale, fisico o psicologico - alla propria salute dovrà provare: il titolo su cui la responsabilità si fonda, id est il rapporto contrattuale; l’inadempimento del datore di lavoro, e dunque la violazione da parte di quest’ultimo del dovere di diligenza e sicurezza imposto dalla legge; l’esistenza del danno, nonché il nesso causale tra la violazione e il danno.
Trattandosi di responsabilità contrattuale, la disciplina è fortemente favorevole al lavoratore, il quale è esentato dal dover fornire la prova circa l’elemento soggettivo della condotta del datore di lavoro (prova invece necessaria nell’ambito della responsabilità extracontrattuale) e, correlativamente, è molto gravosa per il datore di lavoro, sul quale incombe l’onere di dimostrare che il danno è dovuto a causa a lui non imputabile.
In realtà, anche a seguito dell’importante evoluzione giurisprudenziale, si ritiene che gli oneri probatori in capo al lavoratore e al datore di lavoro si atteggino diversamente a seconda che la misura di sicurezza oggetto dell’obbligo posto a carico del secondo sia nominata quanto, piuttosto, innominata. Per misure di sicurezza “nominate” si intendono quelle misure che sono espressamente e specificatamente definite dalla legge, in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, come quelle previste all’interno del D.Lgs 81/2008 , mentre sono “innominate” le misure per così dire generiche, il cui contenuto specifico deve essere ricavato dall’art. 2087 c.c.
Nel primo caso, il lavoratore deve dimostrare la fattispecie costitutiva prevista dalla norma, fermo restando il titolo, il danno ed il nesso causale, mentre il datore di lavoro, al contrario, deve fornire la prova circa l’insussistenza di quegli stessi fatti dimostrati dal lavoratore, oltre che del nesso causale. Nel secondo caso, invece, mentre l’obbligo del lavoratore rimane il medesimo, il datore di lavoro potrà andare esente da responsabilità solo se dimostra di aver adottato comportamenti specifici “che, ancorché non risultino dettati dalla legge, siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe” .
Con riferimento alla individuazione delle misure concretamente applicabili, la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire come “il dovere di protezione (dei lavoratori) che grava sull'imprenditore - collegato, del resto, al rischio di impresa - comporta che debba essere lo stesso imprenditore a valutare se l’attività della sua azienda presenti rischi extra lavorativi "di fronte al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione", giusta il principio per cui ciascun datore, in riferimento alla particolarità del lavoro, da una parte, ed all'esperienza e alla tecnica, dall'altra, deve nella rappresentazione dell'evento (prevedibilità) prospettare a se stesso l'adozione delle misure (e, dunque, di tutte le misure) più consone e più aggiornante, al fine di scongiurare la sua realizzazione”.
4. Eventuale concorso del lavoratore
A gravare ulteriormente la posizione contrattuale del datore di lavoro è l’opinione della giurisprudenza in merito alla configurabilità di un concorso colposo del lavoratore nel verificarsi del danno.
Invero la giurisprudenza, sia di legittimità sia di merito, ritiene che l’art. 2087 c.c. obblighi il datore di lavoro a prevenire finanche le condizioni di rischio che risultino legate alla colpa del lavoratore medesimo, ossia al suo possibile comportamento negligente, imprudente ed imperito; di talché risulta quantomeno improbabile il configurarsi di un concorso del lavoratore medesimo.
Unica eccezione, al verificarsi della quale è invece configurabile un concorso colposo della vittima, è rappresentata dal c.d. rischio elettivo , ossia un comportamento talmente estremo del lavoratore da non essere nemmeno compatibile con quella che normalmente si definisce negligenza, imprudenza o imperizia . Ed infatti per rischio elettivo si intende “un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, sulla base di una scelta arbitraria volta a creare e ad affrontare, volutamente, per ragioni o impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente l’attività lavorativa” ; per cui, il lavoratore che, attraverso questo comportamento, crea delle condizioni di rischio estranee alle normali modalità di lavoro che è chiamato a svolgere, si pone quale causa esclusiva dell’evento dannoso, e, solo in questo caso, egli è responsabile del danno occorsogli .
Ciò si spiega in ragione della ratio della disposizione dell’art. 2087 c.c., che è quella di porre a carico del datore di lavoro l’obbligo fondamentale di prevenire le condizioni di rischio insite in ogni ambiente lavorativo e nella possibile colpa del lavoratore negligente, imprudente e imperito - sia mediante adeguata istruzione e formazione, sia mediante controllo dell’operato, sia approntando strumenti e mezzi idonei e sicuri - ma non può essere quella di prevenire anche i comportamenti del lavoratore medesimo che siano del tutto abnormi ed avulsi dall’incarico lavorativo attribuitogli.
Al netto del rischio elettivo, si è, dunque, esclusa la configurabilità di una colpa a carico del lavoratore che non si sia attenuto alle cautele imposte dalla normativa antinfortunistica o alle direttive del proprio datore di lavoro, perché, in effetti, proprio la vigilanza di quest’ultimo sul rispetto delle norme da parte dei prestatori di lavoro è oggetto dell’obbligo impostogli dalla legge. In sostanza la circostanza per cui il lavoratore ometta di tenere un comportamento in linea con le norme di sicurezza non è idonea ad interrompere il nesso causale tra l’evento dannoso e il comportamento del datore di lavoro che non abbia provveduto all’adozione di tutte le cautele necessarie, anche in ordine alla vigilanza del lavoratore medesimo .
Tale concetto è stato cristallinamente esplicato dalla Corte di Cassazione, la quale ha affermato che “il datore di lavoro ha il dovere di proteggere l’incolumità del lavoratore nonostante la sua imprudenza o negligenza” .
5. Elemento soggettivo: la responsabilità del datore di lavoro può configurarsi quale responsabilità oggettiva?
Quanto esaminato sino ad ora in merito al contenuto dell’obbligo del datore di lavoro, all’onere della prova e all’esimente del rischio elettivo non deve, tuttavia, indurre a ritenere che in capo al datore di lavoro si configuri una responsabilità di tipo oggettivo, poiché la sua responsabilità, per quanto particolarmente stringente e gravosa, rimane pur sempre una responsabilità per colpa .
Infatti, sebbene si sia osservato che la portata volutamente generale dell’art. 2087 c.c obblighi il datore di lavoro ad attuare un’efficace attività di prevenzione mediante il costante aggiornamento delle misure ritenute necessarie dall’esperienza e dalla tecnica, si ritiene che la responsabilità dello stesso non sia suscettibile di essere ampliata fino al punto di comprendere ogni ipotesi di lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore, perché da ciò conseguirebbe la sua automatica responsabilità, anche per quegli eventi lesivi che risultano essere addirittura impensabili, imprevedibili e soprattutto inevitabili .
Al contrario, l’elemento costitutivo della responsabilità del datore di lavoro è e resta la colpa, intesa quale mancata diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire il danno per il lavoratore secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, ossia la violazione di obblighi di comportamento imposti specificatamente da norme o suggeriti dalle innovazioni tecniche, ma pur sempre individuati.
Sul punto, la Corte di Cassazione è intervenuta a mitigare, seppur limitatamente, la portata dell’obbligo a carico del datore di lavoro, ribadendo, con sentenza n. 12347/2016, che “non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinato obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto”.
Per cui, non configurandosi la responsabilità ex art. 2087 c.c. quale responsabilità oggettiva, il datore di lavoro non è tenuto ad adottare ogni precauzione astrattamente possibile ma quelle che in concreto, in relazione alle caratteristiche dell’attività, alle mansioni del lavoratore, alle condizioni dell’ambiente esterno e di quello di lavoro, appaiono idonee ad evitare eventi prevedibili .
6. Inadimplenti non est adimplendum: la proponibilità dell’eccezione di adempimento ex art. 1460 c.c. da parte del lavoratore
Dalla riconosciuta natura contrattuale della responsabilità ex art. 2087 c.c. discende che, in caso di inosservanza delle obbligazioni di prevenzione e sicurezza, si configura a carico del datore di lavoro un inadempimento ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Nei contratti a prestazioni corrispettive, tutte le volte in cui si verifica un inadempimento di una parte a danno dell’altra, si genera inevitabilmente una sproporzione nel sinallagma: al fine di porvi rimedio, l’ordinamento giuridico ha previsto all’art. 1460 c.c. un tipico strumento di equilibrio contrattuale , ossia l’eccezione di inadempimento, in applicazione della quale ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione se l’altro non adempie la propria.
Ebbene, classificandosi il contratto di lavoro quale contratto a prestazioni corrispettive, si ritiene legittima, a fronte della violazione dell’obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro, la proposizione dell’eccezione di inadempimento da parte del lavoratore che rifiuti di eseguire la propria prestazione lavorativa . Vi è di più: egli conserva il diritto alla retribuzione, atteso che l’inadempimento risulta giustificato da quello altrui : l’art. 44 del D.lgs 81/2008 specifica, infatti, che il lavoratore che si allontana dal posto di lavoro in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato “non può subire pregiudizio alcuno e deve essere protetto da qualsiasi conseguenza dannosa”.
Si tenga, comunque, in debito conto che il rifiuto del lavoratore di offrire la sua prestazione a fronte dell’inadempimento altrui risulterà giustificato, in ossequio ai principi generali, se conforme ai canoni di buona fede e correttezza di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. L’inadempimento, inoltre, non dovrà risultare contrario a buona fede avuto riguardo alle circostanze del caso di specie e rispetto alla funzione economico sociale del contratto, a norma dell’ultimo comma dell’art. 1460 c.c. .
7. Tutela dei lavoratori impiegati nel settore dei trasporti di linea avverso fattori di rischio esterni
La necessità di predisporre tutte le misure necessarie al fine di assicurare la tutela della salute e della sicurezza dei prestatori di lavoro riveste un’importanza preponderante nel settore dei trasporti, in cui i lavoratori risultano impegnati alla guida di autoveicoli di diversa natura per il trasporto di merci e/o persone.
Il settore dei trasporti comprende diverse tipologie di mansioni e, conseguentemente, diverse tipologie di lavoratori, per cui i rischi a cui è soggetto il personale si dividono in rischi generici – comuni a tutte le categorie di lavoratori – e specifici, concernenti la singola tipologia di attività.
Certamente costituiscono fattore di rischio gli episodi, tristemente noti alla cronaca, di aggressione fisica e/o verbale perpetrati principalmente a danno del personale impiegato nel trasporto pubblico di linea: in tale ambito - soprattutto nell’ultimo decennio - si è assistito ad un’esponenziale crescita dei casi di aggressione a danno dei conducenti tanto che il problema, tutt’altro che fonte di preoccupazione minoritaria, è stato (ed è tutt’ora) oggetto di studi e di monitoraggio da parte dell’ordinamento internazionale, comunitario e nazionale.
Sul punto assumono particolare interesse la Convenzione sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Convenzione n.190 del 2019 OIL) e la Raccomandazione sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro integrativa della prima (Raccomandazione n. 206 del 2019 OIL).
La Convenzione si applica a tutti i settori, sia privati che pubblici, e mira a proteggere i lavoratori dalla violenza e dalle molestie che si verificano “in occasione del lavoro, in connessione con il lavoro o che scaturiscono dal lavoro”, mentre la Raccomandazione integrativa espressamente inserisce al punto 9 il settore dei trasporti tra quelli che, per le modalità di lavoro, presenta una maggiore probabilità di esposizione alla violenza e alle molestie e per cui è richiesto ai membri di adottare misure che siano adeguate proprio in considerazione del rischio più elevato di episodi di violenza .
Menzione speciale merita, altresì, il documento di Prevenzione pratica dei rischi psicosociali e dello stress sul lavoro pubblicato dall’Agenzia europea per la sicurezza e la violenza sui luoghi di lavoro rilasciato in occasione della Settimana Europea per la Salute e La Sicurezza sul Lavoro del 2002. L’Agenzia ha infatti ritenuto i trasporti pubblici un settore “prioritario per quanto riguarda la riduzione della violenza sui luoghi di lavoro” e illustrando, in particolare, l’adozione da parte della SEMTA di uno specifico programma di prevenzione dei rischi associati ad episodi di violenza da parte di terzi, ha rilevato che “Il personale a contatto con la clientela dell’azienda si deve confrontare con episodi di violenza da parte di terzi. Si tratta principalmente di atti di violenza contro le persone (aggressioni verbali e fisiche), ma anche di danni materiali (rottura di finestrini). Tali atti di violenza determinano un peggioramento delle condizioni di lavoro e uno stato di tensione costante per il personale”.
Ancora, in data 15 giugno 2018, le Segreterie Nazionali delle principali sigle sindacali nel settore trasporti hanno trasmesso al Ministero dell’Interno e al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nonché ai Presidenti di AGENS, ANAV e ASSTRA, una Richiesta urgente avente ad oggetto un incontro congiunto per riflettere sul tema delle aggressioni al personale dei trasporti pubblici e della sicurezza del lavoro e al fine di trovare soluzioni concrete, e ciò a riprova della centralità del fenomeno .
Centralità del fenomeno che rende a mio avviso pacifica la probabilità del rischio che si verifichino, a danno dei conducenti del trasporto di linea, episodi di aggressione e violenza.
Tale circostanza ritengo rivesta un peso notevole nella valutazione e nella determinazione della sussistenza dell’eventuale responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. in caso di aggressione ai danni del lavoratore in costanza dell’espletamento dell’attività lavorativa, che non può essere ignorata.
Sul punto, infatti, si è già avuto modo di approfondire come tra gli obblighi che la norma pone a carico del datore di lavoro vi è quello di valutare compiutamente i rischi connessi alla particolarità del lavoro, intesa quale complesso dei rischi e dei pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa. Se è vero quanto emerge dagli studi e dalle fonti esaminate nel presente paragrafo, allora è altrettanto vero che il rischio di aggressione è, nel mutamento economico e sociale della professione de qua, probabile e strettamente connesso con la natura stessa dell’attività che vede i lavoratori direttamente esposti al pubblico.
Conseguentemente, egli non potrà ritenersi esente da responsabilità qualora, nella valutazione prima e nella predisposizione poi delle misure idonee a garantire la salute e la sicurezza del prestatore di lavoro, non tenga in debita considerazione i predetti rischi, configurando gli stessi una particolarità di cui deve tenere conto e che deve contribuire a risolvere mediante l’esperienza e la tecnica, ai sensi del richiamato art. 2087 c.c
In altre parole, il datore di lavoro non potrà considerarsi non responsabile per l’eventuale danno da aggressione subito dal lavoratore unicamente in virtù del fatto che il danno provenga da terzi o, comunque da fattori esterni, se egli non ha disposto tutte le misure idonee e necessarie a tutelare il prestatore di lavoro in tutti quei casi – come quello in esame – in cui il rischio non solo è possibile ma addirittura probabile.