Testo integrale con note e bibliografia
1.Con Riccardo Del Punta ho condiviso tanti interessi, opinioni, curiosità scientifiche, soprattutto nel metodo e nella tensione innovatrice sul piano ordinamentale e culturale. Non di rado avevamo opinioni diverse, talora opposte: com’è normale, e perfino bello, tra studiosi che si stimano e si rispettano. Non ho mai avuto invece una vera e propria consuetudine relazionale sul piano accademico, professionale ed associativo; anche su questo piano però non era raro che le nostre idee e le nostre valutazioni, su una vicenda o su un’altra, convergessero, anche con iniziative comuni. Perciò la sua prematura scomparsa apre anche per me un vuoto enorme, un vuoto essenzialmente nelle possibilità di vero dialogo al quale serviva come l’ossigeno un interlocutore serio e profondo come lui, difficile e non accomodante, ma sempre aperto e attento anche e soprattutto al pensiero che prendeva direzioni diverse dalle sue. In breve sentivo Riccardo come un mio simile, ma soprattutto come un “altro”, perciò stesso diverso da me e prezioso per qualsiasi confronto, anzitutto quello scientifico. Per questo ho colto con piacere l’invito di Piero Martello a ricordarlo continuando a dialogare con lui e proponendo alcune mie brevi riflessioni inedite su un tema poco frequentato dai lavoristi, nella speranza che da qualche parte incontrino la sua “essenza spirituale” di studioso attento alla giustizia sociale perseguita con sensibilità per l’efficienza economica .
2.La formazione della dirigenza, in specie pubblica, è un tema ampio, trasversale, squisitamente interdisciplinare, sul quale l’approccio giuslavoristico – o anche più ampiamente giuridico - non può certo pretendere né esclusive né priorità . Però è un tema sul quale oggi vale la pena tornare anche da giuslavoristi perché - soprattutto se riguardato all’interno di un mondo ricco, dinamico e in crisi profonda (sebbene immersa nella “permacrisi” generale ) come quello della sanità – costringe a confrontarsi con molti problemi dell’attualità più spinta che si ripercuotono su contenuti e metodi della regolazione anche nel diritto del lavoro. E in questa riflessione occorre aver presente – in sintonia con la sensibilità di Riccardo Del Punta – proprio il sempre più difficile equilibrio tra giustizia sociale - intesa come soddisfazione adeguata e reale dei mutevoli bisogni sociali- ed efficienza economica - intesa come utilizzo ottimale delle risorse finanziarie e umane destinabili alla sanità. Tutto all’interno di una dimensione teorica e operativa in cui campeggia un diritto fondamentale, come quello alla salute riconosciuto in modo sempre più incisivo dalle costituzioni multilivello.
Con questa premessa, non c’è bisogno di argomentare troppo il carattere del tutto embrionale di queste riflessioni. Però tale carattere nulla toglie alla loro urgenza, anche sul piano delle politiche del diritto, altro terreno molto caro a Riccardo.
Infatti la questione della formazione dei manager in sanità pubblica si lega piuttosto strettamente con la necessità di un’analisi delle ragioni della crisi della sanità italiana – crisi resa evidente dalla recente pandemia o sindemia (come ora si tende a dire con uno sguardo più ampio sulle patologie dei tempi attuali ), ma latente già da quasi vent’anni – e una prospettazione, almeno a grandi linee, delle soluzioni possibili anche de iure condendo. Non potendomi qui avventurare in analisi del genere, rimando alle brevi ma efficaci pagine scritte nell’ultimo libro di Sabino Cassese, in cui si sintetizzano efficacemente le due principali criticità della sanità pubblica in Italia: frammentazione regionalistica e organizzativa e squilibrio ospedali-territori . Le possibili soluzioni vanno disegnate a partire da questa condivisa e condivisibile diagnosi. E sono in gran parte nelle mani della politica ai piani istituzionali più alti, implicando scelte complicate a livello sia costituzionale sia legislativo. Scelte sulle quali ancora poco si può dire rispetto all’an non meno che al quando.
Questa precisazione è importante per entrare in medias res. Infatti il primo elemento su cui incentrare qualche riflessione attuale sui manager della sanità e sulla loro formazione è la consapevolezza dei limiti entro cui queste figure possono agire. Il ridisegno istituzionale della sanità – di cui comunque devono e sono, almeno in linea di massima, consapevoli tutti i dirigenti del settore – non rientra nelle loro funzioni operative. Però li obbliga ad agire in un contesto a forte e (in parte) imprevedibile dinamismo, rispetto al quale non possono assumere logiche vetero-ministeriali , ma devono imbracciare approcci e tecniche da manager del cambiamento continuo.
Proprio su questo occorre anzitutto fare brevemente il punto sulle tendenze generali in materia di managerialità pubblica, anche per capire se le spinte di sistema vanno in direzione convergente con quelle utili alla gestione della crisi della nostra sanità. Sul tema sto in questi giorni ultimando una voce (Datore di lavoro pubblico) per l’Enciclopedia del diritto, voce che mi era stata “commissionata” qualche mese fa proprio da Riccardo Del Punta e alla quale rimando per più approfondite riflessioni. Anticipo solo che a mio parere, pur non avendo rinunciato alla ricerca (talora disperata) di figure in grado di interpretare in modo moderno l’interesse specifico dell’ organizzazione nelle amministrazioni, siamo ancora ben lontani dal raggiungere assetti generali solidi sulla dirigenza pubblica, tanto normativi quanto gestionali. La sanità però è in qualche modo ancora all’avanguardia (lo è dal 1992 ) nella ricerca di una moderna managerialità. Pur senza averla ancora raggiunta (v. infra), ne ha un bisogno vitale almeno per due motivi: a) le crescenti e profonde trasformazioni che hanno investito, soprattutto negli ultimi tre anni, la sanità in tutto il mondo; b) la stagione particolare in cui è immersa la pur disomogenea sanità italiana, che vede il persistere di una scarsità di risorse economico-finanziarie, l’emergere di nuove scarsità sul piano delle risorse umane e, per converso, un enorme potenziamento di nuove risorse tecnologiche, da non utilizzare però come mero surrogato delle predette scarsità. Entrambi i problemi (giganteschi) non possono che essere gestiti con una iniezione di competenze manageriali al contempo plurime e specifiche, attraverso una miscela complicatissima di conoscenze teoriche e abilità gestionali. Questa miscela, pur avendo grandi peculiarità nella sanità, riguarda anche altri settori del nostro sistema amministrativo, sui quali il legislatore è ripetutamente intervenuto in generale con innovazioni che toccano anche strumenti e tecniche della managerialità sanitaria. In particolare, proprio al fine di una formazione aggiornata dei nuovi dirigenti come di quelli già in servizio, spicca nella nuova strumentazione la nozione di “valore pubblico” come “incremento del benessere economico, sociale, educativo, assistenziale, ambientale, a favore dei cittadini e del tessuto produttivo” (art. 3, comma 1, lett. a) n. 4 del DPCM del 30 giugno 2022 n, 132). Una nozione da non confondere con quelle più generiche di interesse pubblico o di buon andamento (e imparzialità), che restano sullo sfondo costituzionale (art. 97), ma che con la nuova espressione normativa devono assumere una ben diversa concretezza. In ogni amministrazione – comprese tutte le strutture della sanità pubblica (v. art. 6, comma 7bis, del d.l. 9 giugno 2021 n. 80, conv. con l. 6 agosto 2021 n. 113)- il “valore pubblico” deve essere infatti esplicitamente correlato a obiettivi di performance interni ed esterni alle organizzazioni, da misurare con precisi indicatori, coinvolgendo nella valutazione anche l’utenza. Questa normativa non è una novità improvvisa: da tempo la c.d. amministrazione di risultato sta emergendo ed affinandosi, pur tra mille difficoltà. Quel che qui conta è che nella formazione di tutti i manager pubblici dovrà essere sempre più centrale la nozione di “valore pubblico”, nozione certo ancora ampia e orientativa , nella quale però i manager hanno e devono avere una forte voce in capitolo proprio perché tocca a loro tradurla in una dimensione operativa e visibile a livello di ciascuna organizzazione.
3.Qualcosa può essere aggiunto a proposito dei contenuti formativi dei manager della sanità. Al riguardo nei vari tentativi di restringere l’ambito entro cui possono essere reclutate soprattutto le figure di vertice (in particolare i direttori generali della Aziende sanitarie locali) si è giunti a prevedere che per essere inseriti nell’Albo nazionale - dal quale poi attingono, dopo ulteriore selezione ad opera di apposita Commissione, le singole Regioni - requisito indispensabile è l’attestato rilasciato all’esito del corso di formazione organizzato su base regionale o interregionale in materia di sanità pubblica e di organizzazione e gestione sanitaria (art. 1, comma 4, lett. c) del d.lgs. 4 agosto 2016 n. 171) . Contenuti e metodologia di tali corsi sono definiti con Accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome, accordo stipulato nel maggio 2019. L’accordo prevede che il corso non debba durare meno di 200 ore, di cui 136 d’aula e 24 per project management e project work; consente 40 ore di formazione a distanza (indicando le materie preferenziali); definisce i contenuti, anche con riguardo ad aree e tematiche, ripartendo le ore di formazione tra le medesime tematiche e articolando ulteriormente i contenuti all’interno di queste (quadro istituzionale; gestione degli acquisti e delle risorse economico-finanziarie; gestione delle risorse umane e benessere organizzativo; servizi assistenziali, con riguardo a qualità e organizzazione per reti e processi organizzativi; valutazione delle performance, con particolare riferimento ai direttori di struttura complessa; innovazione tecnologica e digitalizzazione; comunicazione e umanizzazione delle cure; assistenza sanitaria nell’UE- Fondi comunitari; anticorruzione, trasparenza, privacy; project management e project work).
L’accordo del 2019 e il relativo allegato sono interessanti e significativi. Anzitutto per l’encomiabile sforzo di avviare o creare un cultura professionale comune al top management della sanità pubblica, elemento primario per caratterizzare questa figura, anche con riguardo alla peculiare funzione, che tuttora non può ritenersi del tutto aliena dal condividere poteri e responsabilità del vertice politico . La formazione assurge dunque al rango di imprescindibile impegno per costruire una governance competente e di livello nazionale, contrastando in qualche modo frammentazione organizzativa e gestione subalterna alla peggiore politica. Però può essere pericoloso assumere l’esperienza sin qui fatta come un modello da generalizzare. Anzitutto durata, modalità e, soprattutto, contenuti sembrano disegnati su una specifica figura, quella del direttore generale, che è ben lontana dall’esaurire livelli, articolazioni e competenze dell’intera dirigenza presente nella sanità pubblica italiana. Un corso di 200 ore (l’equivalente di un paio di insegnamenti universitari) è poi piuttosto breve e, specie se “spalmato” su così tante materie e tematiche, costringe a ritmi e/o scelte selettive insostenibili. Così come la gabbia di aree e contenuti, minuziosamente definiti, può essere penalizzante o indurre ad una trattazione pro-forma di conoscenze invece assai importanti, anche nel quotidiano. Infine già dopo pochi anni, almeno l’allegato all’accordo del 2019 dovrebbe essere significativamente adeguato alle novità, derivino esse dalla realtà del sistema sanitario o dalle nuove normative. E’ vero che in quell’accordo si rinviene una definizione di “minimi” di durata e contenuti: ma è del tutto evidente che se quei minimi costituiscono “requisiti” validi su tutto il territorio nazionale per entrare in un albo dei top manager, difficilmente si potranno affermare percorsi formativi istituzionali volti a raggiungere livelli più alti.
Su queste problematiche si deve registrare pure un recentissimo intervento del legislatore nazionale che è tornato sul punto con l’art. 21 della l. 5 agosto 2022 n. 118. Questa norma impone alle Regioni di riconoscere come equivalenti al corso di cui sopra i Master universitari di II livello in materia di organizzazione e gestione sanitaria che abbiano contenuti e metodologie didattiche “coerenti” con quelli dell’accordo del maggio 2019 (modificabili da ciascun ente fino ad un 20% per ogni area tematica nel rispetto del limite minimo di 136 ore: v. art. 2, comma 2, dell’accordo 2019) . La nuova norma pare utile ad eliminare una sorta di monopolio delle singole regioni nel riconoscere questo o quel corso ai fini del d.lgs. 171/2016 (in genere vi sono semi-monopoli territoriali, a costi relativamente contenuti per i partecipanti ); è invece preoccupante perché, vincolando le Università a progettare Master parametrati sull’accordo del 2019, può sortire l’effetto di abbassare di fatto gli standard formativi dei Master universitari, inibendo comunque l’apporto che può venire dal mondo dell’alta formazione nel progettare ed erogare una formazione manageriale più approfondita e più tarata sulle tematiche di attualità.
4.Vediamo ora, seppure sinteticamente, le principali sfide alle quali il manager della sanità dovrebbe essere preparato. Qui mi avvalgo dell’avvertimento iniziale: le sfide vanno delimitate considerando quale può essere la realistica portata dell’azione manageriale, seppure di altissimo livello. Mi pare che, con questa precisazione, si possano individuare cinque grandi sfide.
La prima riguarda proprio la creazione o, volendo essere più ottimisti, la conservazione di una autentica e specifica professionalità manageriale nell’ambito della sanità pubblica. Come si sa, e si è poc’anzi ricordato, questa sfida si è aperta oltre trenta anni fa allorché è parso indispensabile ridurre drasticamente l’influenza della politica nella gestione della sanità pubblica (con riflessi su quella privata). Ne sono scaturite riforme all’insegna dell’aziendalizzazione delle strutture, della privatizzazione/contrattualizzazione delle relazioni di lavoro e sindacali e, appunto, della managerialità (da contrapporre alla politica). Si è trattato di un processo riformatore mai ultimato o valutato soddisfacente, intrecciato con la riforma dell’intero pubblico impiego, in cui presto (già nel 1998) è emerso un modello di dirigenza in cui lo specifico incarico (non il contratto di lavoro) è a termine e, in alcuni casi, si conclude al momento del fisiologico ricambio del vertice politico (c.d. spoils system). In generale questo sistema è assai discusso proprio per i suoi effetti sul rapporto tra politica e amministrazione; e molti sono stati i tentativi di ridurre drasticamente i margini di scelta dei dirigenti – specie i cd. apicali – da parte della politica. In sanità questi tentativi sono andati a segno più che in altri comparti, al punto che la Corte costituzionale ha escluso che le regioni possano adottare lo spoils system per i direttori generali delle ASL quando si rinnovano gli organi di governo regionali ; e il legislatore nazionale, a più riprese, ha ridotto fortemente sia la discrezionalità delle Regioni nel nominare i direttori generali (con il d.lgs. 171/2016 già citato) sia la discrezionalità dei direttori generali nel nominare la dirigenza di ruolo più importante e diffusa, cioè i dirigenti di struttura complessa (da ultimo v. il recentissimo art. 21 della l. 118/22, pure già citata). Questi tasselli consentono di dire che, sulla carta, l’inserimento di una professionalità manageriale specifica nella sanità pubblica è andato avanti, almeno nel senso che il reclutamento delle principali figure dirigenziali e l’affidamento di un concreto incarico, ancorché a termine, avvengono con garanzie formali di possesso di determinate competenze. Pur lasciando ancora molto a desiderare il mosaico complessivo , vi sono dunque i presupposti per aspettarsi che il top management agisca nel senso di selezionare e premiare anche ai livelli inferiori una dirigenza portatrice di una professionalità adeguata e continuamente aggiornata. Perché questo avvenga è però indispensabile che i responsabili di organigrammi e scelte, a tutti i livelli, siano realmente affrancati da eccessivi condizionamenti dei vertici politici extra aziendali. A tal fine c’è una sfida nella sfida, ancora in gran parte da affrontare: ed è quella della valutazione delle performance realizzate sia dalle strutture sia dai relativi dirigenti. Molto qui dipende da cultura e formazione dei vertici aziendali, che dovrebbero essere più attrezzati dei vertici politici veri e propri, in genere molto disattenti a queste dinamiche. Una parte importante di questa sfida di secondo grado si gioca anche con riguardo ai criteri di nomina degli organismi della valutazione, che in sanità è particolarmente complessa, vedendo una differenziazione e formalizzazione sia della valutazione riguardante le premialità annuali connesse alla realizzazione degli specifici obiettivi di performance sia della valutazione periodica (intermedia e finale) dei risultati realizzati durante lo specifico incarico dirigenziale. La prima è rimessa agli organismi indipendenti di valutazione, secondo regole e prassi non dissimili da quelli delle altre amministrazioni pubbliche (non esaltanti). La seconda – più importante in una logica di sistema – viene svolta invece da “Collegi tecnici” già previsti dal d.lgs. 502 del 1992 (art. 15, comma 5), che per genesi (rimessa dalla legge alla “contrattazione nazionale”) e attività ben poco incidono sull’effettivo miglioramento dei servizi sanitari.
La seconda grande sfida riguarda la gestione delle risorse scarse e, in particolare, la gestione delle risorse umane. Anche questa è una sfida in atto da tempo e ha dovuto subire profondi condizionamenti legati ai cicli politico-economici e, da ultimo, alla permacrisi che si trascina, quasi ininterrotta, dal 2008, con l’aggravamento dell’ultimo triennio dovuto a sindemia e guerra in Ucraina. La sanità pubblica è nell’occhio del ciclone e in perenne affanno. In questo scenario parlare genericamente di managerialità è sicuramente riduttivo, dovendosi puntare ad una moltiplicazione di capacità e strumenti in dotazione della dirigenza sanitaria che vadano ben oltre le tesi di inizi anni ’90 basate sul New Public Management (NPM) e del Management by objective (MBO). Per sintesi vale qui il richiamo a stili manageriali che potenziano la capacità di adattamento flessibile, come project management e change management . In concreto il management sanitario – come quello pubblico in generale – ha due strumenti per cercare di adeguare regole e organizzazioni alle dinamiche reali della politica, dell’economia e della società. La prima è di potenziare la propria capacità programmatoria, differenziando tempi e modi per intervenire sui vari snodi organizzativi. Qui uno strumento utile, sebbene introdotto in modo maldestro, può essere il Piano integrato delle attività e dell’organizzazione (PIAO), previsto dall’art. 6 del d.l. 9 giugno 2021 n. 80 conv. con la l. 113/21 (v. art. 6), nel quale dovrebbero confluire ed essere ben raccordati i tanti atti programmatori attraverso cui oggi devono agire gli apparati amministrativi anche in sanità. Consolante è che, nonostante la possibilità di adattamenti regionali previsti dalla norma (il comma 7-bis del citato art. 6), molte ASL e molti ospedali hanno provveduto a dotarsi di PIAO entro la prima scadenza-capestro nazionale del 30 giugno 2022. Come per le altre amministrazioni, la sfida reale è però sulla qualità dei piani integrati più che sulla loro tempestività.
Un altro strumento per una managerialità più flessibile è la contrattazione collettiva, strumento tutt’altro che nuovo e, anzi, per molti usurato. Nel comparto sanitario la contrattazione invece è particolarmente incisiva e importante, anche nell’area dirigenziale, e presenta molti aspetti problematici, anche per l’intreccio che si determina con le dinamiche sindacali e contrattuali di altri ambiti contrattuali pubblici e privati. Per questo – e pur consapevoli che la contrattazione “aziendale” è fortemente condizionata da quella nazionale – i manager della sanità dovrebbero prestare una particolare attenzione sia alle regole sia ai contenuti della contrattazione, che, se non lasciata alle logiche sindacali più corporative, può essere una preziosa risorsa per adeguare rapidamente il quadro delle regole alle esigenze di dinamicità organizzativa nella gestione delle risorse umane, anche dando spazi a istituti partecipativi moderni tarati proprio sull’innovazione organizzativa. Da non trascurare poi sono i nuovi spazi negoziali che si aprono a livello micro-organizzativo con il progressivo incedere del lavoro a distanza, specie nella forma dello smart working, meno praticato in sanità per evidenti ragioni, ma sicuramente suscettibile di proficuo utilizzo in una logica di miglioramento sia delle motivazioni personali di lavoratrici e lavoratori sia del perseguimento di specifici risultati. Tutto ciò è impensabile senza un ammodernamento profondo di cultura e modelli manageriali.
La terza sfida, intrecciata alla seconda, è quella della c.d. “sanità duale” , cioè di un sistema sanitario che oggi deve svilupparsi verso una duplice direzione: a) della maggiore prossimità territoriale; b) dell’utilizzo più spinto delle tecnologie digitali. Si tratta di linee di sviluppo coerenti con risalenti criticità e nuove opportunità: non è infatti casuale che la missione 6 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) investa esplicitamente (anche se forse non abbastanza) su: reti di prossimità, strutture e telemedicina per assistenza sanitaria territoriale, da un lato (M6C1), e su innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale, dall’altro lato (M6C2). Le due direzioni pongono problemi diversi, se non opposti. La prima richiede di potenziare la medicina generale e di base e di dar vita a case e ospedali di comunità, tutti da raccordare e integrare con le strutture esistenti in modo da erogare davvero nuovi servizi per un’utenza spesso in grave sofferenza. La seconda porta a investire su strumenti e metodologie che prescindono dalla relazione diretta e personale, entrambi in forte sviluppo e di sicuro interesse anche per facilitare l’accesso ai servizi sanitari (ad esempio il fascicolo sanitario elettronico o le varie prestazioni da remoto), ma ai quali sono connaturate utilizzazioni contrastanti con altri interessi e diritti delle persone (si riaffaccia il timore di una penetrante telesorveglianza, invero già diffusissima grazie all’uso commerciale delle tecnologie digitali) oppure facilmente curvabili al fine di evitare il contatto diretto o, addirittura, rafforzare quei comportamenti negativi che si definiscono di “medicina difensiva” (variante aggravata della “burocrazia difensiva”). Mi pare perciò che la sfida della “sanità duale” debba essere giocata tenendo quanto più possibile in collegamento le due direzioni di marcia, cioè integrando l’utenza in carne ed ossa con il ricorso alle più moderne tecnologie, coordinando “amministrazione analogica e digitale” . Anche qui il management della sanità può attingere, oltre che a nuove indispensabili competenze - in verità non sempre prontamente disponibili, ma di cui va programmata l’acquisizione con nuova metodologia - a strumenti che possono funzionare al contempo come timone e bussola. Ricostruendo con accortezza il quadro di regole che presiede l’intero processo di digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni va infatti ben messo in evidenza che gli indicatori delle performance legate alla digitalizzazione dei servizi devono incorporare la misurazione dell’impatto sociale, consentendo di rilevare comunque un miglioramento del benessere della popolazione destinataria dei servizi interessati .
La quarta sfida riguarda la riduzione del c.d. risk management, che in sanità viene essenzialmente identificato con il rischio clinico, cioè il rischio di procurare danni ai pazienti proprio con l’attività di cura. E’ evidente il nesso di questa sfida con la già menzionata “medicina difensiva”, che induce anche diniego di cure e aggrava il c.d. turismo sanitario, andando a incidere su costi e squilibri del servizio sanitario nazionale. D’altronde il contenzioso che vede coinvolti medici per danni sanitari ha raggiunto in Italia proporzioni davvero notevoli (300.000 cause pendenti) con un’incidenza economico-finanziaria di circa 10/15 miliardi all’anno . Si comprende dunque come compito del management sia intervenire su questo fronte. Non solo però con le pure importanti strategie comunicative, bensì immaginando anche la sperimentazione di modelli organizzativi che, sulla falsariga di quelli diretti a prevenire i rischi per l’integrità psico-fisica dei lavoratori, possano eliminare o circoscrivere drasticamente le condizioni in cui possono generarsi distrazione, negligenza o impreparazione degli operatori, causa spesso di danni veri o presunti. Da non trascurare è anche l’estensione della nozione complessiva di rischio di danni alla salute, estensione particolarmente importante nella sanità pubblica. Infatti la prevenzione del rischio sanitario si intreccia con l’intervento pubblico a tutela dell’ambiente, soprattutto quando degrado e inquinamento ambientale sono tali da indebolire o aggredire la salute dei cittadini. Com’è noto, da tempo esistono apparati e tecniche specifici e distinti dal sistema sanitario per agire su questo fronte . Ma permangono frequenti interazioni con le strutture della sanità, che richiedono competenza e consapevolezza da parte dell’intera dirigenza.
La quinta sfida riguarda il rapporto con la sanità privata e le tendenze, più o meno latenti, alla privatizzazione di quella pubblica. Anche qui il management della singola azienda può agire limitatamente, essendo più importanti scelte di sistema e governo politico complessivo dei territori. Però non si può tralasciare che - pur nella diversità di fonti di finanziamento, regole gestionali e contrattualistica anche del lavoro – in sanità “pubblico” e “privato” danno vita a mercati comuni in cui si scambiano i medesimi beni e risorse e si offrono servizi analoghi. Un mercato da vari anni arricchito e complicato anche dalla diffusa presenza di soggetti del c.d. terzo settore, la cui preziosa attività va però raccordata abilmente con qualità e quantità delle prestazioni erogate dalle strutture pubbliche. Non va inoltre trascurato che l’attuale assetto legislativo favorisce la compenetrazione di logiche attraverso le pur ambivalenti attività c.d. intramoenia dei medici di ruolo nelle strutture pubbliche. Molti perciò sono i fattori che inducono a favorire il più possibile convergenze e integrazioni tra pubblico e privato, governandole però nel prioritario rispetto della fondamentale funzione del servizio sanitario nazionale. Da ultimo si segnala al riguardo un fenomeno pericoloso che è il ricorso ai c.d. “medici a gettone”, cioè a professionisti dipendenti da soggetti privati (spesso cooperative) per ovviare a carenze di personale, anche specialistico. Queste prestazioni prevedono compensi piuttosto elevati, al punto tale che non solo gravano significativamente sui bilanci delle strutture pubbliche, ma inducono anche personale del servizio sanitario nazionale a dimettersi per prestare la propria attività con queste diverse, più lucrative, modalità . Anche questo fenomeno, magari da non demonizzare in situazioni di grave emergenza, richiede una gestione accurata e lungimirante da parte dell’intera dirigenza della sanità pubblica, che non può limitarsi al quotidiano, ma deve saper agire a tutti i livelli necessari per arginare vuoti di risorse e pericolose fughe di professionalità.
A conclusione di questa sintetica ricognizione delle principali sfide gestionali (e non solo) per la professionalità dei manager sanitari, una breve postilla sul ruolo della cultura giuridica nella formazione dei manager in sanità. Seppure brevemente, mi pare ampiamente dimostrata sia la centralità sia la complessità di una più robusta, ampia e continua formazione di questa fetta cruciale della dirigenza pubblica italiana. Di recente si è riproposta al riguardo una ormai antica, ma sempre attuale ricetta per migliorare le amministrazioni italiane, incentrata sulla “formazione di una comunità epistemica meno legalistica” . Per i giuslavoristi – per natura interdisciplinari e diffidenti vero l’invadenza del legislatore - è un vero e proprio invito a nozze. C’è il rischio però che quell’antica ricetta, pur riproposta da voci autorevolissime, venga propinata confinando in spazi minimi e rituali i contenuti giuridici della formazione manageriale. Sarebbe un errore, addirittura una sorta di decerebrazione dei vertici del sistema. Io auspicherei piuttosto –pensando ancora a Riccardo Del Punta e a tanti suoi studi - una comunità epistemica con una formazione senz’altro più interdisciplinare e dinamica di un passato duro a morire, ma nella quale rimanga come componente irrinunciabile una solida cultura giuridica in grado di utilizzare la risorsa regolativa come sostegno alle innovazioni che meglio coniugano giustizia sociale ed efficienza economica.