Testo integrale con note e bibliografia
Il seminario organizzato il 24 novembre 2022 dai giuslavoristi della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza romana in occasione della pubblicazione dei due ultimi contributi di Giuseppe Santoro Passarelli – il Manuale di diritto del lavoro (“Diritto dei lavori e dell’occupazione”) ormai arrivato alla nona edizione e “Realtà e forma nel diritto del lavoro”, quarto volume della raccolta di scritti (2018-2022) – ha offerto l’occasione per una riflessione sulle tematiche centrali del diritto del lavoro oggetto degli studi di G.S.P. che accompagnano, con encomiabile costanza e profondità di analisi, i cambiamenti (evolutivi o involutivi ?) della materia.
Il seminario si è tenuto in quella che era l’Aula I della Facoltà di Giurisprudenza riaperta il 19 ottobre 2022 dopo un decennio di lavori di ristrutturazione ed ora intitolata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si è trattato del primo incontro giuslavoristico nella nuova Aula magna della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza.
Il seminario non si è esaurito nel festeggiamento dell’Autore per i suoi importanti contributi, ma ha dato vita ad un vivace confronto al quale sono stati chiamati alcuni dei professori più importanti delle Università romane.
Ad aprire il seminario sono state le tre relazioni di Pietro Rescigno, Pietro Curzio e Stefano Bellomo che hanno tracciato le diverse prospettive (civilistica, giurisprudenziale e dottrinale) di declinazione della materia ed è stato chiuso da una magistrale riflessione di Luigi Capogrossi Colognesi che ha spaziato a tutto tondo dalla ricostruzione storica a quella politica del diritto del lavoro. Il confronto sui temi di maggiore attualità è avvenuto nella tavola rotonda introdotta da Giampiero Proia e proseguita con gli interventi di Ilario Alvino, Valerio Maio, Domenico Mezzacapo, Carlo Pisani e Lucia Valente.
Il materiale che la Rivista pubblica dà conto della pluralità dei tanti temi trattati in un dialogo vivace e serrato tra il pensiero di G.S.P. e quello degli interventori a cui è seguita la replica di quest’ultimo.
Non è certo utile e opportuno tentare una sintesi del dibattito che ha attraversato lo spazio che intercorre tra da due temi che da sempre costituiscono i pilastri portanti della materia: la tormenta dialettica tra autonomia e subordinazione come chiave di accesso alle tutele riservate al lavoro e la contrattazione collettiva fonte dinamica della regolazione delle condizioni di lavoro ed i soggetti (le associazioni sindacali ed imprenditoriali) che la esercitano in rappresentanza dei contrapposti interessi di cui sono portatori.
Nel primo caso il tentativo di tracciare nettamente la linea di demarcazione tra lavoro subordinato e autonomo si deve misurare con il necessario apprezzamento delle differenze - indotte dalle nuove modalità di organizzazione del lavoro, dai cambiamenti sociali e dalle innovazioni tecnologiche - via via emerse e recepite dal legislatore che ha cercato di differenziare all’interno del lavoro autonomo le molteplici modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative rese in forma non subordinata. Una differenziazione finalizzata ad articolare e modulare un sistema di protezione del lavoro autonomo quando si estrinseca in una collaborazione continuativa e prevalentemente personale avente ad oggetto prestazioni di lavoro.
Un’evoluzione legislativa che muove i suoi passi più significativi a partire dal 1973 assumendo come riferimento il coordinamento del collaboratore autonomo e si attesta (era l’anno 2015) nel suo punto più avanzato con l’enucleazione del lavoro autonomo organizzato dal committente. Un percorso, come noto, segnato dal susseguirsi di tecniche definitorie e dal dosaggio delle tutele attribuite ai collaboratori nel tentativo, mai riuscito, di contrastare efficacemente l’utilizzo fraudolento delle collaborazioni finalizzato ad occultare rapporti di lavoro subordinato. Anzi l’applicazione alle collaborazioni di alcune tutele proprie del lavoro dipendente anche con la finalità di ridurre il divario (ed i relativi costi e, quindi, il vantaggio competitivo che ne deriva) tra lavoro autonomo e subordinato sembra, invece, aver sortito l’effetto opposto avendo indotto in molti la rassicurante prospettiva di offrire un lavoro oggetto di specifiche tutele e, come tale, socialmente sostenibile.
Questi temi hanno da sempre caratterizzato la produzione scientifica di G.S.P. che non si è limitato a registrare tale evoluzione e ad esaminarne le ricadute sul piano interpretativo, ma si è fatto carico del problema di fondo, l’identificazione della subordinazione quale criterio selettivo delle tutele e la sua permanente adeguatezza.
Un tema quest’ultimo che ha raggiunto il culmine con le collaborazioni etero-organizzate espressamente ricondotte dal legislatore nell’ambito del lavoro autonomo, ma assoggettate alla disciplina del lavoro subordinato (art. 2, co. 1, D. lgs. n. 81/2015). Un intreccio quasi innaturale che può indurre a ritenere che la collaborazione, pur se espressamente qualificata autonoma dal legislatore, configuri un rapporto di lavoro subordinato.
Comunque, anche per chi, come G.S.P., si pone in questa prospettiva, resta l’alternativa tra, da una parte, l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato come misura anti-fraudolenta (o di deterrenza) finalizzata a punire (o prevenire) il committente che abbia forzato il limite della coordinazione organizzando l’attività del collaboratore e, dall’altra, la modifica della stessa nozione di subordinazione (art. 2094 c.c.) realizzata attraverso l’art. 2, co. 1, D. lgs., n. 81/2015 che la indentificherebbe nella situazione di soggezione seppur limitata alla sola etero-organizzazione (mettendo in disparte il potere direttivo, di controllo, disciplinare). Ciò in quanto nel potere organizzativo si compendierebbero gli altri poteri datoriali oppure perché la dimostrazione dell’esercizio del potere organizzativo farebbe scattare una sorta di presunzione assoluta della sussistenza della subordinazione.
Queste ipotesi, però, sollevano non pochi dubbi a partire da quello che la subordinazione punitiva, cioè applicata ad una collaborazione autonoma, ancorché etero-organizzata, evoca il tema della indisponibilità del tipo negoziale che già fu oggetto di discussione quando il legislatore impose la subordinazione alla collaborazione coordinata priva del progetto. Anche l’affermazione che l’art. 2, co. 1, D. lgs., n. 81/2015 avrebbe modificato la nozione di subordinazione dell’art. 2094 c.c. appare assai lontana, anzi contraddittoria rispetto alla volontà e al dettato legislativo che qualifica espressamente come autonoma la collaborazione etero-organizzata. Infine, anche l’idea che il potere organizzativo assorbe gli altri poteri, nel senso che sarebbe stato evocato dal legislatore alla stregua di una sineddoche, si palesa contraddetta non solo dalla tradizionale differenziazione dei poteri datoriali, ma a fortiori dal vincolante dato normativo che prevede e disciplina autonomamente ed in modo differenziato ciascuno di questi poteri.
Con riferimento al secondo tema, quello della contrattazione collettiva, la posizione di G.S.P. è improntata alla prudenza. Pur muovendo dal riconoscimento dell’importanza fondamentale della contrattazione collettiva quale fonte dinamica della disciplina delle condizioni di lavoro, G.S.P. guarda con qualche preoccupazione alla contrattazione aziendale ed al riconoscimento alla stessa della possibilità di modificare (a tutto tondo, quindi anche in peius) non solo le previsioni della contrattazione collettiva nazionale (sulla quale G.S.P. si era espresso fin dal Convegno AIDLASS di Arezzo del 1981), ma anche la disciplina legale.
Una possibilità quest’ultima affermata dall’art. 8, L. n. 148/2011 in modo dirompente e foriero di critiche molto diffuse, ma che a ben vedere l’art. 51, D. lgs. n. 81/2015 ha reso largamente praticabile e condivisibile dando vita ad un modello di rapporti tra legge e contratto collettivo nel quale la disciplina legale è sostituibile. Sostituibile in quanto l’efficacia di quest’ultima opera, salva diversa previsione dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati non solo dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ma anche dalle “loro” rappresentanze sindacali aziendali (RSA o RSU) che sono legittimati a valutare la sussistenza di interessi collettivi (ai vari livelli: di categoria, territoriale o aziendale) la cui ottimale regolazione (secondo l’insindacabile apprezzamento delle parti stipulanti) suggerisce un assetto diverso (non già soltanto più favorevole) da quello legale. Un modello che, peraltro, replica quello sperimentato fin dal 1982 con l’art. 2120, co. 2 c.c. laddove viene individuata la retribuzione da utilizzare per il calcolo del TFR, salva diversa previsione dei contratti collettivi.
Il punto della questione, quindi, sembra essere più quello della qualità dell’inderogabilità della norma legale: forte (o piena o assoluta) o debole (limitata o relativa) e la sua permeabilità da parte della contrattazione aziendale che, diversamente da quella nazionale, offrirebbe ad avviso di G.S.P. minori garanzie, in quanto più esposta a valutazioni inappropriate degli interessi collettivi a danno dei lavoratori destinatari delle pattuizioni modificative.
Il tema implica una riflessione, ben presente ed argomentata negli studi di G.S.P., sulla funzione dell’inderogabilità della legge e della standardizzazione minima delle condizioni di lavoro intangibili. Una riflessione che ovviamente non può prescindere dai cambiamenti radicali che si sono manifestati nel contesto socio-economico facendo emergere diversificazioni e contrapposizioni profonde e veri e propri conflitti tra beni e interessi un tempo ritenuti (in termini assoluti o relativi) non mediabili: salute vs. occupazione; salario vs. occupazione; stabilità vs. flessibilità; tempi di lavoro vs. tempi di vita.
Di fronte a questo scenario la domanda - che pretenderebbe di semplificare grossolanamente un tema troppo complesso per essere affrontato in questa sede - è, in primo luogo, se un bilanciamento tra questi interessi è normativamente ipotizzabile e, poi, chi è legittimato a realizzarlo.
Un tempo si sarebbe detto che l’inderogabilità della legge segna il limite entro il quale il lavoro deve essere svolto; quindi, al di sotto di tale limite l’ordinamento non ammette lo svolgimento di una prestazione lavorativa resa in forma subordinata. Ma questa affermazione vale quando l’inderogabilità è piena consentendo solo la possibilità di trattamenti in melius, quando invece l’inderogabilità è attenuata le modifiche permesse sono tutte quelle abilitate dal legislatore. Infatti, l’inderogabilità che si pone in termini intangibili è soltanto quella dei diritti costituzionalmente garantiti di cui neppure il legislatore ha la disponibilità.
Quindi se il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, prevede che le condizioni di lavoro applicabili alla generalità dei dipendenti possano essere modificate dalla contrattazione collettiva, ciò muove da e significa che lo stesso legislatore ritiene sufficiente in una certa materia anche una tutela di tipo collettivo, in quanto non vengono toccati i presidi indefettibili di livello costituzionale che, peraltro, riconosce pienezza di azione all’autonomia collettiva senza differenze rispetto al livello in cui si esprime (art. 39, co. 1, Cost.).
Quanto accennato riguarda il profilo della praticabilità normativa del bilanciamento delle tutele del lavoro in sede collettiva, ma evidenzia che la criticità maggiore è quella che concerne i soggetti (sindacali, in prima battuta, ma anche quelli datoriali) legittimati a regolare, in sostituzione della legge, le condizioni di lavoro applicabili ai vari livelli (nazionale, territoriale o aziendale).
Il tema è stato fin qui risolto ricorrendo al criterio selettivo espresso dalla formula del/da/dei sindacati comparativamente più rappresentativi che si riflette anche sulle RSA/RSU, essendo legittimate (dagli artt. 8, L. n. 148/2011 e 51, D. lgs. n. 81/2015) soltanto quelle “loro” (nelle quali il potere decisionale è nelle mani dei componenti designati o candidati dai sindacati comparativamente più rappresentativi), ma non c’è dubbio che l’interpretazione di tale formula non porta sul piano applicativo ad una risposta univoca.
Come direbbe G.S.P. la soluzione del problema resta appesa ad un intervento legislativo sulla rappresentatività sindacale, ma per farlo occorre un legislatore coraggioso che non si faccia irretire dai veti di varia natura e provenienza.