Testo integrale con note e bibliografia
1. Il materiale offerto alla nostra riflessione dai due volumi che oggi presentiamo è oltremodo vasto e sfaccettato .
E siccome molto è stato già detto, intendo procedere per suggestioni, anche perché, come immaginavo, a sistematizzare ha provveduto chi mi ha preceduto.
La suggestione forse più intensa la rinvengo proprio nel frammento in esergo che apre il Diritto dei lavori e dell’occupazione. Si tratta della citazione di una pagina giustamente celebrata di Invito al colloquio di Norberto Bobbio .
Col progredire degli anni Bobbio mi appare sempre più un classico difficile. Perché, seppure non si fatichi ad essere in accordo con quello che scrive, non è semplice per nessuno porsi all’altezza dei suoi insegnamenti.
Ad ogni modo, nel brano in questione il «positivista inquieto» per antonomasia rivendica la libertà e insieme la necessità di non piegarsi ad interpretazioni ideologiche. Bobbio scrive quelle pagine nel 1951, dunque in un contesto di forti lacerazioni ideologiche in cui gli intellettuali dell’epoca, e fra loro i giuristi, erano chiamati a schierarsi, a dichiarare e poi praticare la loro appartenenza politica alla destra o alla sinistra. Bobbio rifiuta e condanna questa forzatura richiamandosi ad una fortunata formula, quella del cd. «tradimento dei chierici».
Il riferimento è dunque ad un altro libro fondamentale di Julien Benda . Non a caso, perché Benda scriveva anche lui in un dopoguerra, e si scagliava a sua volta contro l’impoverimento culturale delle società occidentali che imputava alla progressiva subordinazione del libero pensiero agli interessi di parte ed alle pratiche del quotidiano. Accusava i clercs di essersi compromessi con l’uno o l’altro dei grandi schieramenti ideologici del suo tempo, fascismo e bolscevismo, che, pur contrapposti politicamente, si dimostravano speculari negli obiettivi e nei metodi.
Questa prima suggestione (e annessa lunga digressione che spero perdonerete) non è solo per dire della ricchezza dei riferimenti culturali che vengono innescati grazie al gioco dei richiami e dei rimandi, quanto più ancora per sottolineare un filo ideale volutamente teso tra l’opera a noi contemporanea che oggi presentiamo ed altre opere del passato, che Giuseppe Santoro Passarelli evidentemente ritiene sintoniche.
Ma allora quale è la ragione per cui viene ripresa e posta nell’incipit proprio quell’accorata denuncia dell’inizio degli anni Cinquanta? Perché l’Autore l’ha scelta e la segnala ai suoi studenti di oggi?
Studenti che voglio qui sottolineare, visto che molti di loro sono presenti, evidentemente ritiene debbano prepararsi a divenire, non tanto e non solo magistrati ed avvocati del lavoro, ma futuri intellettuali.
A mio avviso, additare il rischio di cadere nella trappola della precomprensione ideologica equivale anzitutto a consegnare una chiave di lettura, utile tanto ad introdurre il giovane lettore alla trattazione che lo attende, quanto ad indicargli fin da subito la postura corretta che occorre assuma. Come certi maestri di un tempo, che alle scuole elementari passeggiavano tra i banchi apparentemente per sorvegliare e punire, salvo poi richiamarci, con sollievo generale, a non assumere vizi posturali in futuro così difficili da correggere.
Si tratta dunque di identificare meglio qual è secondo Giuseppe Santoro Passarelli il vizio posturale tipico del giuslavorista che è bene fin da giovani prevenire.
Ma su questo tornerò, se avrete pazienza, alla fine (cfr. n. 5).
2. La seconda suggestione che voglio condividere l’ho rinvenuta ragionando su cosa hanno in comune i due volumi che presentiamo, così distanti per funzioni ed obiettivi.
Ecco a me sembra che li accomuni la volontà di ribadire che la funzione del diritto del lavoro è, e deve restare, «la tutela della persona del lavoratore come valore primario indeclinabile» .
Anche qui è praticamente impossibile non essere d’accordo.
I problemi vengono non appena iniziamo a prendere sul serio quella formula, perché subito ci accorgiamo che non è poi così semplice.
Tant’è che, proprio mentre noi lettori avvertiamo di essere in accordo, subito l’Autore ci incalza con un’avversativa: «E tuttavia, come si è già accennato, la tutela della persona è un principio che precede e non va confuso con il diverso principio del contemperamento degli interessi dell’impresa con quelli dei lavoratori» .
Il primato del principio personalista prescinde dal contemperamento e non può essere oggetto di contemperamento .
Il fondamento del contemperamento con gli interessi dell’impresa risiede altrove, nell’art. 41, co. 2, Cost., dove si dice che l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale - che secondo Giuseppe Santoro Passarelli è un istituto trascurato dai giuslavoristi, sul quale il nostro ha invece idee molto chiare, ravvisandovi una «empty box» che deve essere riempita di contenuti normativi dal legislatore e, conseguentemente non può non risentire dei mutamenti delle diverse maggioranze parlamentari - e in modo da non recare danno alla sicurezza, libertà e dignità della persona.
Ma che significa affermare che quello personalista è un principio che va posto fuori dal contemperamento?
Sebbene la Consulta, penso al caso ILVA , ci ha detto chiaramente che neppure la salute lo è in senso assoluto, la tutela della persona rappresenta dunque un valore tiranno?
É evidente, siamo di fronte ad un passaggio fondamentale nella ricostruzione del nostro, su cui val la pena indugiare ancora un poco.
Ovviamente, nessuno può ignorare che dietro la formula linguistica della anteriorità della persona si rinviene una gloriosa tradizione del pensiero, di ispirazione principalmente cattolica.
Non è necessario scomodare il Codice di Camaldoli od i pensatori personalisti, come Rosmini o Maritain , perché varrà qui riprendere direttamente quanto disse Dossetti il 9 settembre 1946 durante i lavori costituenti della I Sottocommissione: «la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche» che la Costituzione «deve soddisfare è quella che riconosca la precedenza sostanziale della persona umana rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella» .
Ecco la presa d’atto della precedenza della persona umana. La conferma che «la tutela della persona è un principio che precede» non solo nel senso che si colloca nella parte prima della nostra Costituzione, all’art. 3, co. 2, dove è sancita la tutela della dignità e la promozione della persona umana fino al suo «pieno sviluppo».
Ma anche nel senso che «l’anteriorità della persona», come precisò ancora Dossetti, «è concetto tanto etico quanto giuridico» che «deve esser stabilito non tanto per una necessità ideologica, ma per una ragione giuridica… e i giuristi hanno bisogno di sapere quale è l’impostazione logica che sottostà alla norma» .
Credo valga la pena solo aggiungere in questa sede quanto ci ricorda la storiografia giuridica, e cioè che sulla anteriorità della persona convergerono anche le forze di sinistra, come attesta il benestare esplicito dello stesso Togliatti .
Dunque può trovare legittimazione storica, ancor prima che ideale e culturale, la lettura della nostra Costituzione come carta personalista.
E nella medesima trama trova legittimazione anche l’affermazione di Giuseppe Santoro Passarelli, per cui non devono essere confusi il principio personalista, che antepone la tutela della dignità della persona, con il pur necessario contemperamento tra gli interessi contrapposti dell’impresa e di chi lavora.
Principio lavorista e tutela dell’iniziativa economica secondo Giuseppe Santoro Passarelli vanno bilanciati su di un piano separato rispetto a quello in cui opera il principio personalista.
Di qui la polemica che riaffiora carsicamente con Persiani , che invece assume che, una volta accettato il modello capitalistico, spetti pur sempre al legislatore fissare il punto di equilibrio nel bilanciamento tra i valori antagonisti dell’impresa e della tutela di chi lavora, ed al giurista positivo competa prendere atto di quel contemperamento. E poi la medesima polemica anche con De Luca Tamajo, in cui Giuseppe Santoro Passarelli rivede un aggiornamento in termini di sostenibilità della tesi di Persiani .
Per Giuseppe Santoro Passarelli la Costituzione va letta diversamente, e tanto l’art. 2, quanto l’art. 3 e l’art. 4 non possono rimanere assorbiti, e così di fatto anestetizzati, all’interno del bilanciamento imposto dall’art. 41 co 2, per quanto quel bilanciamento sia sbilanciato (un «bilanciamento ineguale» per dirla con Luciani ).
Come poi si risolvono tecnicamente i conflitti che inevitabilmente si generano fra interessi e valori contrapposti resta per Giuseppe Santoro Passarelli il problema.
Su questo proverò a tornare più avanti, quando cercherò di collocare il nostro all’interno del dibattito incessante sul tema dell’interpretazione assiologica nel diritto del lavoro (cfr. n. 4).
Prima però vorrei riprendere nuovamente il Manuale.
3. Non sarà sfuggito che rispetto ai molti manuali esistenti questo si discosta già a partire dal titolo.
E non tanto per quel Diritto dei lavori, considerato che l’area del lavoro autonomo è da tempo acquisita alla materia. Quanto invece per il riferimento al diritto «…dell’occupazione», diritto che in genere, quando non viene del tutto obliterato o segregato in un testo addendum intitolato alla previdenza sociale, troviamo relegato in un capitolo periferico dedicato agli ammortizzatori sociali.
Ebbene, domandiamoci quale è allora la ragione di una simile enfasi fin dal titolo?
Nella prefazione possiamo leggere la spiegazione dell’Autore. Si tratta di una sezione che aiuta lo studente a comprendere il cd. «diritto all’occupazione» (dunque, registriamo un piccolo scarto semantico), allargando il discorso oltre i lavoratori e gli stessi pensionati, per ricomprendere quei concittadini che un lavoro non ce l’hanno, a dispetto della loro eguale centralità nel programma costituzionale, in quanto persone umane parimenti meritevoli di promozione fino al pieno sviluppo.
Per questo l’Autore intende mettere ordine ad un «coacervo di provvedimenti e istituti (Cassa integrazione Naspi, Reddito di cittadinanza), non sistematicamente ordinati e ordinabili. E tuttavia tali istituti, pur diversi per presupposti e per finalità corrispondono al comune obiettivo di garantire un minimo di reddito e di favorire o almeno difendere l’occupazione» .
Come è meglio chiarito più avanti, il “collante” è dunque l’occupazione, da favorire, nel senso di incentivare e salvaguardare.
Sempre a proposito della «Partizione della materia e funzione del diritto del lavoro», Giuseppe Santoro Passarelli descrive poi «l’emersione del diritto all’occupazione come categoria autonoma» e segnala che «infatti si tratta a mio avviso di provvedimenti legislativi e ammnistrativi che, pur potendo rientrare nell’area della previdenza sociale, tuttavia stanno acquisendo una loro identità che ha come comun denominatore non soltanto l’art. 38 Cost. ma ancor prima l’art. 4 Cost.» .
Una «identità» in formazione che non va però confusa con quella tradizionale del diritto del lavoro, che resta la tutela di chi lavora, e non certo l’incentivazione e la salvaguardia dell’occupazione di chi non lavora.
La tutela dell’occupazione pur strettamente imparentata e spesso sovrapponibile alla tutela di chi lavora, è qualcosa d’altro, svolge una funzione storica diversa, non è assorbibile completamente nel principio lavorista, e non è riconducibile agli art. 35 e ss. Cost.
La sensibilità giuridica di Giuseppe Santoro Passarelli ci segnala dunque l’impossibilità di comprendere appieno questo diverso “diritto” collocandolo nel prisma della classica contrapposizione di interessi tra lavoro e impresa.
Si tratta di una intuizione secondo me fondamentale per capire il diritto del lavoro di oggi.
Non tanto per smarcarsi da una lettura manichea e riduzionistica, quanto per comprendere che se noi continuiamo a ragionare sempre e soltanto immersi in categorie contrappositive (destra vs. sinistra per dirla con Bobbio, o lavoro vs. impresa) - categorie che pure la storia ha legittimato e certamente non sono definitivamente tramontate o destituite di ogni utilità, non voglio affatto dire questo - corriamo il rischio di non mettere a fuoco la complessità del diritto del lavoro contemporaneo, come il ruolo del giurista ci richiede.
Mi spiego forse meglio con un esempio.
All’indomani della sentenza della Consulta n. 194 del 2018 provai io stesso ad argomentare in maniera non dissimile con riferimento ai licenziamenti .
Notavo infatti che quella sentenza aveva scontentato entrambi i fronti (circostanza che, a dire il vero, mi sembrò persino un merito).
Spiegava la Corte Costituzionale che il sistema di tutela avverso i licenziamenti illegittimi previsto dal d.lgs. n. 23 del 2015 non era ragionevole, visto che ai lavoratori con poca anzianità finiva per riconoscere una sanzione volutamente irrisoria, consapevolmente né dissuasiva, né ristoratrice.
Questa parte della decisione ottenne il plauso dell’ala “sinistra” della nostra materia, mentre suscitò reprimende in quella contrapposta, che gridava all’invasione di campo (politico).
Vediamo come, man mano che il discorso si fa più concreto e difficile, prende sempre più corpo la suggestione da cui siamo partiti.
Personalmente, non mi nascondo, ero d’accordo con quella soluzione, ma non perché “dava” ai lavoratori o “toglieva” alle imprese, quanto perché penso che, pur riconoscendo il valore dell’impresa e l’impresa come valore, se non altro come luogo di occupazione e tassazione (dunque, ad oggi, strumento insostituibile per la creazione e redistribuzione della ricchezza), non ritenevo ragionevole una normativa sanzionatoria dei licenziamenti esclusivamente e dichiaratamente votata a finalità di Law and Economics.
Mentre ritenevo e ritengo che quando si regolano le sanzioni avverso i licenziamenti il primo obiettivo non può essere rendere l’apparato rimediale attrattivo per gli investitori. Perché la vicenda del licenziamento è piuttosto una vicenda del passato che chiama in causa una persona che attende giustizia. E non può venire considerata come una variabile funzionale ad una dinamica di incentivazione degli investimenti futuri. Il miglioramento dell’efficienza di mercato non può privare la persona che attende giustizia di un apparato rimediale che sia efficiente anzitutto nella prospettiva individuale, e poi, se mai, ma è secondario, anche in quella della regolazione di mercato.
Un altro fondamentale passaggio di quella sentenza non piacque invece alla sinistra giuridica della materia, che si attendeva che la Consulta travolgesse anche il campo di applicazione temporale del cd. jobs act, visto che era stato pensato per dividere i lavoratori in ragione della data di loro assunzione. L’intervento atteso avrebbe così dovuto inibire anche per il futuro eventuali velleità di riproporre un ridimensionamento delle tutele costruito sullo scambio tra job protection e job creation.
Ebbene, come tutti sappiamo, la Corte Costituzionale, anche qui a mio avviso correttamente, direi da custode di tutti i valori, ha invece fatto salvo quel campo di applicazione divisivo, perché ha ritenuto che dovesse entrare in gioco un terzo “valore” autonomo rispetto al lavoro e all’impresa: l’occupazione appunto, intesa come la tutela non di chi lavora, ma di chi un lavoro non ce l’ha. E per questo ha ritenuto che il mezzo, ossia l’introduzione di tutele certe anche se attenuate a partire da una determinata data di assunzione, non fosse di per sé irragionevole rispetto al fine, se la misura consente di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» .
La Corte Costituzionale ha così deciso, non tanto per non addentrarsi nella valutazione dei risultati della politica occupazionale del Governo Renzi, come pure gli veniva richiesto, ma per preservare la possibilità per i legislatori futuri di incidere le tutele di chi lavora, se questo può ragionevolmente servire a tirar fuori qualcun altro dal pozzo della disoccupazione.
E ci ha perciò posti di fronte alla qualificazione della occupabilità di chi non lavora nei termini di “valore” in grado di “flettere”, ben inteso sempre entro limiti di ragionevolezza, le tutele dei lavoratori.
Questo è il portato della «emersione come categoria autonoma» del diritto all’occupazione.
Mi è stato obiettato che sopravvaluterei frammenti giurisprudenziali asistematici non ancora sufficienti per la piena emersione dell’occupabilità nel pantheon dei valori .
In realtà, a me sembra che abbiamo molto di più di qualche frammento pur importante. Oltre alla sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018, non c’è solo il precedente della sentenza n. 998 del 1998, o, più in generale, l’esperienza pluridecennale di contratti formativi con retribuzioni dichiaratamente ribassate proprio per favorire l’accesso al mercato del lavoro di chi cerca un’occupazione.
L’«emersione come categoria autonoma» del diritto all’occupazione si deduce anche da molto altro.
Del resto, se diamo credito al noto paradigma di Carl Schmitt un valore è tale se è intrinsecamente antagonista di tutti gli altri, se pretende di imporsi a discapito degli altri, se ambisce al rango di valore tiranno.
Ed anche l’occupabilità si autonomizza sul piano assiologico nel momento in cui, come un vero e proprio giano bifronte, non solo pretende e legittima riduzioni (ragionevoli ci ricorda la Consulta) delle tutele dei lavoratori, ma allo stesso tempo invade il terreno e comprime gli spazi propri anche dell’iniziativa economica dell’impresa.
Pensiamo alle clausole sociali imposte all’impresa subentrante nell’appalto proprio per salvaguardare l’occupazione. Pensiamo alla disciplina della crisi di impresa, dove la «salvaguardia dei livelli occupazionali» è formula che legittima di fatto la paralisi dei normali poteri liquidatori.
Oppure pensiamo allo stesso vituperato art. 8 del cd. decreto Salva Italia, che come ci ricorda a più riprese Giuseppe Santoro Passarelli, malgrado tutto abilita tutt’ora la derogabilità in peius tanto in vista di una «maggiore occupazione» che per «la gestione delle crisi occupazionali».
Ma poi, possiamo veramente ancora parlare di frammenti asistematici dopo l’esperienza del Covid?
Cosa è stata al fondo la stagione del blocco dei licenziamenti, se non la più eclatante dimostrazione, dal dopoguerra ad oggi, della centralità (per taluni vera tirannia ) che ha improvvisamente assunto all’interno della dinamica economica e democratica il valore occupabilità, anche qui tradotto con la formula della salvaguardia dei livelli occupazionali.
L’«emersione come categoria autonoma» del valore occupazione ovviamente non cancella lo storico antagonismo tra gli interessi di chi lavora e di chi fa impresa su cui è sorto il diritto del lavoro.
Ma ci consente in taluni casi un evidente guadagno epistemologico.
4. Questa apertura alla complessità valoriale Giuseppe Santoro Passarelli non la registra peraltro solo con riferimento alla occupazione.
Altrettanto chiaramente la declina anche con riferimento «all’incidenza della disciplina europea su quella interna».
Estraggo un paio di passaggi chiave: «Quando si affronta il tema della civiltà giuridica non può essere trascurato il processo di integrazione europea, che ha introdotto valori e principi estranei alla nostra tradizione normativa nazionale: mi riferisco in particolare alla valorizzazione della concorrenza e al divieto degli Aiuti di Stato».
«A ben vedere il principio della concorrenza è uno dei valori fondanti dell’Unione Europea e ha messo in discussione il convincimento, da un lato, che il modello di sviluppo disegnato dalla volontà politica potesse e dovesse sovrapporsi ai meccanismi del mercato» «dall’altro, che l’intervento pubblico potesse sostituirsi alle leggi del mercato nel ruolo di guida del processo economico» .
Ancora una epifania dunque. Questa volta l’«emersione come categoria autonoma» della concorrenza come principio-valore di matrice eurounitaria, a sua volta antagonista rispetto agli eterni duellanti: tutela del lavoro ed iniziativa dell’impresa.
Perché il divieto di alterazione delle dinamiche di mercato antagonizza tanto con i diritti dei lavoratori, in primis quelli sindacali, come attestano le note sentenze Viking, Laval e Rüffert, quanto con l’interesse dell’impresa ad essere aiutata dallo Stato amico, falsando il gioco della concorrenza.
Ma a ben vedere la concorrenza antagonizza perfino con il valore dell’occupazione di cui abbiamo appena detto (cfr. n. 3 che precede), in un gioco assai complesso, ad esempio quando l’aiuto di stato è dichiaratamente funzionale a realizzare uno scambio tra Stato agevolatore ed impresa aiutata, finalizzato ad incrementare l’occupazione, e dunque sono della contesa anche gli interessi degli inoccupati, oltre che quello generale, o meglio nazionale, a ridurre la disoccupazione.
Possiamo a questo punto tornare alla suggestione di partenza.
Siccome è in gioco la capacità stessa di comprensione dei fenomeni in atto, Giuseppe Santoro Passarelli indica ai suoi studenti che è necessario fuggire gli schemi semplificatori il più delle volte dettati dalla appartenenza ideologica (o da una mera consonanza ideale), che pure sono pienamente leciti nella vita privata, ma non quando si opera come giuristi.
Perché il giurista, veniamo ammoniti, non si può permettere una postura viziata, se non vuole incedere nel difficile cammino dell’interpretazione con un’andatura squilibrata, che di certo non lo porterà lontano.
5. Il punto che cogliamo è allora che la complessità del diritto del lavoro attuale non può essere affrontata, o comunque in molti casi finisce con l’essere affrontata in maniera insoddisfacente, ricorrendo “pavlovianamente” ai consueti schematismi mentali incentrati sulla contrapposizione di impresa e lavoro.
Lo dimostrano i complessi bilanciamenti che impegnano a fondo l’interprete (ed il nostro anche nella veste di Garante) in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali, dove la tradizionale logica binaria è per definizione inefficiente, ed è la legge stessa ad imporre di apprezzare appieno anche l’interesse dell’utenza che si serve dei servizi pubblici essenziali .
Ma in ogni caso si tratterà pur sempre di adattare il pensiero alla realtà osservata, e non viceversa.
Per cui è ben possibile per lo stesso Autore, avuto riguardo questa volta all’impatto delle nuove tecnologie, collocare il conflitto digitale pienamente all’interno di una dinamica binaria, che può nuovamente essere tratteggiata sulla falsa riga di quella classica del conflitto industriale, perché per Giuseppe Santoro Passarelli dietro l’algoritmo, anche il più autonomo ed autodeterminato, c’è pur sempre l’impresa o meglio la sua «organizzazione algoritmica» .
Tant’è che, paradossalmente, «aumenta l’intensità del potere direttivo e di controllo» del datore di lavoro a dispetto della sua «spersonalizzazione» .
E già solo per questo il datore di lavoro che utilizza l’intelligenza algoritmica non può poi farsi scudo di quella medesima imprevedibilità che lui stesso ha immesso nel mercato del lavoro.
In conclusione, ampliare il campo degli interessi e valori in gioco, non significa non riconoscere che il diritto del lavoro vive ancora, in molti casi ed anche nelle declinazioni ultime della modernità, dell’antico bilanciamento valoriale tra lavoro ed impresa, che lo accompagnerà anche nel futuro.
Ne emerge a mio modo di vedere la figura di un positivista anomalo, che non rifugge il bilanciamento valoriale, ma allo stesso tempo non si può iscrivere neppure alla schiera di coloro che il bilanciamento valoriale lo praticano volentieri, perché ritengono così di potere prima selezionare e poi soppesare i valori sulla base dell’esito che quel bilanciamento deve avere.
Mentre va detto che quella del bilanciamento dei valori è un’arte raffinata, praticabile soltanto da chi è disposto a lottare anzitutto contro le proprie precomprensioni.
Anche perché non sta scritto da nessuna parte che il bilanciamento debba andare sempre e soltanto a vantaggio di una sola parte, anche fosse chi lavora.
Come ha esemplificato in maniera eclatante la giurisprudenza sui cd. controlli difensivi, dove il bilanciamento operato dalla Cassazione ha da ultimo correttamente messo a nudo la fragilità dell’approccio preconcetto di chi, “da sinistra”, invocava una lettura solo formalistica dell’art. 4 della legge n. 300 del 1970 per inverare un indifendibile diritto all’impunità del lavoratore.
Per Giuseppe Santoro Passarelli l’interpretazione assiologica non è però da preferire, perché reca con sé il rischio che alla norma positiva si sostituisca la tirannia dell’interprete, con il suo «intuizionismo dei valori» .
Nondimeno l’interpretazione assiologica va vista pragmaticamente come uno strumento che il giurista di oggi deve sapere maneggiare, perché la «crisi delle categorie» implica anche una interpretazione «inevitabilmente più condizionata dai giudizi di valore» , specie laddove l’approccio giuspositivista non riesce a produrre interpretazioni costituzionalmente legittime o, come spesso accade, ne abilita troppe, di segno diverso, se non opposto .
In questi casi l’interprete deve mettere mano al bilanciamento valoriale estraendo dal comune «setaccio del valori» che è la Costituzione tutti i valori in gioco, nessuno escluso, per poi considerarli con equilibrio senza precostituire valori tiranni.
Ed anzi, mi sento di dire, promuovendo i valori degli altri, ovvero quelli che sono più distanti dalle proprie precomprensioni.
Soprattutto dovrà farlo senza soluzioni precostituite (circostanza ovviamente più agevole per chi come il nostro non esercita la professione forense), anche esplicitando i dubbi che inevitabilmente lo assalgono durante la ricerca del risultato più appagante. Che potrà dirsi tale soltanto quando rappresenti la soluzione meno penalizzante per il valore destinato a venire ridimensionato o compresso.
In ogni caso la soluzione dovrà pur sempre risultare compatibile con il testo, e mai rivolgersi contro il testo , come pure sottolinea Luciani in un contributo magistrale, che è ripreso anche negli scritti che presentiamo .
La motivazione dell’interprete è dunque il momento realmente cruciale, in cui è possibile verificare se (e scongiurare che) l’interpretazione valoriale sia stata ridotta a bieca selezione del valore ritenuto idoneo a consentire la prevalenza di una tesi precostituita.
Per questo l’interpretazione valoriale non può mai essere assertiva. Ed anzi, rispetto a quella di taglio giuspositivista deve avere una eccedenza di motivazione e di chiarezza della motivazione, proprio per consentire un controllo trasparente e non scadere nell’arbitrio, che è negazione di diritto e affermazione dell’interpretazione come forma pura di potere .
Tanto vale anzitutto per il Giudice del lavoro, che è evidentemente «tenuto a dare una motivazione ampia ed esauriente che tenga conto della molteplicità dei valori sottostanti, al fine di consentire un controllo il più possibile oggettivo della stessa motivazione. In altri termini, il controllo della motivazione della sentenza deve censurare la sentenza ove il giudice sostituisca alla ragionevolezza della risposta il suo personale convincimento» . Ma non può non valere anche per la «funzione interpretativa» del «giurista in generale e quello del lavoro in particolare» .
Qui sembra di riascoltare le parole sulla centralità della motivazione come argine all’autoreferenzialità dell’interprete spese da un civilista, Giuseppe Benedetti, con il quale, a mio avviso, rinveniamo grande consonanza di metodo .
Ma potremmo anche riprendere l’«invito al colloquio» da cui abbiamo mosso all’inizio, che si chiudeva proprio con la richiesta alle due fazioni di operare una «integrazione» dei valori contrapposti. Integrazione che esige il «colloquio» non per riaffermare sterilmente le proprie posizioni, come vediamo nei dibattiti politici e alle volte anche in quelli accademici, ma per riflettere sulle diverse concezioni del mondo e del diritto che hanno gli altri, e che sono inevitabilmente diverse dalle nostre.
L’interprete che voglia davvero contemperare ha anzitutto il dovere di valorizzare e non sminuire i valori degli altri.
Prendere sul serio una simile indicazione metodologica non rappresenta certamente la strada più agevole da percorre, sebbene, senza dubbio, resti la più affascinante.
E direi anche l’unica che possa condurre realmente da qualche parte.