Testo integrale con note e bibliografia

1. Intitolare un incontro come quello odierno ai percorsi (ed ai trascorsi) del diritto del lavoro dalle origini al momento odierno avrebbe potuto apparire alquanto se non eccessivamente ambizioso se a spiegare il senso di tale formulazione non avessero già provveduto gli altissimi esponenti della Law in the books (Rescigno) e della Law in action (Curzio) che hanno preceduto il più breve e mirato intervento che mi accingo a svolgere.
La traiettoria percorsa dalla nostra materia, che pur rimanendo buona ultima per origine storica tra le disciplina civilistiche ha velocemente recuperato tale ritardo in forza della centralità assunta dal lavoro quale valore fondativo delle moderne democrazie e dei loro sistemi economici e della conseguente attenzione tanto legislativa quanto delle parti sociali, ha coinciso fisiologicamente e per tratti più o meno estesi con quella degli interpreti che del diritto del lavoro hanno vissuto in presa diretta i passaggi, gli snodi, le crisi e le fasi di riforma, profondendo un intenso impegno per la migliore realizzazione della sua funzione e di quello che per costante attaccamento alle nostre tradizioni culturali continuiamo a definire come il suo spirito.
Ed è per l’appunto ad uno tra i più attivi tra questi interpreti ed alla sua pluridecennale attività scientifica che intendiamo tributare il nostro caloroso ringraziamento, da ultimo, per i due frutti della sua opera che ci accingiamo a presentare e commentare .
Al fine di spiegare il tema ed il contenuto, apparentemente stravaganti, del mio intervento, ritengo di dover dedicare qualche momento per dar conto ai partecipanti a questo incontro di alcuni tratti della personalità, scientifica, intellettuale e non solo, del nostro omaggiato.
Questo perché al di là dei puntuali argomenti trattati nei volumi che vengono presentati nell’incontro odierno, è comune a tutti i relatori la consapevolezza del fatto che sullo sfondo di queste opere si colloca e si ripresenta, con la consueta profondità di sguardo e l’attenta percezione dei profili di maggiore attualità delle problematiche giuslavoristiche, la figura di uno studioso con cui molti di noi hanno avuto la fortuna di condividere tratti significativi del proprio percorso di ricerca.
Dal momento che l’anagrafe, penalizzandomi impietosamente, mi assegna il ruolo di allievo più anziano tra tutti i colleghi che affollano la maestosa Aula 1 della Facoltà di Giurisprudenza (finalmente restituita alla nostra comunità accademica dopo un restauro durato decenni), considero quindi parte del mio compito mettere in luce non lo spessore scientifico dell’opera di Giuseppe Santoro Passarelli che certamente non necessità di ulteriori sottolineature, quanto invece alcune note salienti del suo magistero, che riassumerei nella capacità, non scontata né diffusa, di porsi e di imporsi benevolmente ed esemplarmente (nonché assai fruttuosamente, per i suoi allievi) come un maestro “dialogante”; una capacità di cui ha costantemente dato prova nel corso degli anni.
Questa attitudine è venuta esplicitandosi in due sensi: per un verso, attraverso il costante ascolto e confronto, spesso serrato e incalzante e mai aprioristicamente orientato al dissenso o al rifiuto di soluzioni e di approcci diversi da quelli da lui ritenuti preferibili. Ma ancor più favorevole per noi che abbiamo potuto svolgere i nostri diversi percorsi di maturazione scientifica sotto la sua attenta e sensibile guida, è risultato il convinto riconoscimento della libertà di orientare i nostri studi sulle direttrici più affini alle nostre diverse sensibilità, apertura che non è mai stata oggetto di ripensamento anche nei confronti di chi si è avviato alla coltivazione di ambiti tematici alquanto distinti da quelli più frequentemente fatti oggetto di studio da parte del Maestro.
Questa propensione continua a trovare occasioni di manifestazione nei nostri colloqui privati e da ultimo ha trovato conferma nelle comuni considerazioni, emerse nei molti colloqui dedicati ai temi più discussi del lavoro post-Covid, prima di tutto con riferimento al lavoro agile, sulla sopravvenuta centralità delle questioni e dei problemi giuridici connessi ai tempi ed agli orari di lavoro, una costante e graduale crescita di densità scientifica verso la quale Santoro ha manifestato, vivacemente come sempre, l’interesse a colmare un pregresso deficit di attenzione personale .
Eppure e per converso è stato proprio grazie alle sue sollecitazioni che ormai molti anni fa ho avuto la possibilità di orientare per la prima volta i miei interessi su questa materia e di avviare così una riflessione che è proseguita nel tempo, seguendo le numerosissime evoluzioni ordinamentali e gli importanti cambiamenti di contesto i quali – per costante ammonimento del Maestro che riecheggia la lezione savigniana sul ruolo dell’elemento storico nel processo interpretativo – postulano un continuo e a volte profondo adattamento degli esiti dell’attività ermeneutica, giacché «nella nostra disciplina la fattispecie tipica non è uno strumento immutabile o una monade senza finestre impermeabile ai valori che nel tempo possono connotare e integrare la sua disciplina a seconda del contesto che la circonda. Non è neppure una fotografia che fissa una determinata realtà statica, ma è uno strumento che, per effetto dell'interpretazione, registra la realtà del fatto in divenire e da questo ne risulta integrata in un processo continuo e osmotico tra fattispecie e disciplina, senza per questo perdere la funzione di supporto per l’applicazione di una determinata normativa, eventualmente, inderogabile in un determinato momento storico» .
È questo il complesso di ragioni che spiega l’intitolazione del mio intervento, un nuovo compito assegnatomi da chi per così lungo tempo ha guidato i miei studi trasmettendomi il senso di una disciplina tanto appassionante quanto esigente perché forse più di molte altre richiede ai suoi cultori un continua verifica della solidità dei suoi costrutti (anche basilari) e di collocazione sistematica dei nuovi elementi che un apparato di fonti dal funzionamento tradizionalmente descritto come alluvionale e sempre più densamente stratificato nelle sue diverse dimensioni sovra ed infra nazionali .

2. Da quest’ultimo punto di vista è incontestabile che il complesso delle disposizioni dedicate alla disciplina della dimensione temporale dell’attività lavorativa si ponga agli occhi dell’interprete in termini esemplari, tanto con riguardo alla trasversalità della sua regolazione, che attraversa l’intero spettro ordinamentale dal livello delle fonti sovranazionali (OIL e UE) sino a quello dell’autonomia collettiva, passando per quello della legislazione interna, costituzionale e ordinaria. La risultante di questa giustapposizione è un quadro di principi e regole il cui coordinamento appare per molti profili alquanto problematico. Basti pensare, per rievocare alcuni degli animati e pluriennali dibattiti che hanno attraversato l’evoluzione di questo sottosistema normativo, alla questione del raccordo tra la normativa europea, ossia le direttive 93/104/CE e 2000/34/CE (sostituite oggi dalla direttiva di codificazione 2003/88/UE) unitamente alla disciplina nazionale di recepimento (d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66) con particolare riguardo all’istituto del riposo giornaliero, rispetto al principio costituzionale della predeterminazione della durata massima della giornata lavorativa di cui al secondo capoverso dell’art. 36 Cost. Ovvero, per un esempio più recente, al vasto contenzioso giudiziale innescato da alcune letture della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di retribuzione per il periodo feriale ed alla connessa dinamica di parziale riesumazione di un principio di onnicomprensività della retribuzione da tempo ritenuto del tutto superato. Una vicenda che richiama l’immagine di un pendolo sospinto nel suo moto oscillatorio dalle sollecitazioni indotte dai mutamenti di contesto, in questo caso di contesto ordinamentale.
È indubbiamente questa pronunciata reattività della materia dell’orario alle evoluzioni di contesto, tanto sul piano degli scenari socioeconomici che su quello della politica del diritto (si pensi al fortissimo impatto sulla sfera politica prodotto qualche anno fa dal dibattito e dalla progettualità rispetto alla prospettiva di una riduzione generalizzata dell’orario lavorativo normale settimanale a 35 ore) a farla apparire come uno dei territori maggiormente esposti e investiti dalle spinte di cambiamento della modernità anche alla luce degli importanti mutamenti di scenario accelerati o indotti dalla fase pandemica, come si dà atto, per inciso nell’ultima manuale Diritto dei lavori e dell’occupazione nelle cui pagine vengono sintetizzati gli interventi che proprio ai fini del contrasto alla diffusione del Covid-19 hanno autorizzato o reso doverosi interventi imprenditoriali di organizzazione dei tempi di lavoro che hanno ampliato la portata e l’incidenza di questa particolare estrinsecazione del potere direttivo in relazione all’obbligo di salvaguardia della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Ma oltre a questo profilo, sulla materia dell’orario convergono numerose altre posizioni ed interessi la cui incidenza sociale e rilevanza giuridica è stata anche in questo caso accentuata dagli epifenomeni dell’emergenza pandemica ma sono eziologicamente riconducibili a fattori diversi che, riassuntivamente possono essere ripartiti e riepilogati nelle trasformazioni organizzative favorite dall’innovazione tecnologica da un lato nonché, dall’altro, nel diverso posizionamento che nel comune sentire viene assunto dall’attività lavorativa e nel diverso bilanciamento di quest’ultima rispetto alla fruizione e all’esercizio di altre posizioni giuridiche. Posizioni che non appaiono più confinabili nella dimensione, per definizione subalterna e marginale del “tempo libero” e che, per una piena e compiuta realizzazione delle finalità che in molti casi lo stesso ordinamento annette loro, postulano non solamente un coordinamento puntuale con la prestazione lavorativa e quindi, prima di ogni altra cosa, con la sua dimensione temporale, ma implicano anche una delimitazione della loro estensione che logicamente e fatalmente si traduce in un’indiretta di contenimento e di delimitazione del tempo impegnato dal lavoro (espressione che per varie motivazioni non è sinonimica rispetto a quella di “orario di lavoro”).
Questo almeno in teoria. La complessità del reale induce, in realtà, a confrontarsi con una combinazione di spinte contrapposte che richiedono se non un aggiornamento quanto meno la riconsiderazione di alcuni tra i concetti e gli istituti centrali di regolazione dei tempi di lavoro.

3. Ci è stato insegnato tradizionalmente che il vincolo di orario indica in modo inequivocabile il risultato utile contrattualmente rilevante nell’attività lavorativa, un risultato il cui conseguimento viene altrettanto tradizionalmente affidato alla combinazione tra esercizio dei poteri datoriali ed eteroregolazione dell’orario di lavoro da parte dell’autonomia collettiva.
L’assolutezza di questi assunti è oggi certamente da porre in discussione, almeno in quei rapporti di lavoro nei quali l’adempimento della prestazione lavorativa viene ad essere misurato in relazione alla produzione di determinati risultati o all’apporto puntuale del prestatore di lavoro a determinate fasi o cicli dell’attività imprenditoriale e al conseguimento dei relativi obiettivi. Ne consegue che subordinazione, disponibilità del tempo e vincolo di orario non sono più elementi inscindibilmente connessi.
Vi è poi un elemento valoriale ulteriore e più fortemente avvertito che si colloca sul versante esterno rispetto alla sfera delle obbligazioni discendenti dal contratto di lavoro e si connette ai tutti i profili giuridicamente rilevanti che giustificano e postulano la separatezza tra il tempo di lavoro e gli spazi esistenziali extralavorativi; ciò in quanto, come già accennato, il tempo di lavoro è tempo volontariamente (in termini di volontà negoziale) distolto dalla vita personale del lavoratore, evocando limiti e postulando forme di tutela ricollegabili alla direttrice segnata dall’art. 2 Cost. in merito allo svolgimento della personalità ed alla sua non illimitata comprimibilità.
Integrità psicofisica e definitezza delle linee di confine tra obbligazione lavorativa e libera disponibilità del tempo risultano oggi esposte a nuove tensioni, conseguenti al fenomeno della cosiddetta time porosity , che è un fenomeno che a dire il vero interessa tanto le forme di lavoro a distanza quanto quelle presenziali.
Iperconnessione, reperibilità, interventi modificativi dell’orario nell’interesse dell’impresa sono situazioni che richiedono nuovi approcci e nuove soluzioni rispetto ai contesti pregressi caratterizzati indubbiamente da una maggiore uniformità e stabilità dei modelli di organizzazione dell’orario di lavoro. Nuovi antidoti rispetto alle implicazioni pregiudizievoli di questa comprimibilità, allo stato non agevolmente dominabile né dall’esercizio dell’autonomia individuale né, in alcuni casi, dall’autonomia collettiva.
Eppure, il diritto del lavoro, di un diritto del lavoro non storicizzato ma contemporaneo e moderno, è chiamato necessariamente ad esplicare la propria funzione regolativa su queste situazioni in coerenza con il suo generale statuto assiologico. È Santoro Passarelli a ricordarcelo, quando nel saggio del 2018 sulla funzione del diritto del lavoro ripubblicato all’interno del recente volume di studi ribadisce come la tutela della dignità della persona rimanga, anche e soprattutto nella sua proiezione dinamica, un valore primario da anteporre a quello del contemperamento degli interessi dell’impresa con quelli dei lavoratori .
È peraltro proprio all’interno e grazie anche all’ordinamento multilivello, come sottolineato nel saggio su nel saggio su Civiltà giuridica e trasformazioni sociali nel diritto del lavoro del 2018, che a partire dal dopo Maastricht ed in forma più accentuata dopo la stipulazione del Trattato di Lisbona, l’incorporazione della Carta di Nizza nel Trattato istitutivo e più recentemente con l’approvazione del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali proclamato a Göteborg nel 2017 che la dimensione sociale non può più essere considerata subalterna rispetto alle esigenze dei mercati e alle ragioni delle imprese .
A fronte di queste solidissime spiegazioni della persistente validità dell’originaria impostazione dell’impianto giuslavoristico e delle sue traiettorie evolutive ed anzi quale sua ulteriore giustificazione interviene poi la notazione, formulata nello scritto in tema di Dignità del lavoratore e libertà di iniziativa economica del 2022, secondo la quale nell’Industria 4.0 si registrano sotto diversi aspetti una dilatazione ed un’accentuazione dei poteri direttivo e di controllo rispetto alle tradizionali modalità di svolgimento. Un’accentuazione della quale le implicazioni correlate al tempo di lavoro costituiscono uno dei più importanti epifenomeni .
Le risposte che i legislatori europeo e nazionale vanno elaborando ai fini di riequilibrio o comunque di metabolizzazione di questi elementi di novità nella tradizionale architettura giuridica del rapporto di lavoro appaiono allo stato non sono, allo stato, unidirezionali.
Per citare la figura più discussa all’interno di questo scenario, l’originaria previsione che all’atto della sua introduzione avvenuta nel 2017 delineava il lavoro agile (imprevedibilmente destinato ad una diffusione massiva di lì a pochi anni) come una «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro» si è rivelata meno anelastica di quanto la formulazione legislativa lasciasse intendere.
Questo perché al di là delle dispute nominalistiche in merito alla distinzione tra lavoro agile e telelavoro, la prassi applicativa dell’istituto ha dimostrato come l’ampia fenomenologia del lavoro da remoto possa includere tanto forme di lavoro affrancate da vincoli di coordinamento temporale con l’organizzazione dell’impresa e più incisivamente orientate verso la definizione di un vincolo di risultato quanto modalità “sincrone” di esecuzione dell’attività lavorativa quasi sovrapponibili ed assimilabili, da questo punto di vista, al lavoro presenziale. Differenziazione che postula e richiede un’altrettanto realistica ed efficiente diversificazione dei regimi applicabili e non una dissoluzione ed un “occultamento” delle modalità di impiego caratterizzate da minori margini di autodeterminazione dietro l’immagine astratta e per alcuni versi utopistica di uno smartworking ideale e pienamente compatibile con l’intero complesso delle istanze esistenziali (familiari, formative, ricreative ecc.) delle lavoratrici e dei lavoratori.
La linea di demarcazione, tendenzialmente valevole per ogni variante morfologica (sia essa presenziale o remotizzata) della subordinazione, tra le situazioni ed i segmenti temporali riconducibili alla nozione di “orario di lavoro” e quelle modalità di adempimento degli obblighi lavorativi che possono esserne collocate al di fuori è stata utilmente tracciata, negli ultimi anni da quella giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha ripetutamente puntualizzato come il criterio distintivo sia da rinvenirsi nell’intensità dei vincoli imposti al lavoratore nel corso dei periodi di prontezza, evidenziando come il giudice nazionale sia chiamato a valutare se il lavoratore sia stato sottoposto a vincoli così pervasivi da incidere, in modo oggettivo e significativo, sulla sua facoltà di gestire liberamente la programmazione del tempo in cui i suoi servizi professionali non sono richiesti .
Di qui la conclusione secondo cui “un periodo di prontezza in regime di reperibilità, nel corso del quale un lavoratore debba unicamente essere raggiungibile per telefono ed essere in grado di raggiungere il proprio luogo di lavoro, in caso di necessità, entro un termine di un’ora… costituisce, nella sua interezza, orario di lavoro, ai sensi della disposizione sopra citata, soltanto qualora risulti da una valutazione globale dell’insieme delle circostanze del caso di specie, e segnatamente delle conseguenze di un siffatto termine assegnato e, eventualmente, della frequenza media di intervento nel corso di tale periodo, che i vincoli imposti a tale lavoratore durante il periodo suddetto sono di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà per quest’ultimo di gestire liberamente, nel corso dello stesso periodo, il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicare questo tempo ai propri interessi” (punto 66 della motivazione della sentenza del 9 marzo 2021, C-344/19).
La Corte individua oggi espressamente, quindi, nell’intensità di tali vincoli il parametro su cui l’interprete deve concentrarsi ai fini della individuazione del discrimen tra l’orario di lavoro e i periodi di riposo. È il grado di pervasività di questi condizionamenti che consente, appunto, di qualificare determinati segmenti temporali afferenti o all’orario di lavoro o al periodo di riposo.
Al fine di agevolare tale valutazione, la Corte di Giustizia enuncia alcuni “indici sintomatici” dell’intensità, ossia dei parametri da prendere in esame per poter effettuare una oggettiva valutazione. In particolare, sulla base di questa ricostruzione, le sentenze più recenti considerano la significatività: del periodo temporale di cui il lavoratore dispone per riprendere l’attività lavorativa dal momento in cui il datore lo richiede; della frequenza delle prestazioni svolte durante il periodo di reperibilità; della durata ‘non trascurabile’ degli interventi svolti, che comprimono la possibilità di gestire liberamente il tempo durante i periodi di inattività del lavoratore.
Possibilità che invece può essere riconosciuta come sussistente, è stato puntualizzato da ultimo dalla Corte nella sentenza dell’11 novembre 2021, C-214/20, Dublin City Council, quando anche a fronte dell’imposizione di un periodo di reazione molto ridotto il lavoratore possa godere di libertà di movimento, conservi un margine di libertà di rispondere o meno alle chiamate ed in concreto gli sia consentito coltivare il proprio interesse ad esercitare un’altra attività professionale (nel caso concreto quella di tassista) e di dedicarvi una parte notevole del tempo in cui non è impegnato negli interventi a cui partecipa in qualità di vigile del fuoco discontinuo (punto 44 della motivazione).

4. Se si conviene sull’imprescindibilità di tali premesse, occorre prendere atto che su molti versanti tanto la riflessione quanto la progettualità legislativa in tema di rapporti tra le forme di occupazione dell’industria 4.0 e le limitazioni legali dell’orario di lavoro dovranno ancora progredire notevolmente per raggiungere un grado di sufficiente compiutezza e rispondenza alle autentiche istanze protettive che la diffusione di tali nuove forme di impiego fa emergere. Il common thinking che associa al lavoro a distanza l’immagine ideale di un individuo chiamato e legittimato ad autogestire il proprio tempo di lavoro in forma prevalentemente se non totalmente libera e che, quindi, dovrebbe venire a collocarsi in un’area esterna a quella dei lavoratori nei confronti dei quali trovano applicazione la nozione ed i limiti di orario appare, anche alla luce delle esperienze applicative, evidentemente bisognoso di una verifica e di un quanto meno parziale ripensamento.
Un affinamento che dovrebbe tradursi in scelte meno radicali e tranchant di quella ipotizzata sul finire della scorsa legislatura dal disegno di legge unificato nel testo del disegno di legge unificato licenziato dalla Commissione lavoro della Camera dei Deputati il 16 marzo 2022 e volto all’adeguamento e completamento della normativa in materia di lavoro agile, che prefigurava l’inserimento delle “prestazioni rese nell’ambito dell’esecuzione del rapporto con modalità agile”, nell’elenco delle esclusioni dall’ambito di applicazione delle previsioni legislative in materia di limiti all’orario normale e massimo, di lavoro straordinario, di riposo giornaliero e di pausa nonché di sorveglianza sanitaria e di speciali limiti alla durata del lavoro notturno contemplate dall’art. 17, comma 5, del D.Lgs. n. 66 del 2003. Senza prospettare, in alternativa, adeguate soluzioni alternative per le situazioni nelle quali, viceversa, l’attività lavorativa da remoto sia caratterizzata da un significativo potere di ingerenza dell’imprenditore riguardo alle modalità temporali di svolgimento dell’attività e da una significativa estensione dell’arco temporale lungo il quale può protrarsi l’assoggettamento del prestatore di lavoro a vincoli di “disponibilità” e di “prontezza” impeditivi o fortemente limitativi della libertà di autodeterminazione dell’individuo-lavoratore e della libertà di fruizione del tempo di non lavoro.
Né può sostenersi che, allo stato, rispetto a queste esigenze la legislazione vigente predisponga adeguati strumenti di soddisfazione, limitandosi a rimettere agli accordi individuali in materia di lavoro agile l’individuazione dei tempi di riposo e delle misure funzionali ad assicurare la disconnessione (art. 19 della legge n. 81 del 2017), ma lasciando impregiudicati alcuni cruciali interrogativi di fondo sull’an e sul quomodo sulla computabilità di un “orario di lavoro” per i lavoratori agili nonché sulle finalità, sui contenuti e sugli ambiti temporali di operatività di un diritto alla disconnessione, per la cui puntuale perimetrazione continuano a risultare in verità ben poco adeguate le definizioni generali e non scevre da intonazioni retoriche (come l’aulica definizione della disconnessione come “il diritto di estraniarsi dallo spazio digitale” enunciata dal medesimo testo unico) alle quali il legislatore ricorre generosamente e copiosamente .
Più equilibrato e realistico risulta l’approccio del Parlamento europeo il quale, nel prefigurare un intervento regolativo in tema di disconnessione nella risoluzione approvata il 21 gennaio 2021, definisce quest’ultima come libertà e spazio necessariamente posizionato “al di fuori dell'orario di lavoro”, lasciando chiaramente intendere come il linea tendenziale e a contrario i segmenti temporali esterni a quelli di disconnessione siano suscettibili di inclusione (ricorrendo i requisiti generali che la stessa normativa europea associa a questo concetto) nell’orario di lavoro e nel relativo apparato limitativo.
Per la medesima ragione, la risoluzione prefigura un naturale abbinamento tra il riconoscimento del diritto alla disconnessione e l’adozione da parte delle imprese di “un sistema oggettivo, affidabile e accessibile che consenta la misurazione della durata dell'orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore”, coerentemente con quanto stabilito in precedenza dalla Corte di Giustizia nella sentenza della Grande Sezione del 14 maggio 2019, C-55/2018, Comisiones Obreras c. Deutsche Bank, esplicitando il condivisibile convincimento che contenimento del tempo di lavoro e garanzia di indisturbata fruizione del tempo di non lavoro sono garanzie complementari e coessenziali e quindi né sovrapponibili né fungibili tra loro.

5. Resta ferma, quindi, la necessità di un quadro di garanzie non solo dotato delle caratteristiche di tradizionale solidità dei presidi giuslavoristici, ma di cui venga anche formalmente ribadita la cogenza nei confronti dei lavoratori che, pur nella parzialmente inedita veste digitale, rimangono esposti a tutte le implicazioni che l’inserimento dell’individuo all’interno dell’organizzazione ed il conseguente coinvolgimento in una relazione di eterodirezione possono determinare nella sfera personale del prestatore di lavoro.
Questa consapevolezza non oblitera né si pone in contraddizione con un altro importante dato di realtà, che consegue alla dinamica di forte affermazione, anche nell’ambito del rapporto di lavoro, delle istanze individuali, connesse o meno con la posizione lavorativa ed il percorso professionale. Le tendenze verso l’armonizzazione tra i contenuti e le modalità di svolgimento del rapporto medesimo e la progettualità di vita (che include le scelte familiari come quelle formative e culturali, così come le situazioni di cura e caregiving, per limitarsi ad alcuni dei molti possibili esempi) risultano indubbiamente in deciso sviluppo, al punto che la priorità tradizionalmente accordata alla domanda di disponibilità proveniente dall’impresa appare sovente posta in discussione, come attestato dalle molteplici rilevazioni ed analisi attorno al relativamente nuovo fenomeno della Great Resignation.
Questa sempre più intensa somma di impulsi orientati verso l’assimilazione delle specificità individuali all’interno della dimensione lavorativa si traduce, come è stato osservato, in una promozione di forme di “soggettivazione regolativa” dirette a conciliare le scelte individuali con la normativa generale del rapporto di lavoro; esemplare la previsione dei patti di dequalificazione conclusi «nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita» di cui al sesto comma dell’art. 2103 c.c. come sostituito dall’art. 3 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, ma numerosi altri spazi di esercizio dell’autonomia individuale si rinvengono, e appaiono in costante incremento, all’interno del corredo di fonti legali e collettive dedicate al rapporto di lavoro.
Nell’ambito di questa dinamica di valorizzazione delle opzioni regolative adattate e per così dire “sagomate” sui tratti specifici e per molti versi non omologabili del singolo individuo-lavoratore, uno spazio veramente ampio è per l’appunto occupato dalle previsioni di legge o clausole di contratto collettivo che favoriscono interventi e forme di regolazione personalizzate dei tempi e degli orari di lavoro i quali, lungi dall’assumere un valore regressivo ed un significato di revisionistica negazione del divario di potere contrattuale, viceversa dischiudono importanti spazi di autodeterminazione funzionali proprio alla promozione di quei lavori giuridici connessi alla persona che il diritto del lavoro nel suo complesso appare orientato a perseguire.
Pionieristiche e altrettanto orientate in questa prospettiva sono, ad es. le previsioni che riconoscono l’incidenza di determinate situazioni personali come “esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale” come elementi che possono condizionare l’applicazione di determinati istituti di flessibilità nel lavoro a tempo parziale. Così come notevole è stata la risonanza accordata all’accordo concluso nel 2018 per le imprese metalmeccaniche del Baden Württemberg, che associa all’opzione individuale per la temporanea riduzione di orario l’attivazione di determinate forme di esercizio dei poteri imprenditoriali in abbinamento con ulteriori manifestazioni di autonomia individuale, al fine di pervenire al risultato della sostenibilità organizzativa quale condizione per la soddisfazione dei reciproci interessi, quello individuale alla coltivazione delle attività extralavorative realizzabile attraverso la riduzione di orario e quello imprenditoriale al mantenimento della funzionalità organizzativa mediante la fruizione di adeguati apporti compensativi.
L’elencazione tassonomica del tasselli di questo mosaico in via di composizione potrebbe essere molto estesa, ma confidando nella sufficienza dei pochi richiami sopra operati è possibile abbozzare alcune conclusioni che più che tali andrebbero considerate come linee di prosecuzione della riflessione sul Dasein del diritto del lavoro del “qui ed ora” che prendono spunto proprio dai nuovi e diversi assetti regolativi della dimensione temporale della prestazione lavorativa. Assetti nei quali, ed è la prima constatazione, l’autonomia individuale assume un ruolo potenziale più pregnante, tanto in relazione ai mutamenti organizzativi quanto con riferimento alla accresciuta rilevanza del tempo di non lavoro nella progettualità esistenziale del lavoratore.
Conseguentemente e secondariamente va precisato come questo riconoscimento dell’importanza della “fonte” autonoma individuale come fattore di edificazione del complesso di regole che disciplinano il rapporto di lavoro non equivale al conferimento di un ruolo sostitutivo, quanto piuttosto complementare alle tradizionali fonti eteronome, in particolare ai contratti collettivi che accanto ad interventi di regolazione standard possono essere chiamati all’attribuzione di diritti, facoltà, poteri di scelta che i singoli potranno essere chiamati ad esercitare, nella direzione di quella che già molti decenni fa Massimo D’Antona definiva come “individualizzazione del diritto sindacale”.
La terza ed ultima considerazione finale non verte sull’architettura ordinamentale quanto piuttosto sugli operatori (con espressione maggiormente pertinente potremmo definirli “operai”) che alla sua costruzione concorrono e vuole sottolineare l’irrinunciabilità dell’apporto dell’interprete quale migliore se non unico artefice delle operazioni di “manutenzione” del coordinamento tra la regolazione dei singoli istituti ed il generale quadro valoriale della materia che non deve essere mai perso di vista. E questa lezione è quella che con maggior vigore ed incisività viene impartita dai volumi di scritti ed all’autore a ciò rechiamo oggi il nostro riconoscente omaggio.

 

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