TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Quando parliamo di ozio di fatto mettiamo in gioco, o almeno evochiamo implicitamente, cinque dimensioni o tempi di vita della persona: il lavoro, il gioco, il riposo, il “tempo libero” e, appunto, l’ozio. Il presente testo cerca, molto sinteticamente, di introdurre chiarezza in queste distinzioni ed a partire da ciò considerarle alla luce delle trasformazioni introdotte nei rapporti sociali e nel lavoro (non solo) subordinato dalla fine del fordismo e dalla riproposizione della persona nelle attività lavorative. Trasformazioni, come vedremo, che si coagulano nella crisi dell’idea di “tempo libero” e nella richiesta di una nuova idea di ozio. Il ragionamento verrà svolto, prima dal punto di vista della singola persona, quindi introducendo anche il punto di vista della socialità (solidarietà), trascurando comunque la dimensione collettiva della “festa”, e mantenendosi sul piano dell’analisi culturale (“cultural studies”), presupponendo, ma senza approfondirla, la dimensione socio-economica.

2. Quattro di queste dimensioni sono, in un certo modo, consapevolmente e distintamente presenti già nei poemi omerici, a dimostrazione che nella nostra cultura sono considerate da sempre parti essenziali del tempo della nostra esistenza. L’ozio di Omero è un tempo di convivialità, non disgiunta dal gioco, con finalità formative e morali (come il banchetto di Alcinoo nell’Odissea; Omero, 1991 335-36), anche se non è la schole (otium) di Aristotele che ha il carattere della speculazione; quanto al “tempo libero”, invece, è una concezione recente, legata al sorgere della società industriale e della centralità, in questa, del lavoro (Burke, 1995).

Il riposo è inteso già in Aristotele come un intervallo di tempo, corrispondente alla sospensione di una o più attività, finalizzato alla ripresa dell’attività stessa. Quindi il riposo non ha propriamente una finalità autonoma. La sua misura e qualità sono calcolate in funzione dell’attività da svolgere successivamente, e del successo ottenuto in questa. Il senso del riposo appartiene, quindi, al suo opposto, all’attività. La neutralità di questa dimensione è indicata anche dal fatto che essa può essere un intervallo di tempo o sospensione di un’attività che può essere indifferentemente lavoro, gioco, tempo libero o ozio. In altre parole, soltanto il riposo può essere inteso come non attività, a parte quella mentale che non si arresta mai.

Il gioco, che è un’attività, ha una forma ben definita e indipendente dal tipo di gioco che si svolge. I giochi hanno una loro storia e si presentano con regole e contenuti innumerevoli e mutevoli nel tempo, mentre la forma del gioco ha una sua fissità. Il gioco è un’attività scelta liberamente e fine a sé stessa, cioè libera, che dà le soddisfazioni, che può offrire, nel compimento del suo svolgimento, il quale è libero da finalità esterne. Questa libertà non significa che il gioco sia senza regole, a cominciare da quelle che fissano le condizioni di partecipazione, di svolgimento e termine dell’attività. Ci sono giochi più o meno impegnativi, ma ognuno prevede abilità, creatività capacità di risolvere problemi, ecc. Insomma concentrazione e anche fatica. Ma tutto questo impegno è finalizzato a sé stesso e la gioia del gioco consiste nell’attività soddisfatta di sé stessa secondo il rispetto delle regole. Il gioco può essere individuale o collettivo, ma il paradigma non cambia, se non perché quello collettivo comporta capacità relazionali di cooperazione e/o di competizione. Il gioco ha anche una sua moralità, perché richiede la responsabilità del rispetto delle regole che lo definiscono. L’ imbroglio delle regole toglie senso al gioco, al posto del quale rinveniamo un’attività che non è un gioco perché priva di regole liberamente condivise .

Anche l’ozio è un’attività, a meno che non venga inteso come “dolce far niente”, ovvero come una versione del riposo, se non addirittura come accidia - ciò che è accaduto nel cristianesimo e in particolare nel protestantesimo (puritanesimo). Come attività l’otium ha molti caratteri del gioco, a cominciare dall’essere una attività scelta liberamente e disinteressata, cioè fine a sé stessa. Dal gioco lo differenziano i contenuti e il tipo di responsabilità nei confronti dell’attività. Gli antichi greci chiamavano il gioco paidia per indicare che i suoi contenuti erano materia da ragazzi. Aristotele, che ha inventato la dottrina dell’ozio (schole) intellettuale (bios theoretikos), quale tempo di vita separato dagli impegni (praxis), individua nella verità (aletheia) il contenuto dell’ozio, ed il suo senso morale nella ricerca della verità che innalza il saggio sino ad una dimensione divina. Questa idea dell’ozio come conoscenza disinteressata dal valore e dalla felicità eccellenti è una concezione che la nostra civiltà non ha mai smarrito, conservando l’idea che la dimensione della ricerca scientifica possa dare il senso ad una vita interamente dedicata alla conoscenza (bios theoretikos). Una conoscenza, sottolineiamolo, che non è solo scientifica, ma che ha pure un valore pratico, anche se questo valore morale solo in Epicuro riesce a comprendere alcuni caratteri emotivi e sentimentali.
Questa idea di ozio, in Aristotele (Etica nicomachea), non è in opposizione al lavoro (poiesis). L’opposizione, la rottura, è nei confronti della praxis. La quale indica essenzialmente le attività politiche e civili dei ceti e dei cittadini dirigenti la polis; non ha una finalità esterna, è cioè un’attività libera fine a sé stessa, fonte di felicità (eudaimonia), ancorché limitata dagli impegni (ascholia) che assorbono la vita del cittadino. Solamente la rottura nei confronti della praxis, cioè dagli impegni di questo tipo di attività, può aprire alla forma eccellente di felicità, alla contemplazione (theoria) e ad una vita interamente e non occasionalmente dedicata alla ricerca della verità. La dialettica, quindi, è tra due forme di vita e attività libere, la praxis e la theoria - anche se in certi casi, come nell’educazione dei giovani o nel riposo intellettuale del cittadino, si ha la forma di ozio civile (otium) che avrà la fortuna che conosciamo. Invece la poiesis (lavoro manuale, fabbricazione) ha un fine ad essa esterno, la produzione; non appartiene alle attività libere fini a sé stesse, e non è opposta, ma estranea, sia alla praxis, sia alla theoria, appartiene alla dimensione della techne e non a quella della episteme.
Il mondo del lavoro manuale (che comprende la schiavitù), e il mondo della politica e dell’amministrazione dello Stato fondati sul discorso, non hanno alcun punto teorico in comune, neppure quello dell’opposizione. Sono due realtà culturalmente incommensurabili tra le quali si stabilisce una relazione di dominio e sottomissione in cui il lavoro non garantisce l’appartenenza alla cittadinanza della polis, anzi il più delle volte accade l’opposto, che il lavoratore non sia un cittadino, cioè una persona libera . Diverso il rapporto tra praxis e theoria che appartengono alle attività libere, dalla cui frattura liberamente decisa, si originano due tipi di felicità, una umana e una quasi divina.
In altre parole, l’opposizione tra ozio e lavoro che noi conosciamo, presuppone una valorizzazione del lavoro. Cioè una elevazione del significato del lavoro sino ad una sua possibile opposizione, scelta, nei confronti della praxis. Una valorizzazione del lavoro manuale cui corrisponde una interpretazione del bios theoretikos di Aristotele, come una specie di lavoro (“arte liberale”) e non come una attività “oziosa”. L’opposizione tra lavoro (manuale e professionale) e ozio, elaborata dal cristianesimo, segna un passaggio di civiltà mediante cui il lavoro viene incluso nelle attività degne e doverose dell’uomo. Una nuova dialettica che costituisce un dato, tuttora acquisito, della nostra civiltà. Tutto questo solleva anche il problema, inesistente per Aristotele, ma tuttora esistente per noi, del rapporto tra ozio (cristiano) e lavoro intellettuale. Sarà il cristianesimo a trasformare la doppia estraneità greca tra praxis e poiesis, e tra theoria e poiesis, in una doppia opposizione. E sarà la società moderna e industriale a capovolgere il senso di questa opposizione, facendo della produzione il valore centrale, e della conoscenza, il tempo della schole, qualcosa (scienza-tecnica) che vale soprattutto nella misura in cui facilita la produzione e l’organizzazione della società incardinata sul lavoro produttivo. Una conoscenza che ha valore perché si impadronisce delle leggi della natura (Francesco Bacone) che permettono il dominio e la trasformazione secondo gli interessi umani. Una natura, perciò, che non è più considerata, come nell’antichità greca, come qualcosa di immutabile (physis). Ma conoscibile, dominabile e trasformabile (come anche nella Genesi).

3. Nel cristianesimo, che ha valorizzato il lavoro manuale, la doppia estraneità greca viene ridescritta, all’interno del precedente spazio dell’ozio, come polarità tra un ozio “buono” e uno “cattivo”, tra speculazione e preghiera dedicata a Dio, da una parte, e ozio nei confronti del lavoro che allontana da Dio, dall’altra. Sottoponendo in questo modo l’ozio ad una grande trasformazione in cui, da un lato, come “ozio buono”, si intreccia col lavoro: l’ Ora et labora di San Benedetto; dall’altro, invece, rappresenta in una dimensione totalmente negativa che rifiuta, insieme, lavoro e Dio. Quindi il lavoro apre e avvicina a Dio quanto “l’ozio buono”. A sua volta la società borghese, che eredita sia l’opposizione sociale tra lavoro manuale e intellettuale, sia la valorizzazione cristiana del lavoro, eleva il lavoro produttore di ricchezza a valore sociale centrale, inventa il “tempo libero” come dimensione che ridescrive l’ ozio civile col tempo di consumo, e svaluta l’ozio intellettuale in quanto ricerca inutile perché disinteressata.
A questo punto, invece della quadripartizione aristotelica del tempo di non lavoro in riposo, gioco, praxis e ozio, dopo il cristianesimo e la rivoluzione industriale, rinveniamo: “dolce far niente”, gioco, preghiera, speculazione, “tempo libero”, lavoro intellettuale (utile o disinteressato). Nell’Ottocento il riposo e il gioco rimangono, nella sostanza, quello che sono sempre stati. La preghiera, evitando di limitarsi in una pratica privata, si aprirà alla “questione sociale” (enciclica Rerum Novarum, 1891). L’ozio, nella seconda metà del secolo, conosce una rivalutazione contro l’accelerazione delle attività e della vita della società industriale, sino ad aprirsi ad una riscoperta della schole in chiave civile. Questo accade, sia in ambito marxista, come liberazione dal lavoro manuale grazie alle macchine (Lafargue, 1971), sia, in piena Belle Époque, in ambito intellettuale, come attività conoscitiva fine a se stessa (Wilde, 2006 1123 e passim; Stevenson, 2012). Questo rinascimento dell’otium (che ignora la questione dell’accidia ormai marginale), si rifà espressamente ad Aristotele e, in certi casi, al mito aristotelico del lavoro svolto dagli automi che il filosofo riprende da Omero e ripropone nella Politica.
In conclusione, per le tematiche che qui ci interessano, socialmente il Novecento si apre con due dimensioni del tempo di non lavoro: il “tempo libero” di massa e l’otium rivisitato in termini intellettuali e politici. In questo secolo il “tempo libero” aumenterà notevolmente, mentre la separazione tra lavoro manuale e intellettuale si assottiglierà. Filosoficamente, permane il valore della speculazione, erede della metafisico antica e del cristianesimo. Si tratta ora, molto sinteticamente, di capire il significato di tutto questo cercando anche di tracciarne il senso.

4. Il “tempo libero” non consiste, in una mera ridescrizione del riposo come intervallo del tempo di lavoro. Propriamente si tratta di un «tempo liberato» piuttosto che «libero» (Friedman, 1966 148). Tanto più che questo tempo diviene un mercato dell’industria dei prodotti e dei servizi materiali e immateriali consumabili in esso. Ma occorre riconoscere: 1) che questo “tempo libero”, rispetto al riposo come mero intervallo tra due attività, corrisponde - nell’epoca della centralità del lavoro parcellizzato -, al bisogno di attività autonoma negata nel lavoro; e, 2) presenta uno sviluppo così rilevante, in termini di quantità (ore), rispetto al tempo di non lavoro delle età precedenti che costituisce oggettivamente un progresso umano. Il “tempo libero” entra in dialettica, sia con la “domenica” da dedicare al Signore, sia con la conoscenza (ozio), in quanto consumo, divertimento, spreco. É anche un tempo che possiede, nell’epoca dell’istruzione pubblica, elementi per poter essere occasione di costruzione di una coscienza critica. In ogni caso, pur avendo il pregio di porre la questione della libertà in connessione al lavoro, il carattere prevalente del “tempo libero” è quello di essere una «compensazione» e la ricerca di un riequilibrio del tempo subordinato, esecutivo e non creativo del lavoro industriale di massa, e perciò di essere un tempo predisposto alla passività e alla «pseudo-attività» (Adorno, 1969 90 e 88).
Inoltre il “tempo libero” da un lavoro esecutivo e eterodiretto non può essere la conquista di una effettiva libertà, che poi dovrebbe terminare alla ripresa del lavoro. Questo è l’aspetto più debole dell’idea idi ozio contenuta nel Diritto all’ozio (paresse) (1880) di Paul Lafargue (Lafargue, 1971). Si tratta di una concezione astratta dell’ozio che ha contagiato, a partire da Lafargue, molte analisi della società industriale. È infatti impossibile essere schiavi nel lavoro e liberi dopo il lavoro, oppure liberi nel non lavoro e schiavi nel lavoro. In altre parole è impossibile un’esperienza di tempo libero (e non semplicemente liberato) senza libertà nel lavoro. Questo, ancorché nel contesto di una società escludente e signorile, è anche l’insegnamento di Aristotele: una attività libera in maniera eccellente (theoria) può derivare solo da un’altra attività libera (praxis). Schole non è una fuga dal lavoro.
In questo senso, le preoccupazioni di Bertrand Russell o di John M. Keynes , che l’aumento del “tempo libero” causato dall’incremento costante della produttività, avrebbe creato un problema sociale per l’incapacità dei lavoratori di trascorrere in maniera attiva il “tempo libero” aumentato cui non sono stati educati, è un ragionamento che presuppone l’immodificabilità del lavoro e in questo senso un discorso conservatore, che in fondo è anche astratto. Infatti, perché solo il “tempo libero” dovrebbe mutare (in quantità), mentre il lavoro non rinvenire nell’aumento della produttività, e quindi nel sapere sociale e personale impegnato nelle attività, l’occasione di un suo mutamento qualitativo? Più precisamente l’occasione di sviluppare, sulla base della maggiore conoscenza e formazione impegnate nel lavoro, una attività in grado di rendere il lavoratore più creativo, autonomo, attivo, e quindi capace di impiegare altrettanto creativamente, liberamente e attivamente il maggiore tempo di non lavoro a disposizione ? In altre parole, il problema è il lavoro alienato perché subordinato (Braverman, 1978 57) e non il “tempo libero”. Il problema non è di educare chi lavora in modo subordinato al “tempo libero”, ma semmai di sostenerlo nella battaglia per la conquista di maggiore libertà nel lavoro.
In ogni caso Il ragionamento di Russell e di Keynes pone oggettivamente il problema di un ozio come attività creativa oltre il “tempo libero”, perché quest’ultimo, come si è detto, è effettivamente incapace di liberare le persone che svolgono un lavoro privo di libertà. L’aumento del tempo di non lavoro pone oggettivamente il problema della qualità di questo tempo. Ma, appunto, il problema si risolve a partire dalla qualità del lavoro e non dall’educazione al “tempo libero” in presenza di un tempo di lavoro “alienato”; una educazione non in grado di eliminare la duplice passività della persona, e nel lavoro e nel tempo liberato. Ed in effetti i processi sociali non sembrano andare in direzione opposta. Ad esempio gli esperimenti di una settimana di quattro giorni lavorativi sono portati avanti dalle imprese in cui il lavoro è organizzato in maniera più innovativa e coinvolgente. Invece questa misura organizzativa non è possibile adottarla nelle imprese poco innovative e fondate sul risparmio orario del costo del lavoro. In altre parole la qualità e la quantità del tempo liberato diviene un fattore di divisione e di concorrenza (per attirare talenti) tra le imprese.

5. Questi processi appaiono confermati anche dalla ricerca del sociologo americano-canadese Robert A. Stebbins, forse attualmente il più noto esponente dei «Leisure Studies». A partire dagli anni ottanta del Novecento, quindi in piena crisi del fordismo e di sviluppo dell’economia e del lavoro della conoscenza, Stebbins propone il concetto di «serious leisure» con cui intende andare oltre quello di “tempo libero” («free time»), oltreché di idleness (ozio), ancora impiegato da Russell. Potremo tradurre «serious leisure» con “ozio creativo” o “ozio impegnativo”, oppure più letteralmente con “tempo libero serio” o “impegnato”, tenendo comunque presente che Stebbins lo usa quasi col significato di schole o di otium classico, ed infatti a questo proposito cita (talvolta in maniera filologicamente discutibile) testi di Aristotele e di Cicerone. Si potrebbe, quindi, intendere serious leisure come un otium pensato per una società postindustriale, in cui non solo gli aristocratici e le élites sociali svolgono attività e professioni di elevato e medio livello professionale ed hanno il tempo e la cultura a disposizione per svolgere attività di leisure interessanti. Insomma una specie di ozio democratico, ovvero una versione borghese dell’otium.
Stebbins distingue tra «serious leisure» (attività sistematiche che richiedono abilità, ad es. tennis giocato seriamente ancorché dilettantisticamente, da «amatore»; oppure comporre e suonare musica da dilettante, svolgere attività autoespressive, teatro, letture sistematiche di un autore, ecc.) ; «casual leisure» («svago occasionale», di per sé gratificante, che non necessita di particolari abilità, di breve durata, ad es. passeggiare, vedere TV, mangiare in compagnia, ascoltare musica, ecc.); e «project-based leisure» (tempo libero basato su un progetto a breve termine, una impresa creativa occasionale, ad es. turismo, giardinaggio, attività di kit, gita in canoa, una salita in montagna, ecc.). Va da sé che la differenza non è semplicemente nel tipo di attività, ma soprattutto nella maniera di svolgerla: una stessa attività può essere svolta seriamente, occasionalmente oppure progettata occasionalmente.
Come Lafargue, Russell e Keynes, Stebbins, non si pone il problema del cambiamento qualitativo del lavoro. Stebbins è un sociologo e le categorie che abbiamo ricordato gli servono per analizzare la realtà del tempo liberato aumentato per la minore richiesta di ore lavorate (Stebbins, 1982), e che egli indaga attraverso interviste. «Serious leisure» risulta così essere una consistente realtà sociale, almeno in determinati paesi e in una certa misura, e non è il “tempo libero” passivo della riflessione critica della sociologia novecentesca (ad esempio di quella esemplare di D. Riesmann, cfr. Riesmann, 1956 e 1969). Stebbins riconosce apertamente questa novità sociale e culturale, e rivendica l’originalità della sua ricerca che la evidenzia attraverso una distinzione tra «free time» e «serious leisure». Nella sua opera più nota scrive: «Il tempo libero (free time) non è qui [nel libro] trattato come sinonimo di ozio (leisure). Possiamo essere annoiati nel nostro tempo libero (free time), come può risultare dalla inattività (“niente da fare”), che ahimé, è poco interessante e poco stimolante […] l’ozio (leisure) è tipicamente concepito come uno stato d’animo positivo, composto tra gli altri sentimenti, di piacevoli aspettative e di ricordi di attività e situazioni» (Stebbins, 2007 5).
Per quanto riguarda, poi, il rapporto tra «serious leisure» e lavoro (work), in cui impiega il concetto di «estensione», Stebbins, dopo aver sottolineato che il suo «ragionamento va dal primo al secondo» - mentre nel passato è prevalsa l’idea di «discutere all’opposto: come il lavoro influenzi l’ozio (leisure)(si ricordino le note ipotesi di spillover e di compensazione degli anni settanta)» -, nota che in molti anni di ricerca sulle esperienze di «serious leisure», ha ascoltato diverse persone sostenere che «alcuni lavori sono come un ozio (serious leisure)», e quindi che «in tali lavori la linea tra il lavoro e l’ozio (leisure) è virtualmente cancellata», infatti si tratta di lavori molto «appaganti», come in «alcune professioni liberali, attività di consulenza, mestieri specializzati e piccole imprese» quando il lavoro « è essenzialmente serious leisure, in cui, tuttavia, il lavoratore trova un sostentamento, anche se non sempre altamente redditizio» (Stebbins, 2007 94-95). Quindi tra serious leisure e lavoro per Stebbins non ci sono contrapposizioni né distanze incolmabili, ci sono invece possibilità di «estensioni» in cui la distinzione tra le due attività è quasi impossibile, ovvero solamente segnata dal reddito.
Queste osservazioni sono interessanti, perché giungono a delle conclusioni molto vicine alle nostre, anche se svolte dal punto di vista opposto a quello sostenuto nel presente testo. Esse rilevano, almeno per i lavori cognitivi («knowledge workers») e le attività di più elevata qualifica e professionalità, da una parte, lo stato di transizione che esse attraversano, in cui spesso la distinzione tra lavoro e ozio attivo si assottiglia; e, dall’altra, però, l’impossibilità di superare la polarizzazione tra questi lavori e quelli “alienati” o “indecenti” senza intervenire direttamente sull’organizzazione del lavoro, questione che Stebbins non solleva. Ma è evidente che il lavoro non cambia per «estensione» dell’ozio. E quando il sociologo scrive che «alcuni lavori sono come un serious leisure», rileva l’importante e rivoluzionario fatto storico che non l’ozio (otium), come nell’antichità, ma il lavoro soddisfacente è divenuto un privilegio, ancorché non ristretto; e quindi capace di trasformare da utopia a politica realistica l’impegno per universalizzarlo, perché fondato sulla cospicua realtà sociale di un tipo lavoro storicamente affermato (e di ozio) che può essere esteso per gli stessi diritti di uguaglianza della società democratica. Ovviamente, perché questa direzione possa essere intrapresa occorre non partire dall’ozio ma dalla trasformazione del lavoro, lavoro «da cui discende tutto il resto» (Trentin 2019 271), anche l’ozio e la sua idea.

6. Con la fine del fordismo non cambia solo il lavoro ma anche il rapporto di questo col “tempo libero”, e quindi la natura di quest’ultimo. Nella misura in cui nel lavoro ricompare la persona, cioè la sua impiegabilità, l’attività richiede formazione continua, la conoscenza è indissolubilmente intrecciata con l’attività, le capacità comunicative sono strumenti essenziali della produttività e la creatività, la capacità di risolvere problemi e la responsabilità, l’autonomia e non l’esecutività sono elementi indispensabili per la produttività (Trentin, 2021 85). Allora nel “tempo libero” - come rilevano il concetto di serious leisure e quello di «ozio creativo» di Domenico De Masi -, il lavoratore ha bisogno di attività creative, attive e interessanti, come può contenerne il lavoro, senza essere necessariamente la “maledizione” e il “travaglio” dell’uomo e della donna. Attività di ozio in cui il lavoratore perfeziona e arricchisce la costruzione della propria identità, in dialettica col lavoro e con la formazione. Una identità aumentata fuori dal lavoro, ma spendibile anche nel lavoro, non solo mediante sviluppo di skill e soft skill, ma anche attraverso la cultura generale, superando le tradizionali separazioni tra ozio e lavoro, tra formazione professionale e ozio (cultura generale). In questo senso il “tempo libero” della società industriale non è all’altezza delle richieste crescenti provenienti dal lavoro postfordista che tende ad affermare, in generale, il criterio di attività motivate e interessanti. Il “tempo libero”, quindi, tende a trasformarsi in un tempo di attività di impegno, ma mantenendo una propria autonomia rispetto al lavoro, in modo da controbilanciare, in termini di attività e non di passività, il lavoro che spesso può apparire anche più interessante del tradizionale “tempo libero”. In altre parole le trasformazioni del lavoro non pongono solo la questione di una nuova idea di lavoro ma anche quella di una nuova idea di ozio. In questo senso le “Grandi dimissioni” dimostrano, che non è in gioco solo il senso del lavoro, ma anche quello dell’ozio; che se è vero che è impossibile motivare il lavoro senza una nuova idea di lavoro, è impossibile farlo senza anche una nuova idea di ozio, ovvero senza una nuova idea del lavoro nella vita personale complessiva e nella società .

7. Alla determinazione di nuova idea di ozio - svolta nell’ottica dell’ interrelazione, e non della estraneità o della contrapposizione tra lavoro e ozio, ma neppure in quella della «estensione» - può concorrere una riflessione su due temi importanti: la contemplazione e la socialità. Per il primo occorre tenere presente l’indicazione di Francesco Totaro quando, di fronte al fatto che «non di solo lavoro» si vive, avanza la questione della «speculazione» che «è attitudine disinteressata aperta a tutto l’essere […] capacità di meraviglia, di conservazione e di dono» (Totaro, 1999, 154). Della quale ciascuno può essere libero di fissare i contenuti che preferisce, rendendola una modalità del tempo di vita in vista della costruzione dell’esistenza che ha scelto di vivere (Mill, 1991). Un carattere essenziale della contemplazione è che essa, nel suo esercizio, mette tra parentesi la volontà di trasformazione, che invece è caratteristica del lavoro. E una persona ha bisogno di vedere la realtà, non solo dal punto di vista del mutamento, ma anche da quello della permanenza, «per riuscire ad attingere una dimensione dell’esistere altrimenti inafferrabile» (Ingrao, 2017 21). Tale messa tra parentesi, in altre parole, può essere intesa praticamente e non solo ontologicamente. Come una richiesta dell’essere, ma anche come una maniera di vivere l’esperienza della realtà in maniera distinta e diversa rispetto alla trasformazione. Qualsiasi esperienza o aspetto del mondo e della vita, in linea di principio, può essere visto sotto l’aspetto dell’essere oltreché del divenire, ad esempio considerandoli sotto l’aspetto del bello e non della storia, oppure del ricordo o del passato e non del futuro, ecc. Ma per la ricchezza e completezza della vita, questi appaiono lati ugualmente indispensabili, anche se appartenenti ad esperienza distinte e non sovrapponibili.
In questo modo è possibile evitare, sia opposizioni superate, sia soluzioni già avanzate e rinvenire contenuti della speculazione che non separino dal divenire della vita e del mondo, evitando il mito del valore della trasformazione infinita (come impone la questione ecologica) o l’appiattimento (“lavoristico”) sul tempo di lavoro. Eventualità che la libertà nel lavoro non è in grado da sola di evitare, dalle quali invece essa può difendersi attraverso l’ozio e la contemplazione, favorendo anche nuove forme di alleanza tra lavoro e cultura. Come fonte di contenuti dell’ozio si può pensare a una dialettica tra mutamento e conservazione, tra infinito e limite, tra il trascorrere e la lunga durata, tra egoismo della trasformazione e solidarietà dei beni comuni, tra valorizzazione e sostenibilità, tra produzione e cura, ecc., origini di contenuti per un ozio (conoscenza, speculazione, responsabilità, dono) in grado di orientare le finalità e i limiti della trasformazione (dalla sostenibilità alla solidarietà). In questo senso l’ozio avrà superato il “tempo libero” della società industriale, collocandosi in un punto cruciale delle decisioni, senza contrapporsi al lavoro, ma anzi essendone sollecitato e sollecitandolo, e senza pretendere di stabilire separazioni ed esclusioni tipo quelle, ormai anacronistiche, fondate sulla opposizione tra lavoro e linguaggio (discorso).
Per il secondo, la questione della socialità, e tenendo presente che il modello classico di ozio ha un valore soprattutto individuale, è utile ricordare il giudizio del domenicano Marie-Dominique Chenu quando scrive che il lavoro è «uno dei punti di condensazione più rivelatori ed efficaci di una solidarietà umana senza la quale ciascuno perirebbe» (Chenu, 1942 5). Chenu ha di fronte il lavoro fordista di cui intravede, attraverso l’organizzazione nel sindacato, la capacità di creare solidarietà indipendentemente, sia dalla parcellizzazione, sia dalla «classe» («Noi non abbiamo pronunziato la parola classe»: Chenu, 1942 ). Questa capacità del lavoro di creare solidarietà, che i lavoratori hanno indubbiamente vissuta anche come “coscienza di classe”, viene meno con la fine del “mito” della classe e con l’individualizzazione e frammentazione del lavoro? Oppure occorre cercarne una nuova formulazione in cui entra in gioco l’ozio?
Il liberalismo pensa il progresso sociale nella misura del progresso individuale e, utilitariamente, il bene comune nella misura del volume algebrico dei vantaggi rispetto ai mali , salvo determinare condizioni sociali che impediscono alle ineguaglianze di «ricchezza e potere» di tradursi in «benefici compensativi per ciascuno», in particolare per i «meno avvantaggiati», (Rawsl, 1971 30); oltreché privilegiare, in nome dello sviluppo, le capacità antisociali (egoismo, concorrenza, invidia, violenza, cinismo, avidità, ecc.), che in assenza di uguali opportunità non si traducono in «virtù sociali» (Mandeville, 2002) e quindi bloccano lo sviluppo dell’ «uguaglianza sostantiva» (Rawls, idem), base della cooperazione sociale. Le disuguaglianze, morali e materiali, che la nostra società esibisce, non sono certamente aggredibili semplicemente attraverso l’ozio. Ma un ozio che superi l’idea di una socialità meramente razionale basata sull’universalità della conoscenza, capace di introdurre l’idea di una socialità costruita sulle passioni aggreganti e non solo sui «vizi» che divengono «pubbliche virtù», potrebbe essere un paradigma culturale che contribuisce a ristabilire la cooperazione nel lavoro e a favorire una vita collettiva assai meno conflittuale. In fondo questa era anche l’idea di Aristotele, che i giovani dovessero essere educati all’ozio per evitare che, come gli Spartani, pensassero solo alla guerra. Nell’ozio di Aristotele era escluso il lavoro e la sua predisposizione ad educare alla socialità. Vi erano invece, come educazione alla socialità del cittadino, la musica, le lettere, la ginnastica, ecc. (Aristotele, 2000, VIII, 3). Ma dopo il fordismo e la riproposizione della persona nel lavoro, perché non pensare ad un nuovo nesso tra razionalità e sentimenti della socialità, tra conoscenza, abilità, efficienza, da una lato; e solidarietà, cooperazione, fratellanza dall’altro, in una sintesi di libertà, creatività e responsabilità realizzabile nel lavoro come fondamentale esperienza per la convivenza sociale? Questo, appunto, a partire dal superamento della estraneità e della contrapposizione tra ozio e lavoro e dalla trasformazione del “tempo libero” in una esperienza di ozio distinto e interconnesso col lavoro.

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